We will meet again

Torna in mente Pessoa, quando – certo, immaginando scenari diversi dall’attuale: imprevedibile! – affermava: “siamo diventati una moltitudine sola”.

Solitudine è la parola di questa pandemia

di Maurizio Bonanno


Si muore soli, senza la possibilità di un contatto umano. Si abita soli, se si è anziani o se si è schedati come persone fragili, perché il contatto con altri, ovvero la mancanza di solitudine, in questo momento è diventato un pericolo. Si cammina da soli per la strada, mantenendo la distanza di sicurezza dagli altri e con il volto coperto da mascherine, dalle fogge le più disparate.

Attraverso le restrizioni imposte da questa pandemia, stiamo imparando a conoscere la fatica dello stare soli, lo sforzo di trascorrere la maggior parte delle ore e dei giorni abitando come monaci in una cella, in una condizione di solitudine e di silenzio, un silenzio che non è vuoto, ma che grida perché coltiva l’esercizio del pensare, che schiamazza perché permette l’ascolto interiore, in una lotta corpo a corpo con pensieri che avvolgono fin quasi soffocarci; ci confrontiamo con le pulsioni che ci abitano dentro, con gli abissi infernali della disperazione e della noia.

Eppure, grazie ai mezzi di comunicazione che oggi la tecnologia rende possibili e svariati, teniamo vive le relazioni, manteniamo contatti altrimenti impossibili a causa di questa lontananza forzata; ma manca qualcosa di essenziale alla nostra vita: l’incontro dei volti, la bellezza degli abbracci, la semplice, eppure comunicativamente forte, stretta di mano.

Abbiamo riscoperto quella vecchia definizione di John Donne, che stava diventando come un vuoto tormentone (per via di una stucchevole pubblicità): “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso”.

John Donne, poi, proseguiva: “…ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità”.

In questi giorni, bollettini e resoconti mostrano la morte come un vago insieme, come una variabile statistica, una percentuale da conferenza stampa. Una folla anonima, come quel tragico – e terribile nella sua fredda esecuzione su camion militari – corteo di bare indistinte che avanzavano verso il vuoto. Ma ogni morto è un viso, un nome con la sua storia e gli affetti perduti, una voce che chi l’ha amata non potrà più ascoltare, tormentandosene. È un ricordo che rimarrà dolce in chi l’ha conosciuto e rimarrà vivo, quel morto resterà vivo nella mente e nel cuore di chi qui rimane avvinghiato ad un’angoscia che si nutre dell’incertezza di questi giorni.

Viviamo queste lunghe ore di diluite giornate di clausura obbligata, con fatica e angoscia crescenti, impotenti e fragili: siamo tuti sulla stessa barca, eppure siamo così soli!

Come reagire? Come ribellarsi? Come insorgere?

“Torneranno giorni migliori. Torneremo con gli amici, torneremo con le famiglie. Ci incontreremo ancora”: così la regina Elisabetta II ha concluso, pochi giorni fa, il suo discorso alla nazione, nel corso del quale ha cercato di dare forza ai suoi sudditi alle prese con il coronavirus

Ma quel discorso, quell’appello ci ha coinvolto, ha toccato anche noi. Ed a quelle parole ci aggrappiamo, speranzosi.Sì. Torneranno giorni migliori. Ci incontreremo ancora.

Appunto: We’ll meet again.


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