Volti o maschere? Frammenti di riflessioni sociologiche sulla visione pirandelliana
“C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno.”(Pirandello 1925 “Uno nessuno e centomila”)
Pirandello in “Uno nessuno e centomila” e in gran parte delle sue opere, mostra una significativa propensione alla visione sociologica della vita quotidiana, attitudine che potremmo definirla, ricorrendo ad Alessandro Cavalli, come una forma molto accentuata di “sociologia ingenua”.La visione pirandelliana dello scenario quotidiano è intrisa della dicotomia insanabile tra essere e apparire, cioè di quella tensione ambivalente, che ciascun individuo sperimenta sin dalla nascita, tra ciò che è e ciò che il contesto sociale richiede e stabilisce.
Il rapporto tra realtà e finzione, essere e apparire risiede nell’individuo stesso a partire dalla dimensione semantica che ruota attorno al termine “persona”. A tal proposito ricordiamo un aspetto alquanto interessante: originariamente “persona” era impiegato nel linguaggio teatrale per indicare la maschera, intesa come una particolare tipologia di stato d’animo che gli attori mettevano in scena. “Nel linguaggio comune e nella letteratura, lo stesso termine era (…)adoperato per indicare ciò che si vuol apparire ma non si è, la maschera appunto sotto la quale l’identità di un soggetto si cela nelle relazioni con altri”(Gallino 2014). Ciò significa che ciascuno di noi è ammantato da questa veste fittizia dietro la quale vi è una realtà differente e ignota non solo “agli altri” ma soprattutto a “sé stessi”. E’ in questa direzione che Jung riconosce la relazione di interdipendenza tra società e soggetto quando sostiene che il vocabolo “persona” si riferisca ad “(…) una maschera dello spirito collettivo, una maschera che cela l’individualità”(Jung 1921).
Tutto questo ci porta a ricordare il pensiero di Pirandello, che mostra una significativa affinità con un grande esponente del pensiero sociologico ovvero Erving Goffman, quando sostiene che gli uomini non sono liberi, al contrario, sono dei “pupi”, delle marionette nelle mani di un burattinaio invisibile, il caso, che a seconda del contesto in cui sono inseriti, assegna una parte, un ruolo da interpretare nell’immensa “pupazzata” che è l’esistenza. Ciò sottende una significativa mutabilità delle parti, dei ruoli, delle posture, in breve dei rituali quotidiani a seconda della “scenografia sociale” nella quale ci muoviamo, ma anche un significativo conflitto con ciò che sta sotto la maschera.
Si tratta di premesse metodologiche che troviamo in Goffman ,padre dell’approccio sociologico noto come “drammaturgico”. Secondo questo sociologo il soggetto può essere definito come “attore”, per indicare sia colui che compie l’azione, ma anche colui che recita. Come Pirandello, che sosteneva: “(…) il teatro, prima di essere una forma tradizionale della letteratura, è un espressione naturale della vita”(1977), anche Goffman ricorre alla metafora del teatro per analizzare la vita quotidiana, in cui la dicotomia tra essere e apparire assume i connotati di “ribalta” e “retroscena”(Goffman 1959):
- sulla ribalta l’attore interpreta una parte cercando di esercitare e stimolare il pubblico a produrre diverse tipologie di impressioni;
- nel retroscena lascia cadere la maschera e il copione e si interfaccia con il regista, colleghi ecc.
“Allo stesso modo, nelle interazioni con gli altri ciascuno di noi si sforza di produrre certe impressioni: di sostenere un ruolo, di suscitare negli altri un atteggiamento favorevole nei suoi confronti, di “salvare la faccia” – cioè di garantire che la sua identità venga presa sul serio(…). Ma vi è anche il retroscena: la sfera privata, i momenti di abbandono, quelli in cui dimentichiamo lo sforzo di presentarci in pubblico o prepariamo le nostre nuove performance”(Jedlowski 2011).
E’ importante ricordare che il teatro sia il luogo della finzione, ma tra l’attore e il pubblico si instaura un rapporto tale che ciò che viene messo in scena è preso sul serio. Nella quotidianità accade qualcosa del tutto simile, costantemente compiamo delle azioni in cui il coinvolgimento dell’altro presuppone un frame, ovvero una cornice socio-psicologica che garantisce non solo la capacità di comprendere “la parte interpretata” ma anche di anticiparla, prevederla e mantenerla quanto più possibilmente stabile nel tempo. Secondo Goffman, a tal proposito, “(…) siamo impegnati a incorniciare e reincorniciare le situazioni in cui siamo coinvolti, definendo “di che cosa si tratta” e ritagliando dunque, dai contesti in cui ci troviamo, gli elementi che intendiamo considerare come significativi”(ibidem).
Ma che succede quando un attore/ individuo si trova nella “(…)tipica situazione di trovarsi, in circostanze ricorrenti, nel personaggio sbagliato.”(Goffman 1961) ? Si tratta dell’istante, che tutti noi qualche volta abbiamo vissuto, che mostra la fragilità dei copioni che ci vengono assegnati; al contempo, si tratta di un evento che spinge l’attore sociale a ricorrere ad un qualsiasi strumento volto a ridurre al minimo la reazione della società, o meglio ancora per ripristinare la normalità. Ma Goffman, così come Pirandello, arriva ad una conclusione peculiare: la normalità altro non è che una finzione, “(…)nel doppio senso di una maschera e di una costruzione, proprio come era inteso nel verbo latino fingere, che significava insieme “far finta” e “plasmare”(Jedlowski 2011), cioè viviamo in un contesto in cui le interazioni e quindi l’ordine sociale è assicurato dalla “reciproca accettazione di un’illusione”(Gouldner 1970). Come non individuare una connessione con quanto afferma Vitangelo Moscarda in “Uno, nessuno e centomila”: “(…)La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita”.
Ed è proprio questa consapevolezza che genera costanti contrasti tra il proprio Sé e la società, ma soprattutto tra con le diverse tipologie di elementi che costituiscono il Sé. Potremmo dire, in termini psicoanalitici, che tra le maschere che indossiamo e il nostro volto, si instaura un rapporto ambivalente di amore e odio, di libertà e dipendenza. Da un lato mostriamo amore verso il personaggio da interpretare poiché rappresenta un punto fisso in un mondo di incertezze, per cui ci aggrappiamo con disperazione ai nostri personaggi per non naufragare nelle tempeste sociali; di odio in quanto “(…)una persona(…)quando pensa di non essere vista da nessuno,(…), può rompere il ruolo o uscire dal personaggio”(Goffman 1961), cioè si tenta in tutti i modi di sfuggire dal costume teatrale per dare spazio alla propria indole, si tenta di spezzare la maschera. Si badi bene, anche se fuggiamo da un personaggio, come ricorda Pirandello, andremo necessariamente ad indossare un altro costume, sicuramente diverso dal precedente, ma che comunque ci imprigionerà.
Come può risolversi, allora, questa conflittualità tra la maschera e il volto, tra l’essere e l’apparire? Pirandello fornisce tre possibili reazioni a seconda della propria personalità:
- La passività: cioè la reazione dei più deboli che accettano senza protestare le incombenze che la maschera causa, essendo incapaci di reagire, di ribellarsi, o in seguito alla delusione vissuta da un nuovo personaggio esperito. E’ il caso di Mattia Pascal e di tutti coloro che affermano “è così e nulla può cambiare.. Al massimo peggiorare”;
- L’ironico-umorismo: l’atteggiamento tipico di chi non si sottomette alla maschera, ma essendo impossibile liberarsene, fa “buon viso a cattivo gioco” e soprattutto mostra una certa attitudine alla polemica, all’ironia, all’aggressività. Si tratta dell’atteggiamento del ribelle;
- La drammaticità: tipica di chi né accetta né si oppone alla maschera, reagisce con l’annichilimento verso la vita, isolandosi dalla società fino a vivere un dramma (“Uno, nessuno e centomila”), il suicidio o la follia (“Enrico IV” e “Sei personaggi in cerca d’autore”).
E oggi, come viviamo il rapporto tra il nostro volto e le innumerevoli maschere che indossiamo? Sicuramente il modo di approcciarsi al rapporto tra la “ribalta” e il “retroscena” è molto cambiato. E’ come se in seguito allo svuotamento della dimensione privata, per effetto dell’allentamento, o meglio ancora, frantumazione dei rapporti sociali propriamente detti, si ricerchi costantemente la scena, una platea e tanto consenso, soprattutto virtuale.
Andy Warhol affermava “in futuro tutti saranno famosi per quindici minuti” e di fatto spuntano da ogni dove personaggi che millantano nuove scoperte, nuovi metodi, nuove strategie, con il solo desiderio di apparire, per cercare di affermare la propria maschera sulla società, dimenticando l’importanza della socialità e socievolezza dell’essere, che l’apparire non coglie mai nella sua totalità, essendo “vittima” delle aspettative sociali. Non si ha più fame nel senso fisiologico e culturale del termine, si ha solo un grande desiderio bulimico di riflettori accesi e ben puntati, obliando così, l’enorme sacrificio che l’essere/volto compie, sin dalla sua genesi, a costruirsi, ad edificarsi e soprattutto nel cercare di mantenere viva la propria scintilla di originalità.
E’ così che assistiamo ad una sorta di ribaltamento della situazione, non abbiamo più una lotta del volto nei confronti della maschera, ma il volto a voler essere a tutti i costi la maschera più conosciuta. “Se fino a ieri abbiamo vissuto in privato scegliendo quali parti della nostra vita rendere pubbliche, oggi viviamo in pubblico scegliendo quali parti della nostra vita mantenere private” afferma Giovannella Greco, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università della Calabria, in un’intervista pubblicata da Repubblica. Bene ha detto Vittorino Andreoli in un suo recente saggio: “La società dell’inutile trionfa alla fine di un processo folle che ha spinto l’industria a produrre beni superflui, come se lo scopo dell’uomo non fosse di essere e vivere in una società giusta, bensì quello di apparire; ed è proprio su questa esigenza che si fonda il grande dogma della contemporaneità: si ha successo se si appare”(2014).
Ma quanto costa rimanere per co sì tanto tempo esposti alla ricerca della “ribalta”? Nonostante si voglia apparire a tutti i costi, un senso di smarrimento è sempre più permeante, molto simile a quello che descrive Vitangelo Moscarda: “Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.”(Pirandello 1925)
Probabilmente oggi più che mai l’uomo si ritrova a condividere questo stato d’animo e il suo essere contemporaneamente “uno, nessuno e centomila”: uno perché è quello che si illude di essere ogniqualvolta compie un atto; nessuno per via della sua irrefrenabile mutevolezza, che gli impedisce di sedimentare in un’unica maschera o in un complesso di aspettative che la società avanza; centomila dal momento che egli assumerà tante parvenze di individui diversi quante saranno quelle che gli altri gli attribuiranno.
Dott. Davide Costa-Sociologo
Foto: dott.ssa Anna Rotundo
Fig.1 “Prosopon”;
Fig.2 “Bambocci grotteschi”;
Fig.3 “Francesco Jerace Donna spagnola, busto in marmo”;
Fig.4 “Nulla”.
Bibliografia
Andreoli V.(2014), L’educazione (im)possibile orientarsi in una società senza padri, Rizzoli Editore, Segrate(Mi).
Gallino L.(2014), Dizionario di Sociologia, De Agostini Libri S.p.A., Novara.
Goffman E.(1959), La vita quotidiana come rappresentazione, trad. it. Il Mulino, Bologna 1969.
Goffman E.(1961), Espressione e identità, trad. it. Il Mulino, Bologna 2003.
Gouldner A. W.(1970), La crisi della sociologia, trad. it. Il Mulino, Bologna 1972.
Jedlowski P.(2011), Il mondo in questione introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci Editore, Roma.
Jung C. G. (1921), Tipi psicologici, trad. it, Bollati Boringhieri editore, Torino 1977.
Pirandello L.(1925), Uno, nessuno e centomila, Einaudi, Torino 2005.
Pirandello L.(1929), Se il film abolirà il teatro, Corriere della Sera VI 1929.
Pirandello L.(1958), Maschere nude, Mondadori, Segrate(Mi).
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