VIVERE IN MASCHERA
di Maurizio Bonanno
D’un tratto, l’atmosfera è cambiata. La lunga fase di clausura, vissuta con depressa rassegnazione tutti sentendoci vittime di questo virus che all’improvviso ha cambiato le nostre vite, sebbene non sia ancora conclusa, da qualche giorno è affrontata con spirito diverso, tutti protesi verso una data precisa, il 4 maggio. Il giorno della nuova Liberazione, della ripartenza, della fase 2, della libertà ritrovata, del poter uscire dalla clausura e ritrovare la luce.
Ma che vuol dire? Quale il senso di questa euforia? Cosa cambierà a partire da questo ormai mitico 4 maggio?
Nulla. Non è e non sarà un giorno magico. Non sarà il giorno in cui il virus ci saluta e se ne va. Non sarà il giorno del “tutto è passato”. Non sarà il giorno della “Liberazione dal virus”. Non sarà il giorno del “tutto è finto… si ritorna a vivere come se nulla fosse mai accaduto”. No!
L’unica reale differenza è che, intanto, è già cambiato il registro della vulgata corrente, cambiato il paradigma dell’emergenza, cambiato il modo di affrontare mentalmente la nostra lotta al coronavirus. Tutto il resto sarà esattamente come è adesso. Stessi rischi, stesse problematiche, stesse attenzioni, esagerate fino ad essere paranoiche, per evitare di incappare nell’infezione.
Si uscirà, certo. Perché sarà consentito uscire, come d’altronde, sarebbe stato possibile anche prima, anche adesso: a nostro rischio e pericolo. Si uscirà, ma le precauzioni rimangono tutte, anche di più. Le prescrizioni dovranno essere perentorie: distanza, guanti, mascherine, disinfettante e… lavarsi le mani. Ritorneremo a lavorare (se, nel frattempo, il lavoro sarà rimasto), ritorneremo in qualche modo ad incontrarci (ma senza strette di mano, né abbracci), purché si stia attenti a mantenere la distanza di sicurezza, ritorneremo a stare in strada, andare in ufficio, salutare i parenti (anzi, i congiunti!) ma… chi saremo? Cosa saremo diventati, nel frattempo? Saremo in grado di riconoscerci, tutti occultati dietro l’inevitabile mascherina? Soprattutto, sapremo vincere la diffidenza, il sospetto che la ritrovata frequentazione, così agognata nei giorni della clausura, sia sicura, non contenga rischi di un contagio, comunque sempre in agguato?
Come sarà questa nuova socialità in maschera?
Ci incontreremo per strada e ci saluteremo a caso. Tutti identici, tutti celati. La faccia persa, l’identità confusa. Tutti tramutati in identità vaghe… conturbanti.
Perché la maschera finora, nel nostro immaginario, formatosi in quella vita pre-covid finora vissuta, ha svolto un compito ambiguo, sfuggente, scivoloso. La maschera non è mai stata innocua: chiunque si predisponga ad infrangere la legge camuffa il proprio volto indossando una maschera, per non essere riconosciuto, per nascondere la propria identità. Indossa una maschera, un passamontagna, una calzamaglia deformante il rapinatore, il delinquente che punta alla cancellazione del proprio volto, per non farsi riconoscere, per non essere scoperto.
Oppure, segno inquietante di medicalizzazione: finora l’abbiamo sempre associata alla eventualità che qualcuno sia contagioso e da evitare, piuttosto che alla probabilità che sia sano ma voglia evitare il contagio; perché finora è stata usata per difendere sé dagli altri e non gli altri da sé. Perché finora si è portata quando si è ammalati per proteggere gli altri, non quando si è sani per proteggersi dalla malattia. Nel nostro mondo finora vissuto, la mascherina ha avuto una funzione esclusivamente medico-sanitaria: la si vedeva essenzialmente dal dentista, i più sfortunati in sala operatoria, perché neppure una visita medica di routine esponeva alla necessità di questa protesi del volto: il medico ci parlava faccia a faccia.
La semiotica ricorda che non ci si può abituare del tutto alla maschera perché copre l’interfaccia principale dell’interazione sociale, il volto. Presentarsi a volto scoperto in società è peculiarità in tutte le culture, un modus probabilmente legato all’evoluzione della specie ed allo svilupparsi della postura eretta. La maschera trasforma la struttura plastica del viso attribuendogli una sorta di muso. Moltissime culture articolano il senso del volto umano in opposizione al nonvolto dell’animale, al muso appunto. Il volto è un viso rivolto all’altro, il muso è una potenziale fonte di aggressività da cui difendersi. La maschera respinge anche perché può connotarsi come museruola, una negazione dell’umano, un alludere all’animale, rendendo il volto un muso minaccioso.
Ma può essere altro.
Anche a teatro, nella commedia dell’arte si usava indossare una maschera per spogliarsi della propria identità ed assumere quella da interpretare, un’identità quindi falsa, artefatta ai fini della rappresentazione, che è, ovviamente, un surrogato della realtà. È una maschera quella che si indossa a Carnevale, il solo momento in cui è consentito annullare i freni inibitori per poter fare quello che abitualmente non si farebbe, per evadere dalla propria identità e concedersi quello che nella quotidianità mai sarebbe permesso.
Ha una valenza magica, la maschera. È uno strumento che produce metamorfosi, che ha un’energia segreta e oscura… magica quanto inquietante. Smascherare qualcuno significa costringerlo alla verità! Forzatamente costretti ad essere pure noi interpreti di questa nuova pagina di storia che è la “guerra al virus”, ci prepariamo alla battaglia come i leggendari guerrieri del passato, cavalieri che allo scontro con il nemico si presentavano mascherati all’interno di armature per salvare il volto, ma anche per intimidire l’avversario.
E pure tutti i moderni supereroi sono mascherati: per non farsi riconoscere, per proteggere il segreto della loro doppia vita, o per prendere le sembianze dell’animale al quale devono i loro poteri. E sarà così anche per noi, pronti ad addobbarci prima di affrontare il periglioso momento dell’uscita di casa. Indosseremo mascherine uscendo, le toglieremo rientrati nelle nostre case-rifugio e le getteremo dopo averle consumate nell’uso continuato.
Le nostre maschere sociali saranno semplici quadrati di garza o di stoffa, più o meno accessoriati, appesi alle orecchie. Mascherine che non coprono tutto il volto ma solo una parte di esso, ovvero il naso e la bocca. Nascondono la parte del volto che si associa al linguaggio verbale ed al sorriso, azzerando una parte fortemente espressiva della nostra comunicazione interpersonale.
Quando il virus avrà finito d’imperversare ed il confinamento si allenterà, lasciando che lo spazio pubblico cominci a riempirsi di nuovo, tutti avremo voglia di rivedere i volti, avremo voglia di essere di nuovo con il proprio corpo, con il proprio volto, sperimentando al contempo, come è naturale, desiderio e paura: il timore di un nuovo contagio, o anche di una nuova epidemia come questa, venuta improvvisa e dal nulla.
Accadrà che per qualche tempo non ci staccheremo definitivamente dalle nostre mascherine, che in certi ambienti, come forse è giusto, si continuerà a utilizzarle.
Intanto, con rinnovata inquietudine, assaporeremo con occhi nuovi i volti degli altri, dei parenti, degli amici, ma anche degli sconosciuti, come assapora il cibo chi lo degusta per la prima volta dopo una malattia intestinale, con il timido e quasi infantile desiderio del convalescente. Certo, per qualche tempo, non saremo dis-in-volti ma ri-volti al viso dell’altro, questo mistero, questo paesaggio straordinario, questo viaggio infinito alla scoperta del nostro simile. Torneremo a volto scoperto e, si spera, torneremo anche a scoprire il volto, non più dietro quelle maschere che, nascondendo le nostre identità, hanno impedito di mostrarsi come siamo coltivando l’unica cosa in cui abbiamo sempre creduto: di essere, come i nostri supereroi, un po’ speciali, o almeno di essere un po’ speciali per qualcuno, che, riconoscendoci, ci avrebbe accolto con un abbraccio…
Un abbraccio: che nostalgia di abbracci, anche questi al momento impossibili!
Cav. Dott. Maurizio Bonanno – giornalista, sociologo e scrittore