UNIONI CIVILI E ADOZIONI

MARCO LILLI 7 febbraio 2016Preliminarmente, almeno dal mio punto di vista, vanno eseguiti dei distinguo ben precisi, nel senso: un conto è il tema riguardo le unioni civili fra persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, che vogliano organizzare la loro vita in comune, si intende, con tutti i diritti e doveri che ne conseguono; altro è il concetto di famiglia dal punto di vista naturale, dunque procreativo (unione uomo-donna); altro ancora è il concetto di famiglia dal punto di vista religioso, anche qui dipende poi a quale credo ci si riferisce; altro ancora è ipotesi di adozione di minori, ciò a prescindere da chi e come sia stato generato l’adottando e da come è formata la coppia che ambisce all’adozione.

Pertanto, non perché ve ne era bisogno ma trattare il tema in oggetto a partire dalla recente manifestazione oramai nota come “Family day” contro la proposta legislativa in merito alle unioni civili fra persone dello stesso sesso, tenutasi lo scorso gennaio, può, forse, chissà, in qualche maniera contribuire a leggere il presente contributo con un’ottica meno faziosa, sia in una direzione, cioè quella tradizionalista, sia nell’altra, cioè quella, diciamo così, più aperta.

Il caso in esame qui proposto è solo un esempio di uno spaccato di società che, letto secondo principi di obiettività, avulsi dunque da qualsiasi forma pregiudizievole, impone serie domande del tipo, ma non solo: quale è la prova scientifica e quindi inconfutabile, èrgo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che un bambino cresca più sano dal punto di vista psicosociale in seno ad una famiglia tradizionale rispetto ad una composta da due persone dello stesso sesso?

Ebbene, un caso sociale, prima ancora che squisitamente giudiziario, quello riguardante una bambina figlia biologica di una donna omosessuale, riconosciuta adottabile dalla convivente di lei. A deciderlo è stato il Tribunale per i minorenni della capitale nel luglio 2014, sentenza confermata in appello lo scorso dicembre 2015 (Diritto e Giustizia).

Un caso, quello qui trattato, quale spunto per una riflessione assai più ampia rispetto a quello che si percepisce nell’immaginario collettivo quando all’oggetto del dibattito ci sono argomenti come famiglia, adozioni, diritti sociali e libertà più in generale.

L’articolo 44 della Legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), tra latro stabilisce: «1. I minori possono essere adottati: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione), e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. 2. L’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli. 3. Nei casi di cui alle lettere a), c), e d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi. 4. Nei casi di cui alle lettere a) e d) del comma 1 l’età dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella di coloro che egli intende adottare».

Cosa si intende per affidamento preadottivo. L’affidamento preadottivo è un istituto giuridico previsto prima della pronuncia dell’adozione definitiva, cioè del periodo di convivenza del bambino con la coppia aspirante alla sua adozione, al termine del quale l’autorità competente verifica la positività dell’abbinamento e pronuncia la sentenza di adozione.

Cosa si intende invece per Stepchild Adoption. Letteralmente tradotto, Stepchild Adoption sta a rappresentare l’adozione del figliastro. È ugualmente un istituto giuridico presente in numerosi Paesi come per esempio Regno Unito, Spagna, Svezia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Germania, Finlandia e Groenlandia, che pur non consentendo specificatamente l’adozione di bambini da parte di coppie dello stesso sesso, riconoscono comunque a chi è in convivenza registrata con una persona di sesso uguale l’adozione dei figli naturali e adottivi del partner. Pertanto anche se in genere la Stepchild Adoption viene comunemente riferita a coppie dello stesso sesso, può tuttavia riguardare sia coppie eterosessuali che omosessuali.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, quello dei bambini di omosessuali, il fenomeno è tutt’altro che raro, per esempio, in Italia, secondo alcune stime e come riporta l’ANSA, i bambini con genitori omosessuali sono circa centomila. Mentre i risultati di una ricerca condotta nel 2005 da Arcigay, con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità, indicano che il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni hanno almeno un figlio. In pratica, prendendo ad esame tutte le fasce di età, sono genitori un gay o una lesbica su 20.

Dal punto di vista giuridico, l’adozione nasce dalla necessità di tutelare i figli che si trovino in condizioni come quelle per esempio descritte nella Legge 4 maggio 1983, n. 184, ma non solo.

Ciò premesso, il Tribunale per i minorenni di Roma, con la Sentenza 30 giugno-30 luglio 2014, n. 299 (cfr. Diritto e Giustizia), ha riconosciuto l’adozione di una bambina che vive con una coppia omosessuale, composta da due donne, nata attraverso un procedimento della procreazione assistita biologica avvenuta all’estero e figlia di una delle due donne. I giudici hanno quindi accolto il ricorso presentato dalla donna/moglie della madre biologica della bambina per ottenerne l’adozione (il matrimonio fra le due donne è avvenuto in Spagna, in seguito iscritto presso il Registro delle Unioni Civili del Comune di Roma).

La decisione è stata presa in accordo alla normativa in materia, nello specifico l’art. 44 comma 1 della Legge n. 184/1983 (diritto del minore ad una famiglia), e infatti per i giudici la legge non prevede divieti per la persona singola quale che sia il suo orientamento sessuale ad adottare.

I giudici sottolineano che l’intenzione del legislatore è di favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura dello stesso, prevedendo un’adozione con effetti più limitanti, ma presupposti meno rigorosi. Unico presupposto ulteriore previsto in questa modalità di adozione riguarda la realizzazione del preminente interesse del minore, che dovrà essere verificata dal giudice del merito. E per l’ordinamento italiano la circostanza che le donne in questione non siano coniugate secondo le disposizioni normative italiane non ne impedisce l’adozione.

I giudici richiamano anche i principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui, ferma la possibilità di scelta a favore dei legislatori nazionali di introdurre il matrimonio per le coppie omosessuali, così come la decisione di ammetterle alla domanda di adozione, s’impone comunque il dovere di un pregiudizio verso terzi se l’interpretazione della legge già in vigore in uno Stato lo consente.

Nel caso di specie, la bambina è nata e cresciuta con la ricorrente e la compagna, madre biologica della bambina, si è quindi creato un legame inscindibile che non ha niente di diverso rispetto ad un vero e proprio vincolo genitoriale. Da ciò consegue l’illegittimità della negazione alla minore dei diritti e dei vantaggi che derivano dal rapporto.

Il Tribunale sottolinea un aspetto fondamentale, e cioè nel caso in esame: «non si tratta di concedere un diritto ex novo, creando una situazione prima inesistente, ma di garantire la copertura giuridica di una situazione di fatto già esistente da anni, nell’esclusivo interesse di una bambina che è da sempre cresciuta e allevata da due donne, che essa stessa riconosce come riferimenti affettivi primari, al punto tale da chiamare entrambe mamma».

Perciò, alla luce dell’ambiente familiare, delle attenzioni (anche economico-assistenziali) a favore della bambina, del suo stato di salute fisica e psicologica, del rapporto stabile tra le due donne, nonché del consenso della madre biologica alla richiesta, i giudici hanno ritenuto sussistenti tutti i presupposti di diritto e di fatto per accogliere la domanda della ricorrente, si ribadisce: «nell’interesse della minore».

Inoltre, si legge nelle motivazioni della sentenza: «il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno. In altri termini, non sono né il numero né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano».

E sulla base di tali assunti, quello che è prioritario per il benessere dei bambini: «è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano dello stesso sesso o che abbiano lo stesso orientamento».

E che: «la normativa deve poter essere interpretata alla luce della emergenze sociali che bastano per il riconoscimento di nuove forme di genitorialità. E nel caso di specie l’interpretazione della norma è nel senso di essere applicabile a tali nuove forme di genitorialità, senza forzatura alcuna».

Pertanto gli elementi alla base di tale decisione giurisprudenziale sono unicamente: «il benessere e la tutela di un sano sviluppo psicologico della piccola […] il cui unico pregiudizio nel percorso di crescita andrebbe presumibilmente rintracciato nel convincimento diffuso in parte della società, esclusivamente fondato, questo si, su pregiudizi e condizionamenti cui questo Tribunale, quale organo superiore di tutela del benessere psicofisico dei bambini, non può e non deve aderire stigmatizzando una genitorialità diversa, ma parimenti sana e meritevole di essere riconosciuta in quanto tale».

Infine, e non è poco dal punto di vista sociologico, i giudici non hanno risparmiato un richiamo al nostro legislatore, cioè che fatica a stare dietro ai cambiamenti: «che la nostra società ci propone ma cui il Giudice minorile non può restare indifferente».

Passaggio fondamentale quest’ultimo, diciamo pure che è il fulcro su cui ruota tutta la ratio della Sociologia del diritto, disciplina che analizza giustappunto i comportamenti sociali alla luce delle norme giuridiche e, soprattutto, come le stesse regole del diritto andrebbero quanto prima adattate al mutamento sociale.

Non è un caso se il sociologo giurista austriaco Eugen Ehrlich (1862-1922) sostenne che il centro dello sviluppo del diritto non si trova né nella legislazione, tantomeno nella giurisprudenza, ma è rinvenibile nella società stessa, da dove appunto gran parte del diritto trae la sua origine.

 

Dott. Marco LILLI

Sociologo-Criminologo

www.sociologiacontemporanea.it

Rivista di Sociologia (ISSN 2421-5872)

 


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