UNA STORIA DI SCILLA E DELLE SUE DONNE
C’è una storia di Scilla che non passa quasi mai dalle stanze del suo castello, una storia che non è desumibile da antichi atti notarili che, di fatto, raccontano di grandi proprietà cedute o acquistate da persone di alto lignaggio.La storia di Scilla e della sua popolazione ha antiche origini, e parte di questa è arrivata a noi solo attraverso una certosina raccolta di tradizioni orali, avvenuta nel corso dei secoli, che ci restituiscono l’immagine autentica di un luogo, che la natura ha creato magnifico, e dei suoi abitanti.Il popolo scillese ha origine greche e quando si stanziò nella parte più meridionale della costa tirrenica italiana, portò con sé un bagaglio culturale di notevole spessore, unito ad un senso civico di altissimo livello.Delle attività lavorative degli scillesi si hanno notizie sin dal 385 d.C.: erano degli abili commercianti e sfruttavano la profonda conoscenza della navigazione del mar Mediterraneo per intrattenere rapporti di lavoro con tutte le città che si affacciavano in esso.Il Medio Oriente era la meta privilegiata per l’esportazione della seta, di cui gli scillesi erano produttori eccellenti e le cui caratteristiche erano molto apprezzate.
La seta era non solo di ottima qualità ma, proprio a Scilla, veniva trattata con una tintura eseguita con metodi particolari, difatti gli acquirenti amavano non solo la robustezza del suo tessuto ma anche la durevolezza, nel tempo, dei suoi colori.Questi ultimi erano particolarmente brillanti e resistenti, anche perché gli scillesi erano dei veri maestri nell’arte della colorazione vegetale, di cui per secoli fecero scuola.Quando, però, l’Oriente cadde in mano ai musulmani, i navigatori commercianti scillesi non ritennero più i suoi porti sicuri e affidabili: erano abituati a riportare a casa ori, cultura e civiltà, e la loro mente si era arricchita, nel corso dei secoli, anche per il positivo influsso delle popolazioni con le quali erano a contatto nei loro rapporti commerciali.L’avvento di nuovi sistemi governativi non li aveva trovati concordi e li aveva convinti a restringere il proprio commercio ai porti del Mediterraneo centrale, come Marsiglia, Genova, Venezia e Trieste, laddove i loro depositi continuavano a ricevere le mercanzie ed i loro soci in affari a commercializzarle.L’esperienza e la profonda conoscenza del mare si è concretizzata, nel corso dei secoli, anche nell’attività della pesca.Dei tre quartieri nei quali era suddiviso il territorio del città di Scilla, San Giorgio, Marina Grande e Chianalea, quest’ultimo è sempre stato l’emblema di una economia fondata esclusivamente sulla pesca.
La vita di Chianalea era scandita da ritmi dettati prevalentemente dalla natura, i suoi abitanti, forti e orgogliosi, hanno perpetuato nel tempo tradizioni legate anche alla pesca del pescespada.Vivere con un ritmo dettato dal mare e dalle stagioni ha forgiato gli abitanti di questo splendido quartiere, rafforzando il loro spirito indomito e la loro determinazione.Essenziale si è sempre rivelata la scelta legata alla famiglia, costruirla con una donna delle medesime origini era, per gli uomini scillesi, una condizione inderogabile.Essi erano convinti, non a torto, che una donna cresciuta a Chianalea possedesse le qualità necessarie per affrontare la dura vita dei pescatori.In effetti la vita delle donne a Chianalea era scandita da ritmi e tempi ben precisi, la loro occupazione, in ambito familiare, non conosceva sosta: iniziavano in piena notte, quando, dopo aver riparato eventuali strappi alle reti a pesca, mettevano le esche agli ami, corrodendo le proprie mani, ma con il chiaro obiettivo di aiutare i propri mariti ad arrivare in mare già pronti per iniziare la pesca.
Una volta che gli uomini erano partiti con la barca, le mogli assumevano ulteriori responsabilità, fermo restando il loro ruolo di madri e casalinghe, si occupavano anche degli anziani di casa e, laddove le risorse economiche della famiglia erano apprezzabili e lo consentivano, erano proprio loro, le donne, che si occupavano di comprare o vendere terreni o immobili.Al rientro dalla pesca, le donne scendevano ad aiutare i propri mariti, ritiravano la barca all’asciutto e, dopo aver scaricato il pesce, erano sempre loro, le donne, che, in modo esclusivo, si incaricavano di venderlo.Le donne erano, dunque, le testimoni e le protagoniste silenziose di una vita vissuta con orgoglio, forza ma anche durezza, erano donne ingegnose, determinate, infaticabili e padrone di loro stesse.Di loro non si trovano molti racconti, la loro vita e le loro qualità interiori sono desumibili attraverso i diari di viaggio e le rappresentazioni artistiche che i viaggiatori stranieri fecero dal 1700 in poi.Questi autori ci restituiscono descrizioni di donne di assoluta bellezza, scure di carnagione e dai capelli corvini, donne che incedono con fierezza e che portano, nel silenzio più assoluto, il peso del loro tempo sulle spalle.
Pochissimi i momenti della vita in cui era loro concesso uno svago, rare le giornate di festa e musica. Onorare il Patrono della propria città costituiva il motivo principale per l’allestimento di feste e sagre che regalavano l’unico “divertimento” possibile. Nell’imminenza delle feste comandate, le donne trascorrevano il poco tempo rimanente della loro giornata, rubato alle faccende domestiche, cucendo da sole gli abiti che avrebbero poi indossato.Erano abiti spesso non molto diversi da quelli che essere indossavano abitualmente ma, per questi dedicati ai momenti più “leggeri”, le donne mettevano particolare cura, cercando di cucire stoffe un pochino più raffinate e confezionandoli aggiungendo dettagli e ricami che le avrebbero fatte sentire bellissime.
Osservare l’abito di una di loro ci consente di fare diverse considerazioni: la confezione era composta da una semplice camicia bianca sopra la quale veniva indossato un corpetto possibilmente in velluto liscio ma anche di lana cotta, sullo stesso, non di rado, venivano eseguiti dei ricami che avevano lo scopo sia di abbellirlo che di dotarlo di piccolissime figure scaramantiche, cuoricini o fiorellini, e talvolta, con piccole sistemazioni segrete, venivano cucite ad inserto delle piccolissime pietre che avevano una doppia funzione, sia quella apotropaica che quella di attirare a sé i migliori benefici. Ricordiamo sempre che queste donne non avevano, in nessun caso ed in nessun luogo, la possibilità di esprimere i propri sentimenti, i propri desideri, le proprie esigenze, né la propria condizione sociale, ecco perché la gonna, la scelta del suo colore, e la sua manifattura, spiegavano tutta l’essenza di queste donne e fornivano, all’occasione, le informazioni relative al loro status.Superata l’età dell’adolescenza entravano a far parte della categoria delle “donne da marito”, i colori venivano, quindi, scelti in base all’età: per le ragazze giovani, non sposate, i colori erano tenui, per le donne maritate, i colori era decisi, per le donne anziane colori ancora più scuri ed infine per le vedove di qualunque età, il nero era d’obbligo e spesso veniva adottato per tutta la vita.
Il dettaglio più accattivante di queste gonne era l’enorme quantità di stoffa che veniva utilizzata per confezionarle, quattro metri! Non se ne spiega l’utilità fino a quando non viene presa in considerazione la festa nei suoi momenti musicali: quando la musica imperversava, costituiva il terreno sul quale uomini e donne rappresentavano sé stessi e comunicavano il proprio stato d’animo ed anche la propria condizione civile.La gonna diveniva, così, la protagonista del ballo, nella danza la donna si muoveva con passi piccoli e aggraziati, era evidente che il movimento dei piedi provocava, sempre di più, l’ondeggiamento della gonna che, essendo fatta di tanta stoffa, creava il senso dell’avvolgenza e della morbidezza.Ulteriore dettaglio mai trascurato era costituito dal fazzoletto, durante il ballo la donna lo teneva teso fra le mani e, muovendo le braccia, semicelava il proprio viso offrendo di sé una visione d’insieme molto flessuosa e misteriosa, con effetti di provocatorio nascondimento che rasentava momenti di “pudico erotismo”.
Mariarita Mallamaci – sociologa e criminologa (Vicepresidente del Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale sociologi)
Bibliografia
“Scilla”, Pietro Macrì, Casa editrice La Calabria
“Il costume popolare reggino tra le musiche della festa ed i colori del simbolico”, Maria Barresi, ed. Due Emme
“La donna nella danza ” di M. Barresi Calabria Sconosciuta n. 72 1996
“Aspetti del folklore di Scilla ” di Maria Carmela Arlotta, tesi di laurea a cura Prof. Lombardi Satriani, Messina 1968UNA STORIA DI SCILLA E DELLE SUE DONNE
Le foto sono tratte dalla pubblicazione “Scilla” a cura della Provincia di Reggio Calabria e del Comune di Scilla.