Star Workers, quando sociologia e cinema s’incontrano

di Antonino Calabrese

 

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“Starworkers: la visione dell’operaio” è il nuovo libro di Giuliano Gaveglia, pubblicato su Pluriverso, la collana diretta da Luigi Caramiello e Antonio Tricomi, edito da Guida Editori.

Il testo è suddiviso in 3 capitoli, in cui viene descritta argutamente la figura dell’operaio mediante differenti punti di vista e periodi storici. I film analizzati sono diversi, tutti focali e ben scelti, tenuti insieme da pretesti di vario tipo.

Il libro esordisce con l’illustre evento tenutosi presso il Salon indien du Grand Café la sera del 28 dicembre del 1895, ospitante la prima proiezione cinematografica, dunque la prima della storia del cinema. Si tratta di “L’uscita delle officine Lumière”, il celebre film incentrato su una folla uscente di operai che si accingono a varcare i cancelli di una fabbrica, giustappunto a segnare la conclusione della giornata di lavoro. E’ l’operaio quindi la prima figura a essere “divizzata” dal cinema: uno star worker!

Il film di esordio dei fratelli Lumière, ha una durata di 45 secondi, una magia realista che si contrappone allo stile maggiormente evocativo del contemporaneo dell’epoca Meliès. L’uscita degli operai viene quasi letta come l’uscita dei bambini a fine lezione, una similitudine che porta con sé un’idea di libertà.

La società dei consumi incomincia a gettare le basi per una nuova visione di società e quindi una nuova visione del tempo. La leggerezza che si andava via via connotandosi, pone una nuova gestione del tempo di non lavoro, ove è finalmente possibile soddisfare anche dei bisogni non primari. Tutto ciò prosegue però portandosi dietro delle critiche importanti, spesso sbrigativamente affrontate per mezzo di una lente riduttiva che vedeva come unico schema la dialettica borghesia/proletariato.

Il secondo film che viene trattato nel libro è “I compagni”, pellicola del 1963 diretta da Mario Monicelli. Tale lungometraggio racconta la realtà operaia torinese, in maniera simile a quanto Friedrich Engels aveva descritto in “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. Il film crea un rapporto di empatia nei confronti degli operai, inserendo degli elementi romanzati che oltrepassano la semiotica dell’inchiesta. Esso si ispira al capolavoro del cinema muto “La Fabbrica” di Sergej Ejzenstein del 1925. Sono tempi in cui gli operai lavorano 14 ore, con una pausa di mezz’ora sfruttata solo per poter mangiare. Anni duri quindi, dove diviene necessario superare l’analfabetismo per farsi ascoltare e rivendicare qualche diritto. Monicelli ha considerato “I Compagni” il suo vero capolavoro, sebbene esso non abbia ottenuto il successo di film più fortunati. La pellicola evidenzia le difficoltà intrinseche delle lotte proletarie, dove spesso gli operai venivano sostituiti da quello che Marx definiva “esercito di riserva”. Tale condizione di concorrenza era infatti già stata criticata da Engels come uno degli aspetti peggiori della gravosa situazione operaia.

In questo contesto di marginalità, i lavoratori diventano spesso vittime dell’alcol, del vizio e del modo irrazionale di spendere il proprio salario – creazione del capitalismo – mentre altri si disinteressano della collettività, accettando passivamente il proprio destino. Tuttavia nel frattempo, nonostante l’interpretazione marxista fosse praticamente onnipresente e spesso idealizzata oltremodo, i lavoratori anglosassoni riescono ad avere risultati maggiormente concreti attraverso un percorso riformistico, con un allargamento dei diritti civili e politici. In Italia negli anni ’80 dell’ Ottocento cominciavano invece a prendere piede le idee di Andrea Costa, Filippo Turati e Antonio Labriola, proprio quando il processo di industrializzazione diverrà più organico. Tuttavia le varie correnti culturali quali l’anarchismo di Proudhon e Bakunin, il marxismo, il riformismo socialista e la solidarietà nazionale mazziniana segnano visioni inconciliabili tra loro che spesso costruiscono ambiguità e intralci ai problemi quotidiani degli operai.

Altro film importante è “Tempi moderni” del 1936, diretto e interpretato dal grande Charlie Chaplin. Il film parte con l’immagine di un gregge al pascolo che viene sostituito in dissolvenza da una folla di operai. Tale immagine è da subito emblematica, poiché rimanda al concetto dell’alienazione e della privazione dell’autonomia. Esilarante la prossemica mostrata, la quale palesa la situazione psichiatrica dell’individuo.

Si passa poi a “Ladri di biciclette”, il celeberrimo capolavoro neorealista di Vittorio De Sica uscito nel 1948, nonché a “Riso Amaro” del 1949, girato da Giuseppe De Santis e che vede come protagonisti Vittorio Gassman e Silvana Mangano. Quest’ultima pellicola ha il merito di essere riuscita a cogliere il mutamento della condizione femminile, con la dissepoltura del fenomeno del caporalato.

Sempre azzeccate le scelte dell’autore, il quale pone come altro film centrale “Il cammino della speranza”, diretto dal maestro Pietro Germi, uscito nel 1950. Un film incentrato sull’emigrazione italiana: sono gli anni in cui gli italiani si dirottano soprattutto verso la Francia, la Germania, il Brasile, l’Argentina e gli Stati Uniti, per non parlare dell’immigrazione interna che vede i meridionali trasferirsi nelle aree del settentrione e che farà di Torino la terza città del meridione.

E’ poi la volta di “Napoletani a Milano”, film diretto dall’insigne commediografo Eduardo De Filippo, uscito nel 1953. Ambientato a Napoli, in un contesto di recente distruzione compiuta dalla guerra, il film ruota attorno all’idea di solidarietà, che vede nel capitale sociale la chiave di volta per la concretizzazione della possibilità produttiva.

“Il ferroviere” è un altro film di Pietro Germi (1955), caratterizzato dalla dimensione popolare della famiglia, tema centrale dell’intera pellicola. L’autore qui mette in evidenza un triste fenomeno del tempo quale quello dell’alcolismo, spesso presente tra i ferrovieri, protagonisti del film, che abitualmente frequentano le osterie al termine dei faticosi turni di lavoro. Sono i tempi in cui la società dei consumi incomincia a dissolvere l’impalcatura dell’ideologia comunista e dunque le velleità rivoluzionarie. E’ forte anche la scossa ricevuta dalla famiglia, ove ormai il padre non può più rivendicare sul figlio una maggiore conoscenza e dunque creare i presupposti per la canonica iniziazione.

Troviamo poi “Roma ore 11” del 1952, un altro film di Giuseppe De Santis, sceneggiato da Elio Petri e Cesare Zavattini. Il film è un altro spaccato sulla condizione della donna, nonché sulla disoccupazione e lo sfruttamento del lavoro. Tale film è conosciuto anche per aver sdoganato il corpo nudo della donna, gettando le basi per la rivoluzione sessuale degli anni Settanta.

Si prosegue con “Due soldi di speranza”, il film di Renato Castellani uscito nel 1952. Centrale è qui lo spirito di ottimismo che anima gli italiani dell’epoca. L’altra parte dell’Italia è raccontata invece da Pier Paolo Pasolini con “Accattone” (1961), quest’ultimo considerato come la trasposizione cinematografica dei suoi due più celebri romanzi: “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”. Questa pellicola, diversamente da quella di Castellani in cui prevale una dimensione più arcaica e legata alla terra, si rifà a un contesto urbano che subisce una sorta di metamorfosi a causa dell’avvento della modernità.

Ad essere affrontato poi è “La classe operaia va in paradiso” (1972), l’opera cinematografica firmata da Elio Petri e Ugo Pirro, incentrata sull’operaismo italiano. Un film complesso con più livelli di interpretazione, vicino per caratteristiche all’ermetismo. Un lungometraggio molto discusso, tanto che Peltri ebbe a dire: «Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia». Dirompente la critica riportata nel testo da parte di Mario Tronti, uno dei protagonisti dell’operaismo degli anni ’60: «Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione […] Vedevano rosso. Ma non era il rosso dell’alba, bensì quello del tramonto». In questo interessante passaggio vengono narrate anche le vicende di Toni Negri, Oreste Scalzone e Gian Maria Volontè. La storia si dimostrerà infatti critica anche verso i ghiribizzi degli intellettuali del tempo.

Tra i film più recenti vi è invece “Mio fratello è figlio unico” (2007), diretto da Daniele Lucchetti e ispirato a un romanzo di Antonio Pennacchi, che tratta lo scontro politico vissuto in una famiglia pressappoco indigente.

Presente anche il film “Alba tragica”, con la regia di Marcel Carnè e la sceneggiatura di Jacques Prévert, conosciuto altresì per essere il film precursore della tecnica del falshforward. Trova spazio anche “Mimì metallurgico ferito dall’onore” (1972), la commedia diretta da Lina Wertmuller, film incentrato sull’amore proletario. Qui viene ironicamente raccontata la differenza tra il nord e il sud d’Italia, attraverso il sodalizio Melato-Giannini. Quest’ultimo trova la sua conferma in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” del 1974, sempre diretto dalla Wertmuller, che tratta in modo esilarante i rapporti di classe e le diverse posizioni politiche tra la signora Lanzetti, anticomunista, e il marinaio Carunchio, militante del PCI.

Nel terzo capitolo appaiono anche “Flashdance”, il film diretto da Adrian Lyne nel 1983, che racconta il sogno americano, ovvero l’ascensore sociale del self made man, e “Full Monty – Squattrinati organizzati” (1997) di Peter Cattaneo.

Trova spazio anche “Raining Stones” (1993) di Ken Loach, il regista forte oppositore delle politiche thatcheriane che attraverso i suoi film ha palesato la sua appartenenza alla sinistra radicale anglosassone. “Risorse Umane” è invece la pellicola del 1999 diretta da Laurent Cantent, dove padre e figlio si ritroveranno entrambi fagocitati da infidi meccanismi aziendali.

Nelle ultime pagine troviamo due film di Paolo Virzì, “La bella vita” (1994) e “Ovosodo” (1997), e “Metropolis” (1927) di Fritz Lang, un film distopico ambientato nel 2026.

Centrale in tutto il libro è quantunque la figura dell’operaio, definito altresì come proletario, in una serie di scenari che hanno come filo centrale la descrizione della sua condizione, senza creare pietismi o esaltazioni di tipo.

Il ruolo dell’operaio è una costante in tutti i tipi di società, anche animali (vedi api e formiche). Oggi grazie alla tecnologia egli riesce da una parte a ridurre la propria fatica, ma dall’altra a ottenere sciaguratamente la precarietà lavorativa e la riduzione dei posti di lavoro.

Giuliano Gaveglia ha il merito di aver riassunto e concentrato le variopinte visioni di questa figura mitica, allargandola a varie questioni, quali quella dello sfruttamento, della trasformazione sociale, della famiglia, dell’amore. Digressioni sempre puntuali e ben legate, con collegamenti scrupolosi e analisi solerti.

Il libro si legge con scorrevolezza e riesce a mantenere costante l’attenzione, trattando oggettivamente problemi che potrebbero essere facilmente mal interpretati. L’incontro tra sociologia e cinema è risultato essere una commistione vincente!

Author

Antonino Calabrese

Dott. Antonino Calabrese
Sociologo della Comunicazione, Esperto in Semiotica e Scienze Cognitive
Responsabile Comunicazione Associazione Sociologi Italiani
sociologiasi.ufficiostampa@gmail.com
calabrese.antonino89@gmail.com

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