STALKING E SEPARAZIONE: QUANDO CONTATTARE LA “EX” PER VEDERE I PROPRI FIGLI DIVENTA UN REATO

Mai dire mai e mai dire per sempre.

< avv. Martina Grassini

Non sempre il fatidico “sì” dura “finché morte non ci separi” ed in quel caso i dissapori tra gli “ex” possono aprire scenari di rilevanza penale. Sono innumerevoli e recentissime, infatti, le pronunce di condanna per stalking di molti genitori separati.

Ma quando la pretesa di vedere il proprio figlio può trasformarsi in reato?

Il reato di atti persecutori, meglio noto come “stalking”, punito ai sensi dell’art. 612 bis c.p.,è un reato “a forma libera”. Ciò significa che quello che rileva al fine della configurazione della fattispecie criminosa, non è solo la reiterazione di un determinato comportamento dell’asserito “stalker” (minacce o molestie), bensì le conseguenze che tale condotta comporta per la vittima, il c.d. “elemento psicologico”, ossia il timore per la propria incolumità o quella di un proprio caro, tale da comportare un mutamento delle proprie abitudini di vita.

E cosa succede se un padre contatta più volte la “ex” per poter incontrare i figli? Ripetuti squilli, messaggi, minacce e pedinamenti: quando si superano i confini del “lecito”, la condanna per stalking diventa un rischio concreto. La sentenza della Suprema Corte del 31 marzo 2020, n. 10904, infatti, ha chiarito come il diritto del padre di vedere il proprio figlio debba essere esercitato in modo lecito e non strumentalizzato per ossessionare la propria “ex”.

Il confine, però, è davvero sottile.

Non è raro che tali condotte “ossessive” siano la conseguenza della reiterata negazione dei diritti del genitore non collocatario. E allora bisognerebbe chiedersi: quante volte i padri che continuano a chiamare riescono poi a vedere i propri figli? E quante volte continuano a chiamare dopo averli visti, solo per ossessionare la “ex”?

Il punto nodale dovrebbe essere la prova della reiterazione delle condotte quando gli incontri con i figli sono regolari.

Se è vero che le visite sono solitamente stabilite da un Tribunale, ci sono però delle fasi di assenza di una regolamentazione (si pensi ai mesi intercorrenti tra il deposito della separazione e l’udienza presidenziale oppure alle c.d. “clausole libere” che lasciano la determinazione degli incontri ai genitori): è proprio in queste situazioni che la mancanza di “accordo” tra i genitori, può trasformarsi in un “mai” e le richieste dell’altro genitore possono finanche configurarsi come un “reato”. L’elemento psicologico proprio dello stalking, infatti, rende la fattispecie “indefinita”: il reato si configura in relazione alla percezione che ne ha la presunta vittima.

In parole semplici, se lo “sente” come tale, lo diventa.

La legge non descrive il comportamento del colpevole, ma la reazione della vittima, attraverso la quale si può dedurre la sussistenza della fattispecie: la vittima è testimone ed è per questo non si parte da una condizione di “parità”.  La “causalità psichica”, intesa come connessione consequenziale tra il comportamento dello stalker e la percezione psico-emotiva della vittima, è di per sé una probatio diabolica, ma ciò non ne rende particolarmente refrattaria l’applicazione come paradigma di imputazione.

Eppure una frequentazione continuativa genitore-figlio, non è solo un diritto del padre, ma soprattutto della prole (l. 54/2006).

Attenzione, però, al sottile limite della “liceità”: se un papà vuole garantire al proprio figlio il suo diritto inalienabile alla bigenitorialità, sembra ormai chiaro come l’eccesso ostentato di sollecitudine potrebbe essere un’arma a doppio taglio.

Avv. Martina Grassini – Assistente Prof. Avv. Michele Miccoli


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