Sarà la festa della donna quando non dovremmo più commemorare vittime del troppo amore, di tempeste emotive o di “amicizie sbagliate”
Sarà la festa della donna quando non dovremmo più commemorare vittime del troppo amore o di tempeste emotive o di “amicizie sbagliate”. Sarà un giorno da celebrare quando i posti di lavoro per le donne e le categorie deboli non si svenderanno nel pacchetto delle cariche politiche, non si contraccambieranno con i favori sessuali- <<perché tanto oggi lo fanno tutti, è normale>> – non si riscatteranno, forse, dopo anni di precariato gratuito, con sangue e testa regalati agli “uomini che ci pensano loro a darti da mangiare”. Prima di allora sarà bene guardare in faccia questo 8 marzo 2019, sarà bene calarsi senza infingimenti in questo nostro duro presente. Per domani avevo preparato palloncini gialli per fare da richiamo presso il Laboratorio LNS- ASI “SudCosciente” da me diretto, il tema: una giornata dedicata alla voce delle donne, suggestioni ispirate da letture al femminile, un giorno per riflettere e prendere fiato, per pensare al nostro benessere in una vita difficile per tutti. Ma con rammarico al posto dei palloncini gialli ve ne sarà uno solo con una banda nera perché per me ogni donna è come me, non una di meno, di qualsiasi colore sia. Da Nord a sud, da San Giorgio a Cremano, a Miano di Napoli, a Crotone (con l’imbarazzante quanto preoccupante manifesto della LEGA in cui per la Giornata internazionale di domani si fa riferimento alle donne per “il loro ruolo naturale ad allevare figli e accudire la famiglia”) alle barbare violenze familiari ai danni di una ragazza in Sicilia. Non c’è un angolo di questo Paese che non debba riflettere sulla sua decadente dissoluzione, sulla sua corsa impazzita verso un baratro razzista, che celebra il nazismo in barba alle leggi Scelba, al buio silenzioso di un popolo che si offende per poche ore, al massimo reagisce con un lieve gesto dell’indice sull’emoticon con la lacrima…o quello con la faccina arrabbiata, poi passa oltre, nella perenne anestesia del proprio “nulla”. Ubriacati dal marketing di griffe e programmi trash, svaniscono nel flusso liquido i raccapriccianti eventi di cronaca, ovattati dall’illusione dei vantaggi paradossali del Belpaese.
Le donne realizzate nel work-system, sono pochissime e figlie di quel capitalismo borghese che ha venduto per pochi metri di diritti alla volta, già dagli anni ’60, la tranquillità necessaria a sostenere estenuanti anni di concorso, posti sicuri, tutele familiari, quei diritti che erano di tutti. E i riflessi spuntano a dispetto come muffe, se una grande azienda di Stato come Trenitalia ha fatto sorridere amaramente per il suo annuncio sempre in prossimità dell’8 marzo: alle donne di business class e a chi consuma alla carrozza ristorante una caramella Caffarell al limone in regalo. Al netto del dono ridicolo c’è l’aspetto discriminante che divide tra donne “di prima classe” e quelle di “seconda”, tra chi consuma e chi no. Potrebbe essere solo uno scivolone del marketing o il riflesso di una narrazione dentro un clima sempre più vischioso effetto di una mascolinità tossica. La soglia dei diritti realmente garantiti in questo Paese è bassissima e per fame ci si accontenta e ancor meno si vive di violenza nelle mura di casa. Dalla crisi economica degli anni ’90 a quelle del 2000 potenzialità di intere generazioni sono state centrifugate, tritando tutto fino all’osso e ora il corpo sociale come un cannibale si ciba dei suoi stessi corpi. Il resto è lotta dura ogni giorno. Dopo anni di battaglie le donne sono più precarie dei colleghi “precari” uomini e se possono iniziare a decidere di fare carriera pagano prezzi altissimi, rinunciando alla maternità, o procrastinandola fino a poi rincorrerla oltre i 40 anni. Una volta divenute mamme- lavoratrici devono accontentarsi di paghe sottostimate, di ruoli secondari, se non vogliono ritornare disoccupate, con professionalità svilite, disprezzate e da nascondere. Il clima di odio e di insicurezza instillato come ai tempi del nazismo le vorrebbe al sicuro a casa nell’accudimento di figli e della famiglia ma i dati da mattanza ci dicono che proprio nelle mura domestiche alle condizioni economico -sociali attuali, la vita di una donna è meno sicura.
«Correte, ho picchiato mia moglie: non respira più». Queste le parole pronunciate dalla voce di un uomo che contattava 24 ore fa il 118, qualificatosi poi come il marito della 36enne napoletana ritrovata sul pavimento del suo appartamento a Miano, ancora un episodio di violenza ed omicidio per percosse all’interno delle mura domestiche, a poche ore dallo stupro in pieno giorno di San Giorgio a Cremano, provincia di Napoli. Ma non è il solo squallido episodio che si è registrato in questo tempo lugubre che si è abbattuto su tutti noi, anche se per una volta ha visto subito consegnati alla giustizia i tre stupratori, tutti già in carcere. I tre violentatori a cui consapevolmente non va riconosciuto nemmeno il diritto all’identità di cittadini con un nome e un cognome, sono tutti e tre nati tra il 2000- 2001, sono accusati di violenza sessuale di gruppo, per giunta nei confronti di una ragazza fragile, molto delicata, quindi in condizioni di difesa minorata.
Sono di San Giorgio a Cremano un comune a nord esti di Napoli tra i comuni più ricchi e con un suo cuore pulsante, non lavorano ma vengono indicati come habitué della stazione, una volta si chiamavano “perdigiorno” e non erano del tutto pericolosi, oggi si chiamano NEET e possono nascondere sotto il cappuccio della felpa e il look omologato, imperscrutabili affiliazioni al Sistema Camorristico, frequentazioni nella microdelinquenza, caratteristiche di comportamenti devianti seriali e criminogeni talmente profondi da decidere di violentare scientemente una ragazza che avevano “puntato” già 20 giorni prima e che alla fine hanno stuprato in un’ascensore della Circumvesuviana in pieno giorno. Debole o forte che sia stata la vittima è una donna, non più libera di camminare, di lavorare, di tornare a casa con i mezzi pubblici e alla luce del giorno. E a qualsiasi skills di devianza essi appartengano, lo Stato e i suoi servizi non li hanno intercettati, non li conoscono, non ne prevengono le “mosse”, non li curano, fortunatamente per questo caso li hanno puniti subito. Ma per molti altri casi, la morte di una donna non è ancora abbastanza, dunque quello stesso Stato-sistema giuridico, giudiziario, sociale, non comprende e non affronta l’effetto secondario e a lungo termine del danno simbolico da imitazione, del danno cognitivo di effetti proiettivi che si riflettono sul circuito familiare secondario, sulle generazioni più giovani nella scuola, su quelle implicazioni propulsive che ci fanno riempiere pagine di progettazioni sociali “sull’educazione ai sentimenti” fin dai banchi delle scuole primarie e che ci fanno stigmatizzare dai rapporti internazionali come inadempienti, arretrati.
![]() |