REATI IN MATERIA DI PUBBLICA  AMMINISTRAZIONE.

 

MICHELE MICCOLI STUDIO 3Sempre più spesso,  tenendo conferenze  in giro per l’Italia, rivolte in particolar modo alle Polizie Locali, mi sento chiedere delucidazioni in materia di reati contro la Pubblica Amministrazione e contro la fede pubblica. In particolare modo, la domanda che mi viene proposta con maggiore frequenza è la seguente:
“Professore, se non contesto una violazione amministrativa al codice della strada, mi rendo responsabile del reato di cui all’art. 328 del Codice Penale, comunemente e volgarmente chiamato Omissione di atti d’ufficio? A questo punto occorre introdurre la L. 86 del 26 aprile del 1990, all’epoca dell’entrata in vigore nota come la novella del 90.A scanso di ogni equivoco, prendiamo in esame solo la rubrica del dettato normativo contraddistinto dall’art. 328 C.P. , il quale recita in rubrica: Rifiuto d’atti d’ufficio. Omissione, per poi addentrarci nell’esame vero e proprio del precetto normativo del reato proprio.

Detto articolo, si compone di nr. 2 commi e recita testualmente:

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta (1) un atto del suo ufficio (2) che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa (3).

Note

(1) Il comma primo disciplina il reato di rifiuto di atti urgenti, la cui rilevanza è limitata a tassative ragioni d’urgenza di compiere l’atto tra cui rientrano ad esempio i sequestri obbligatori amministrativi, la confisca amministrativa, gli ordini di distruzione degli immobili abusivi, gli ordini di scioglimento delle manifestazioni vietate, la sospensione e la revoca della patente di guida, gli ordini di non circolare su determinate strade.
Questo dunque si consuma quando l’inerzia ha compromesso l’adozione efficace dell’atto urgente. In merito all’urgenza parte della dottrina ritiene che occorra distinguere tra termine perentorio in cui si ha una vera e propria omissione e termine ordinatorio in cui si avrebbe mero ritardo, in quanto l’atto può essere ancora compiuto e può esplicare i suoi effetti tipici.

(2) Rilevano solo gli atti esterni e quelli a rilevanza esterna, non invece gli atti interni cosiddetti organizzativi.

(3) Il comma secondo punisce invece la condotta di omissione non motivata di atti richiesti. Questa ovviamente non si realizza qualora il procedimento si sia concluso senza adozione espressa dell’atto in virtù del silenzio-assenso, previsto all’art. 20, comma 1, della l. 7 agosto 1990, n. 241. Dunque perchè vi sia omissione è necessario il ricorrere di tre requisiti: la richiesta formale dell’interessato, il mancato compimento dell’atto entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta (termine previsto dalle norme amministrative) e la mancata esposizione dell’interessato, nello stesso termine, delle ragioni del ritardo.

Passiamo ora ad un esame dettagliato di questo precetto normativo che, nonostante siano passati ben 25 anni dalla sua entrata in vigore, non smette di suscitare dubbi negli operatori del diritto.

Leggendo il primo comma, ben si comprende come nemmeno menzioni il verbo OMETTERE, bensì introduca la locuzione INDEBITAMENTE RIFIUTA. La differenza dovrebbe apparire evidente anche agli occhi del profano del diritto ma, constato ancora oggi come il condizionamento di un articolo desueto e non più in vigore nella sua vecchia accezione, generi molti dubbi ed in alcuni casi la vera e propria convinzione che, la mancata contestazione della benchè minima violazione possa costituire reato ascrivibile al delitto “de quo”. Sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco interpretativo, NON COMMETTE REATO ALCUNO, IL PUBBLICO UFFICIALE CHE OMETTE DI CONTESTARE UNA VIOLAZIONE AMMINISTRATIVA.

Quanto “ut supra” affermato, potrebbe apparire un’aberrazione giuridica ma, la legge non lo prevede esplicitamente come condotta costituente delitto. Da un’attenta analisi, ben si comprende come il precetto normativo introduca il concetto di indebito rifiuto. Ma pragmaticamente cosa significa indebito rifiuto? Quando si ha un rifiuto?  La risposta è di assoluta semplicità e logicità ma vi è di più, la costante giurisprudenza della Suprema corte di Cassazione. Infatti, la stessa ribadisce che per rifiuto deve intendersi quella condotta indebita tenuta dal P.U. di fronte ad una richiesta esplicita.

Cosa significa in termini pratici?

Significa che non esiste la mera omissione come erroneamente ritenuto ancora oggi dalla maggior parte degli operatori delle Forze di Polizia, bensì occorre una condotta di esplicito rifiuto di fronte ad una esplicita richiesta. La natura dell’ atto deve assolutamente ed apoditticamente trattarsi del c.d. atto qualificato. A questo punto potrebbe sorgere il dubbio se una mera condotta omissiva possa far scaturire qualche altra fattispecie delittuosa. Lo scenario potrebbe ampliarsi sul piano normativo, qualcuno sostiene, a mio parere erroneamente che tale fattispecie potrebbe integrare la violazione dell’art. 323 del C.P. ovvero l’abuso d’ufficio che, peraltro tratterò sul prossimo numero. A mio sommesso avviso, non può configurarsi la violazione di cui sopra poiché per tale reato, la legge che lo ha integralmente modificato ne richiede per la sussistenza il c.d. dolo intenzionale. Ritengo, per tali motivi, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, sia assolutamente da escludersi l’ipotesi normata all’art. 323 del codice di rito.All’uopo, giova rilevare come l’esperienza dibattimentale escluda, nella quasi totalità delle ipotesi delittuose che il giudice prenda in  esame l’elemento soggettivo del reato.Ovvero, rimanga una sterile definizione della parte generale del diritto penale. Purtroppo, constato sempre più frequentemente, come il diritto penale sia divenuto e prosegua nella sua evoluzione, come un diritto di opinione e sempre meno come un diritto codificato. L’interpretazione da parte di alcuni magistrati è del tutto avvilente e squalificante per chi ha approfondito tale materia in ogni ambito professionale.

Veniamo ora all’esame del 2° comma, sicuramente più complesso e controverso da parte della giurisprudenza penale ed amministrativa.

Infatti, secondo quanto asserito dalla norma, potrebbe scaturire tale reato quando, solo dopo aver messo in mora la P.A. ed il ritardo non viene assolutamente giustificato, si verrebbero a creare potenzialmente le condizioni afferenti alla  fattispecie penale. Di diverso avviso, appare la Suprema corte di Cassazione che, sempre piùù spesso ha ribadito il principio di specialità enucleato dall’art. 25 della L. 241 /90, sostenendo che sarebbe assorbente sulla fattispecie penale.

Analizziamo ora cosa debba intendersi per totale inerzia.

Corte-di-Cassazione-1024x649In primis si sottolinea come a fondamento della configurazione penalistica debba apoditticamente appalesarsi la fattispecie dolosa, ovvero la coscienza e volontà di non voler fornire alcuna risposta alla questione posta a seguito di interesse legittimo su atto qualificato. Ben si comprende la difficoltà di provare l’esistenza di tale elemento soggettivo, al punto che la norma ha introdotto anche la locuzione “senza che venga giustificato il ritardo”. Ma vi è di più, non è sufficiente quanto “ut supra” esposto si sofferma la Suprema Corte, affinchè possa dar vita alla norma incriminatrice. Ebbene, questa serie di sentenze, affermanti il principio di specialità, mi trovano assolutamente in pieno accordo, asserendo il fatto che il semplice ricorso amministrativo all’art. 25 della Legge sulla trasparenza amministrativa configuri il c.d. Principio di Specialità della norma.

Ora certamente, verrebbe da chiedersi quando è come trova applicazione questo articolo 328 del codice penale. Orbene, da un confronto con uno dei massimi esponenti del diritto penale, l’avv. Renato Papa, segretario generale delle camere penali europee, sembrerebbe proprio non trovare quasi mai un riscontro nella pragmatcita’ quotidiana ad eccezion fatta per rarissime ipotesi delittuose che succintamente mi accingo a rappresentare.

In Primis, la norma penale, vorrebbe il legislatore che trovasse applicazione la dove il,pubblico ufficiale ( dolosamente) rimanga inerte di fronte all’esplicita richiesta del cittadino, il quale reclami in maniera palese, ovvero nelle forme previste il mancato riconoscimento di un interesse legittimo.

Certo, rebus sic stantibus rimane assolutamente difficile provare la suitas della condotta dolosa anche se l’esperienza dibattimentale insegna che, l’elemento soggettivo di un reato, per molti magistrati, continua a rimanere qualcosa di estremamente teorico, stampato solo nella parte generale dei manuali del diritto penale.

Dopo queste brevi e veloci cosiderazioni, sarebbe auspicabile che il legislatore decidesse di far maggiore chiarezza sull’art. ” de quo ” nella speranza almeno di rendere meno interpretativo il lavoro degli operatori del diritto.

 Prof. Avv. Michele Miccoli

  avvocato penalista

sociologo-criminologo

 

Avv. Renato Papa

avvocato penalista

Segretario generale Generale Centro studi penali europei

 

 

 

 

 


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