POTREBBE ESISTERE LA ‘NDRANGHETA IN TRENTINO?

di Alberto Marmiroli

Nel luglio del 2017 la commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi si è recata a Trento. Il principale oggetto di preoccupazione e di discussione è stato il mondo del porfido trentino. E’ proprio all’interno di questo importante settore economico che si è verificato uno degli episodi di cronaca più brutali ed efferati che siano successi in questa regione negli ultimi anni, ovvero il pestaggio dell’operaio cinese Hu Xupai, “colpevole” di voler essere pagato per il lavoro svolto in cava, ad opera di 2 macedoni.

<<== dott. Alberto Marmiroli

Che il settore del porfido non fosse dei più tranquilli, però, probabilmente lo si era capito già nella seconda metà degli anni ’80. Nel 1986 a Lona-Lases la lista civica guidata da Vigilio Valentini vince le elezioni, come primo atto il neosindaco decide di raddoppiare i canoni di cava.

La cosa evidentemente non deve essere piaciuta a qualcuno, visto che al suo assessore con delega alle cave viene prima fatta esplodere una carica di tritolo di 12 kg a pochi metri da casa e poi successivamente, durante un consiglio comunale, gli viene anche dato fuoco alla macchina.

Che via sia la mano della ndrangheta dietro a questi fatti? Una parziale risposta a questo interrogativo prova a darcela un ex lavoratore del porfido:I metodi usati non sono tipici di paesini del nord. Non si erano mai visto in questi paesi, né  mai si vedranno dopo. E’ un po’ un metodo pericoloso, che si spingeva al di là della normale intimidazione, pressione che di solito si aveva in queste valli. Perciò quello fa sospettare che qualche dritta fosse arrivata da qualcuno che invece in quei lavori c’era abituato. (…) Quei fatti avvenivano dentro una cornice intimidatoria che era ben più vasta, praticamente vari consiglieri comunali che sostenevano la maggioranza Valentini, subivano, ma addirittura giornalmente, minacce telefoniche con telefonate anonime durante la notte, lettere anonime, minacce aperte da qualche cavatore sulle strade”.[1]

Le cave di porfido in Trentino sono ubicate tutte all’interno di piccoli Comuni con una bassa densità abitativa. Il numero delle persone che vivono all’interno di un Comune è importante perché meno elevato sarà il loro numero, inferiore sarà il controllo del territorio e il numero di forze dell’ordine predisposto a presidiarlo. Questo è uno dei motivi per il quale questi luoghi sono i preferiti della ndrangheta, dato che sono inoltre facilmente espugnabili da un punto di vista “militare” e politico, dal momento che bastano pochi voti per avere un proprio rappresentante in Consiglio comunale. Il caso di Brescello (microscopico Comune ubicato in Emilia e sciolto nel 2016 per infiltrazione mafiosa) è emblematico sotto questo punto di vista.


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Analizzando le interviste emerge che chi lavora come operaio in questo settore è nella stragrande maggioranza dei casi straniero e ha un’età abbastanza avanzata, circa 55 anni. Ciò ha portato ad alcuni problemi. Chi viene dall’estero e ha una scarsa scolarizzazione è difficilmente sindacalizzabile, dato che non riesce facilmente a capire non solo quali siano i suoi diritti, ma nemmeno la lingua italiana, inoltre, anche per via dell’età, è poco spendibile in altri mestieri, e quindi è costretto a rimanere per forza di cose in questo settore. Caso emblematico sul potenziale livello dello sfruttamento della manodopera straniera che vi può essere all’interno di questo settore è quello di Hu-Xupai, un lavoratore cinese massacrato di botte all’interno della cava perché chiedeva di essere pagato per il lavoro svolto.

Questo caso è ovviamente estremo e non la regola, tuttavia può forse aiutarci a capire perché all’interno delle cave tutti gli intervistati abbiano parlato apertamente di un clima pesante e di considerevoli livelli di paura fra i lavoratori. Secondo tutti gli intervistati all’interno delle cave è difficile eleggere un rappresentante sindacale. I lavoratori preferiscono non esporsi per timore di avere delle ripercussioni.

Il fatto che questo settore sia a basso livello tecnologico, con una manodopera poco specializzata e prevalentemente straniera e quindi con una “forma mentis” diversa rispetto a quella che avrebbe un trentino normalmente sindacalizzabile, ci riporta a quanto successo in Emilia ed emerso con forza dalle carte del processo Aemilia. Quanto avvenuto alla Bianchini SRL ne è la dimostrazione più lampante. In quel caso i lavoratori formalmente ricevevano uno stipendio molto buono, comprensivo di buoni pasto, pagamento di contributi, vacanze, assicurazione sul lavoro, paga ecc, ma, come abbiamo potuto constatare, la realtà alla fine era ben diversa. Essi avevano conoscenza di chi fosse il loro “datore di lavoro” e proprio per questo accettavano lo sfruttamento. I calabresi della Bianchini o ancora prima quelli che erano a Reggio Emilia già negli anni ’70 e che lavoravano a cottimo alle dipendenze del padrone locale per sole 5mila lire al giorno, ricordano per certi versi i lavoratori del porfido stranieri. Essi infatti non potevano rivolgersi al sindacato, inoltre, conoscendo bene la propria situazione di fragilità e le possibili ripercussioni accettavano di essere sfruttati, perché in quel momento quella situazione era l’unica che potesse dare un futuro a loro stessi e alla loro famiglia. I lavoratori stranieri, allo stesso modo, hanno bisogno di lavorare per poter veder rinnovato il proprio permesso di soggiorno, e questo li porta anche ad accettare possibili situazioni di ricatto.

Dalle interviste è emerso che vi sono stati casi in cui i lavoratori non sono stati pagati per mesi o addirittura per anni, ricevendo solamente degli acconti. Il poter controllare un settore economico che permette di dare lavoro e poterlo gestire in questo modo crea potere e capitale sociale, quindi di fatto le condizioni ideali per un’infiltrazione mafiosa. Infatti, analizzando le interviste raccolte emerge che qui ricattare un lavoratore è più facile che altrove, dato che, visto il basso livello di specializzazione, esso è facilmente sostituibile, ma anche perché, essendo straniero, ha appunto necessità di lavorare per vedersi rinnovato il proprio permesso di soggiorno. Non è la tecnologia a fare la differenza, ma è la forza lavoro degli operai. Quindi, facendo un discorso ipotetico, se vi fosse qualcuno capace di cercare e trovare persone disposte a farsi sfruttare pur di avere uno stipendio, anche minimo, avrebbe un evidente vantaggio competitivo, e questa ad oggi è una delle specialità della ndrangheta.

IL CASO DI HU-XUPAI

Durante le interviste ho posto una domanda a due membri di un sindacato che si occupa della tutela dei lavoratori anche nel mondo del porfido sul caso di Hu-Xupai. Essi non hanno saputo rispondere in maniera precisa, entrambi conoscevano l’accaduto, ma solo superficialmente.

Questo fatto, può probabilmente farci capire ancora di più quanto sia forte la distanza fra lavoratori del mondo del porfido italiani (oramai pochissimi) e iscritti al sindacato, e la moltitudine degli altri manovali, stranieri, in molti casi semianalfabeti, poveri e quindi facilmente sfruttabili.

Ovviamente ad oggi non possiamo parlare con certezza di mafia, ma al massimo tentare di capire se questo settore possa essere attrattivo per le cosche di ndrangheta. Analizzando i materiali disponibili, pare che questo settore possa avere caratteristiche particolarmente interessanti sotto questo punto di vista. Una spia potrebbe essere data dal grande livello di contiguità che vi è fra personalità del mondo del porfido e amministratori locali. In alcuni casi abbiamo gli stessi imprenditori del porfido che sono sia arbitri che giocatori, o per dirla in un modo più formale, controllori e controllati. E’ questo uno dei problemi principali, se non il principale problema, che vi è in questo settore.

E’ il costo dei canoni delle cave il nodo cruciale da cui parte tutto, chi lo decide?

Questi piccoli Comuni devono convivere con l’enorme peso politico ed economico dei cavatori. Essi sono prevalentemente i discendenti di coloro che negli anni ’60 diedero il via a questa industria, che però non gode di un sufficiente livello di liberalizzazione e circolazione nel possedimento di queste concessioni. “I concessionari erano loro nel 1964, nel 1989, erano loro nel 1998 e sono loro anche oggi”[2] sostiene un intervistato che all’interno di quel settore ha lavorato per molti anni.

Ma come è possibile? Il fatto è che sono i Comuni stessi a gestire queste concessioni, ed essi a loro volta non sono quasi mai amministrati da persone super partes, ma anzi, sono i cavatori stessi, o loro fratelli, cugini o parenti che nella stragrande maggioranza dei casi gestiscono queste amministrazioni.

Questa forte commistione fra politica e mondo del porfido potenzialmente potrebbe dare vita ad una gestione clientelare e non trasparente del patrimonio comune, come dovrebbero essere le cave di porfido. Fra i diversi Comuni infatti, vi possono essere anche grosse differenze nel costo dei canoni delle cave, anche a seconda se chi li amministra abbia o meno interessi nel mondo del porfido. Un esempio molto eloquente è il caso di Lona-Lases e Albiano, a sostenerlo è un intervistato ex sindaco proprio di Lona Lases. “Te devi pensare che noi fra l’altro tra l’85 e il ’95 avevamo dei canoni di cava molto alti no? Abbiamo calcolato che se Albiano che è il più grosso, devi pensare che Albiano da solo ha il 45-50% del porfido, è il Comune più grosso. A quei tempi, abbiamo calcolato che se il Comune di Albiano avesse adottato il canone di Lona-Lases in 10 anni avrebbe recuperato 20 miliardi di lire, che invece che andare all’utilità dei cittadini di Albiano sono andati nelle tasche degli imprenditori”. [3]

Pare essere effettivamente questo uno dei principali, se non il principale problema di questo settore a sostenerlo è anche un sindacalista con delega alle cave di porfido “Nel momento in cui addirittura ci sono stati dei sindaci che avevano delle cave, come fai ad essere sindaco ed avere delle cave? Non puoi essere sindaco ed avere delle cave. Come fai a tutelare il bene pubblico e nel contempo sei controllore e controllato. E’ lì il problema delle lobby più che altro e delle cave che dovrebbe essere risolto, il conflitto di interessi “[4]

Ma è davvero così diverso il valore di mercato del porfido rispetto a quanto chiesto dai Comuni? A questa domanda forse abbiamo avuto risposta nel 1994. All’epoca la giunta Valentini a Lona -Lases, che già aveva canoni superiori rispetto alla media, revoca una concessione e la mette all’asta ad un prezzo più alto del normale. Essa verrà venduta con un rialzo del 211%.

Sono il costo dei canoni e la durata delle concessioni i due veri nodi da sciogliere per rendere questo settore meno attrattivo per la ndrangheta. Essi fra l’altro sono fortemente intrecciati, chi possiede le concessioni riesce a fare in modo che i canoni delle cave costino poco e contemporaneamente, utilizzando il Comune, ad avere una concessione che ad oggi pare essere senza fine. Ciò rende il settore di fatto ingessato e incapace di aprirsi a nuovi soggetti portatori potenzialmente di un nuovo know-how.

Queste concessioni sono estremamente redditizie, e questo è il motivo per il quale chi le possiede fa di tutto per tenersele ben strette e per impedire che possano essere messe all’asta. Un ulteriore elemento molto interessante emerso durante le interviste è quello della rendita di posizione. Ad oggi infatti vi è un abisso fra quello che sono i canoni pagati dai cavatori e l’effettiva resa del porfido sul mercato.

Questo potenzialmente è un altro indicatore. Infatti, chi meglio di una organizzazione come la ndrangheta potrebbe approfittare di una situazione di questo tipo? Per uno ndranghetista infatti, sarebbe sufficiente mettersi d’accordo con l’imprenditore che, come dimostra il caso emiliano, è solitamente ben disposto, più di quanto si possa pensare, a entrare in contatto con persone di questo tipo: le apparenze potrebbero essere salvate, tutelando così anche il buon nome dell’imprenditore, ricorrendo ad un prestanome.

Quello della rendita di posizione è davvero un indicatore molto importante. Come abbiamo già visto in precedenza all’interno di questo lavoro, gli ndranghetisti non sono abili imprenditori, ad oggi non vi sono casi di aziende guidate da questi soggetti che siano stati capaci di apportare reale valore al mercato. Essi non potrebbero mai realizzare delle barriere all’entrata difficili da superare per un potenziale competitor in un mercato legale, sfruttando solamente il proprio know-how. Quindi, a fronte di ciò cosa può esserci meglio di una barriera artificiale? Cosa può esserci di meglio di un argine creato e mantenuto dalla politica? Se a questo fatto abbiniamo la loro capacità di “assoldare disperati” ben disposti a lavorare per pochi euro, si capisce bene quanto possa essere facile, potenzialmente, per loro entrare in questo mercato con profitto. Questi nuovi lavoratori assoldati dall’onorata società calabrese potrebbero andare ad aggiungersi alle file di lavoratori stranieri che, secondo gli intervistati, per timore, non si iscrivono al sindacato né lo cercano e che non vogliono esporsi in alcun modo a causa della loro fragilità. Gli ndranghetisti inoltre potrebbero attivarsi anche in campagna elettorale, durante le elezioni comunali o provinciali per procacciare voti a colui che si candida alla guida del Comune o della Provincia. Il loro peso sarebbe ancor più rilevante all’interno dei piccoli Comuni, dove già spostare una cifra minima di voti può risultare decisivo.[5] Certo ad oggi è un pericolo solo potenziale, ma è utile ripeterlo, questo meccanismo è avvenuto in una regione non molto distante dal Trentino e considerata modello sotto molti aspetti come l’Emilia-Romagna.

Molto spesso quando si parla di ndrangheta, si sottolinea l’importanza cruciale e strategica della cocaina come strumenti di accumulazione pressoché infinita di ricchezza e potere, anche se il caso Emiliano l’ha dimostrato, non è per forza vero che sia la polvere bianca la principale protagonista della conquista di un territorio vergine. Eppure, la cocaina compare anche qui, ed anche in grande quantità, a riportate questa notizia, tra gli altri è il “Trentino”. “Quando hanno aperto il container, gli uomini della polizia doganale spagnola hanno trovato la sorpresina. Anzi, la sorpresona. Nascosti tra il porfido c’erano 200 chili di cocaina purissima. Polvere bianca che proveniva dal Sudamerica. Per la precisione da Puerto Madryn, una città della provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. Una città molto conosciuta anche in Trentino, dal momento che molti imprenditori nostrani del settore del porfido hanno installato delle attività proprio in quelle zone. E il mittente del carico che nascondeva i 200 chili di cocaina è proprio una società che fa capo anche a imprenditori trentini del porfido. Imprenditori che in questi giorni stanno tremando”[6]

Ad oggi nessuna delle persone che sono state nominate all’interno di questo lavoro è stata né imputata né arrestata per questo fatto, tuttavia è pressoché impossibile pensare di poter trasportare un carico di cocaina così elevato senza l’accordo o quanto meno il benestare della ndrangheta, quindi questo fatto, come e forse più di altri è chiaramente un indicatore, e ci può dimostrare che vi potrebbero essere delle contiguità e dei rapporti, anche stretti, fra alcuni membri di questo settore e la mafia calabrese.

Le spie accese come abbiamo visto sono tante, e tutte ci portano verso un quadro non dei più rosei. La Commissione Parlamentare Antimafia nel 2018 ha parlato di infiltrazioni mafiose, e se fossimo già oltre? “Con infiltrazione criminale si intende l’inserimento o il coinvolgimento di una persona fisica o giuridica, appartenente o collegata ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso o comunque che agisce al fine di agevolare un’organizzazione criminale di stampo mafioso, in un settore economico lecito di qualsivoglia natura con l’obbiettivo di trarne un vantaggio illecito[7]

Questa definizione ci può far capire che già la presenza di Muto in questa regione, per altro arrestato proprio dalla polizia di Trento nel 2011, può essere un indicatore molto forte ed importante sulla pericolosità della ndrangheta in questi luoghi già prima del 2018, anno della pubblicazione della relazione finale della commissione parlamentare antimafia.

Violenze, di media o elevata intensità, minacce, potenziale conflitto d’interessi e distorsione del mercato, fragilità e timore all’interno del mondo dei lavoratori e sullo sfondo preoccupanti legami con il processo Aemilia, più una partita di cocaina di oltre 200 kg ritrovata in Spagna all’interno di un carico contenente porfido. Vista da questo punto di vista, la situazione dell’Emilia e del Trentino potrebbe essere non molto diversa.

L’Emilia oramai da qualche anno vede sul suo territorio uno dei più grandi processi di mafia della storia del Nord Italia, il Trentino invece non presenta, allo stato attuale, particolari inchieste, anche se, come abbiamo visto, dalle interviste sono emerse potenzialmente numerose spie che possono farci ipotizzare che fra le due regioni vi siano svariati punti di contatto.

Entrambi vedono l’epicentro dei loro problemi, veri, come nel caso Emiliano, o presunti come nel caso Trentino, all’interno di piccoli Comuni. In entrambi i casi piccoli Comuni hanno dovuto fronteggiare fenomeni più grandi di loro, Brescello ha avuto i Grande Aracri, una delle famiglie di ndrangheta fra le più potenti al Nord. I piccoli Comuni trentini invece devono legiferare e regolamentare un settore che ogni anno sposta centinaia di milioni di euro, nel 2010 il porfido fatturava 200 milioni di euro.

Il caso emiliano come quello trentino presenta un palese conflitto di interessi. A Brescello abbiamo visto politici locali, o addirittura il sindaco avere ottimi rapporti con i Grandi Aracri: Francesco, numero 1 della cosca al Nord, aveva addirittura svolto dei lavori all’interno dell’abitazione del primo cittadino, al quale si era anche affidato per difendersi all’interno di procedimenti giudiziari che lo vedevano coinvolto come imputato.

In trentino abbiamo visto come effettivamente non vi sia una chiara e netta separazione fra il mondo politico amministrativo dei Comuni, e quello degli imprenditori del porfido. Questi ultimi infatti, in molti casi, hanno ricoperto rilevanti ruoli politici a livello comunale e provinciale. Questo fattore è estremamente importante. La ndrangheta ha sempre cercato contatti con il potere, e qui inoltre potrebbe risultare decisiva. Essa infatti fra le sue skills ha certamente quella di raccogliere voti.[7]In piccoli Comuni come quelli che hanno al suo interno le cave di porfido essa potrebbe risultare decisiva, e ciò potrebbe spingere i candidati alla carica di sindaco a coinvolgerla per il timore di non essere eletti.

Vi è poi un uso della violenza che certamente non è mancato in nessuna delle due regioni. Infatti, solamente per citare una piccola parte dei fatti che abbiamo visto, in Emilia abbiamo avuto una enorme nuvola di fumo che ha avvolto il territorio reggiano, con decine di incendi e minacce, si pensi soltanto alla minaccia alla consigliera comunale della Lega Nord a Brescello Catia Silva. O alla lettera intimidatoria mandata al sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi, e al prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro.

Il Trentino sotto questo punto di vista non è stato da meno. Visto che già negli anni ’80 una carica di tritolo di 12 chili venne fatta esplodere nelle vicinanze della casa di un assessore dell’epoca, colpevole di aver aumentato i canoni, portando un beneficio alle casse comunali, per questo motivo subirà anche l’incendio della sua macchina, proprio durante il consiglio comunale.[8)

Ma non vi sono solo queste violenze. Recentemente, ovvero nel 2019, Walter Ferrari, fra i portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido (CLP), ha subito un pesante danneggiamento al suo trattore, strumento fondamentale per il suo sostentamento in quanto lui è un coltivatore diretto, che l’ha quasi messo fuori uso, altro episodio degno di nota e che ben spiega la difficoltà che deve affrontare chi si occupa di queste tematiche, di notte gli hanno aperto la recinzione all’interno della quale alleva le sue capre. Esse sono scappate e sono stati necessari diversi giorni di ricerche per ritrovarle. Egli inoltre ha dovuto denunciare delle minacce che gli sono state fatte a voce e in pieno giorno.[ii] Quanto successo a Walter Ferrari potenzialmente ben si confà allo stile della mafia calabrese. Quando si pensa a fenomeni di carattere mafioso solitamente si è soliti pensare alla mafia di Totò Riina, ovvero un’organizzazione stragista che faceva saltare in aria magistrati e forze dell’ordine con una ferocia e un’efferatezza quasi inumana. Leggere e tentare di capire la mafia di oggi utilizzando questa prospettiva è di quanto più sbagliato ci possa essere. Questo perché la storia dei Corleonesi è durata un battito di ciglia se paragonata alla storia complessiva del fenomeno mafioso nel nostro Paese, ma poi anche perché la ndrangheta è un’altra organizzazione rispetto alla mafia siciliana. Essa preferisce infiltrarsi in silenzio, poi ovviamente quando non realizza i suoi affari come vorrebbe è solita rinunciare all’immersione, il caso emiliano con la lettera di minacce al Sindaco e al Prefetto De Miro ben spiega ciò, ma vi è dell’altro. La ndrangheta, tolto rari casi, che comunque in trentino ci sono stati e che abbiamo citato prima, preferisce utilizzare una violenza di basso livello, di quella che non fa rumore e non finisce sul giornale. Come mettere 3 kg di zucchero all’interno di un trattore di un coltivatore diretto e/o aprigli il recinto delle capre in modo che esse possano scappare.

Che la ndrangheta da sempre sfrutti le fragilità e le debolezze delle persone per i propri fini lo abbiamo visto nel dettaglio. In particolar modo il caso emiliano ha dimostrato che sono soprattutto i corregionali degli uomini delle ndrine i bersagli prediletti. In questa regione lo sfruttamento andava avanti già dall’inizio degli anni ’70, per questi soggetti era impossibile veder riconosciuti i propri diritti e questo non era solamente un problema enorme per loro, che venivano impiegati in turni lunghi e massacranti con paghe misere, ma anche per tutto il mercato locale che di fatto veniva alterato, ciò porterà ad una lenta e inarrestabile sostituzione delle imprese edili oneste, a discapito di quelle vicine alla cosca.

In Emilia gli uomini della ndrangheta sono riusciti a realizzare enormi profitti, non tanto con la cocaina, come spesso si è portati a pensare, ma grazie soprattutto al movimento terra e ai trasporti. Quelli appena nominati sono solo un esempio, il dato importante che è emerso è che questi settori in cui la ndrangheta si è infiltrata erano a elevato sfruttamento della manodopera e a basso livello tecnologico. E’ in questo ambito che è più facile negare i diritti ai propri lavoratori e poter operare quindi in una situazione di mercato alterato.

Il mondo del porfido trentino presenta proprio questa particolarità, ovvero quella di essere un settore simile al movimento terra. Dalle interviste infatti è appunto emerso che esso è a basso livello tecnologico e ad elevato livello di sfruttamento della manodopera. Ciò, potenzialmente, potrebbe permettere un ricambio più facile dei lavoratori, che per timore di ritorsioni non si espongono e pur di mantenere il proprio posto di lavoro sono disposti anche a firmare buste paga false.

Nel caso emiliano centrale è la presenza di uomini calabresi che di fatto daranno il via a tutti quegli atti criminali che poi porteranno al maxiprocesso Aemilia. Già nel 1970 su suolo reggiano vi è una organizzazione con queste caratteristiche che si farà chiamare “la mafia di Cutro”. Per l’arrivo “ufficiale” della ndrangheta, invece dovremo attendere il 1982, anno in cui arriverà Antonio Dragone, inviato al soggiorno obbligato in provincia di Reggio Emilia.

In Trentino invece, abbiamo tre diverse famiglie calabresi che, stando alle interviste, dimostrano un certo peso all’interno sia di questo settore che della politica locale. M.G.N, verrà condannato a 6 anni e mezzo di reclusione, per estorsione e truffa ai danni dei suoi operai e del Comune all’interno del quale aveva la concessione.  La cosa particolare è che tutte le sue ditte sono all’indirizzo di residenza di G.B, personalità di spicco all’interno delle amministrazioni comunali che possiedono le cave di porfido, egli infatti, assieme a suo fratello P.B, ha ricoperto vari ruoli di responsabilità politica su queste tematiche. Egli stesso è un cavatore, balzato alle cronache per affari miliardari compiuti nel porfido sul finire degli anni ’90, e portati avanti con imprenditori locali estremamente facoltosi. G.B sarà anche fra gli amministratori della Marmirolo porfidi che fallirà, facendo debiti per svariati milioni di euro. Marmirolo porfidi che vedeva fra i suoi amministratori anche Antonio Muto, calabrese anche esso, finito in galera assieme ad altre 124 persone all’interno del processo Aemilia.

In Emilia, come detto, si sta celebrando il più grande processo di mafia del Nord Italia, a ciò si è arrivati perché per decenni non si è capito cosa stesse succedendo e non lo si è capito non solo per incapacità di saper leggere un fenomeno, ma anche per la mancanza degli anticorpi.

Una cosa che accomunava l’Emilia al Trentino, fino a poco tempo fa, è la assoluta mancanza di anticorpi su fenomeni di questo tipo. Come la letteratura medica ci insegna, infatti, prima di avere l’anticorpo ad una malattia è necessario averla avuta. Spesso si è parlato nel caso Emiliano della presenza di anticorpi figli della resistenza. Mai similitudine fu più sbagliata e fuorviante. In primo luogo, perché fascismo e mafia sono fenomeni diversi e poi perché appunto la resistenza partigiana nacque nel 1943, dopo che per 20 anni c’era il fascismo. Proprio su questo punto molto interessante è un aneddoto che è emerso durante l’intervista a Paolo Bonacini, ex direttore di Tele Reggio L’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro, ovvero colei che per prima ha capito la drammatica situazione in cui versava la città al suo arrivo, durante un confronto proprio con il giornalista, sostenne di non amare molto quanto fece la resistenza in Emilia, dato che a suo modo di dire essa si era lasciata andare ad un numero di atti di violenza superiore a quanto fosse necessario.

Bonacini le rispose invitandola a leggere un suo libro scritto anni prima in cui appunto parlava di questo importante periodo storico. Tempo dopo la De Miro gli rispose  questo modo: “Ti chiedo scusa, avevi ragione ma io non so riconoscere il fascismo, voi che lo avete vissuto sulla vostra pelle qua, mentre non c’era il fascismo in Sicilia perché era stata liberata, lo sapete riconoscere al tatto e all’odore ma è esattamente ciò che è successo a me quando sono arrivata su, io che sono esperta di mafia ne ho sentito subito l’odore in provincia di Reggio Emilia e voi invece questo odore non lo sentivate anche se c’era la puzza da quarant’anni.”[9]

Gli anticorpi alla ndrangheta in Emilia probabilmente potranno iniziare a svilupparsi da ora. L’anticorpo infatti inizialmente, ovvero quando ancora non si hanno avuti shock, come indagini o processi importanti, non può esservi non solo per una mancanza oggettiva, come appunto ci indica la letteratura medica, ma anche perché esso, qualora fosse presente, sarebbe inibito dallo stigma. Lo stigma è stato certamente presente nel caso reggiano e ancor di più in quello brescellese. Sono stati infatti necessari ben 3 anni, per vedere la realizzazione di un evento pubblico in cui poter parlare liberamente di ndrangheta alla presenza di esperti dell’argomento. Anche in questo caso non sono mancate frecciate e dichiarazioni volte a volersi discolpare da quanto accaduto in paese, ma ciò è figlio di un processo di digestione che sarà ancora lungo, ma che, tuttavia, ha già dato risultati degni di nota.

Sono davvero molte le spie accese all’interno di questo settore. Se, mentre guidassi la mia auto, sul display me ne apparissero un numero così elevato certamente mi fermerei e chiamerei un carroattrezzi.

L’obbiettivo di questo lavoro non è quello di sostenere che in Trentino o nel settore del porfido vi sia la ndrangheta, all’inizio del 2020 dire che in questa regione vi sia la medesima situazione di molte realtà del nord Italia o del caso Emiliano sarebbe dire il falso, dato che non vi sono stati in passato processi particolarmente strutturati su queste tematiche. Tuttavia, alla luce dello studio della letteratura e delle interviste, il mercato del porfido Trentino per i motivi che abbiamo espresso, pare essere un settore all’interno del quale si sono verificate le condizioni ideali per una possibile infiltrazione mafiosa. Ed è dunque necessario, soprattutto in questo settore, avere un particolare livello di attenzione, ponendo in atto delle modifiche che possano andare a spegnere o quanto meno a ridurre il più possibile le spie che abbiamo visto in precedenza.

Dott. Alberto Marmiroli – Sociologo

NOTE

[1] Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca

[2] Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca

[3] Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca

[4] Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca

[5] https://www.youtube.com/watch?v=sFN3dSL8BI4; 13/02/2020

[6]https://www.giornaletrentino.it/cronaca/trento/nel-carico-di-porfido-nascosti-200-chili-di-coca-1.1110737;04/02/2020

(7] Calderoni e Canepelle, 2009, p. 11.

[8] https://www.youtube.com/watch?v=5gf5sg5-aq8; 06-02-2020

[9] [1] Intervista numero 4 in appendice al lavoro di ricerca

[10] Intervista numero 4 in appendice al lavoro di ricerca

[11] Intervista Paolo Bonacini in appendice al lavoro di ricerca


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