POLITICA E ANTIMAFIA, QUANDO L’AVVISO DI GARANZIA NON HA LO STESSO PESO MORALE

MUSEO DELLA 'NDRANGHETA sociologia onwebSiamo stati sempre garantisti e lo siamo tuttora: sempre e comunque. Perché questo principio della nostra civiltà giuridica vale per tutti:  dal colto all’inclita, dal politico al semplice cittadino, dal ricco al povero, da chi  è ritenuto  mafioso a chi milita nell’associazionismo antimafia.  La presunzione d’innocenza, che la nostra Costituzione codifica senza possibilità di equivoco, non può essere macchiata da un avviso di garanzia che da atto di tutela del cittadino è diventato,  ormai, una   “sentenza” inappellabile che, prima ancora dei tre gradi di processo, marchia a fuoco  qualsiasi cittadino. Basta questo strumento,  ancorché previsto dal nostro codice,   per incardinare processi mediatici e non,  in cui le parti dell’accusa e della difesa  vengono svolte  da giornalisti,  criminologi, tuttologi  e da quanti altri  si prestano  a fare parte di giurie popolari sui generis.  Molte delle accuse sostenute dai “Piemme mediatici” o da “bar”, spesso, coincidono con quelle che la giurisdizione  riconosce  a fondamento  di una sentenza. Ma ci chiediamo se sia  giusto  che fatti  riconducibili  alla privacy ( tutelata dalla legge dello Stato)  di un qualsiasi cittadino vengano  vivisezionati  per fare audience o per vendere  copie di  quotidiani, riviste, bollettini del gossip. Detto questo, che sosteniamo con convinzione, ci chiediamo  se  a volte ( forse spesso) un processo mediatico  non diventi un’arma di lotta politica, uno strumento per vendette di varia natura.  E quando una Corte,  che in nome del popolo amministra la giustizia,  riconosce l’innocenza di un cittadino  chi restituirà l’onore  a questa sorta di scarto umano  da conferire in una delle tante discariche sociali?  Suvvia, siamo seri.  E dobbiamo esserlo ancora di più  quando  vogliamo condannare o assolvere, a tutti i costi,  in nome di convinzioni personali,  di interessi politici o  associazionistici. E siamo   alla metafora  dei “due pesi e  delle due misure” in cui “alcuni uomini sono  più uguali di altri”.

Ci sono poi i cosiddetti tribunali speciali dell’associazionismo antimafia. Quella schiera di “professionisti” (come li indicava Leonardo Sciascia) che ne hanno sempre e comunque per tutti.  Che strana giustizia quella  di una “certa” antimafia – quella delle partite Iva, del folclore, della corsa all’accaparramento dei beni confiscati –  che come vestale “conserva” il fuoco che riscalda i comportamenti adamantini, i loro,  mentre tutti gli altri fanno parte dei brutti e dei cattivi.  La loro voce, di condanna o di assoluzione, non può essere messa in discussione, mentre il loro silenzio rientra nella fattispecie garantista. Sì, del garantismo peloso.  Per un semplice “avviso” recapitato, spesso via stampa,  ad esempio, a un politico  vengono invocate  le dimissioni, denunciata  l’assenza o la deriva democratica,  il generale stato di degrado. Insomma parte la maratona dei comunicati, delle prese di posizione che i giornali  affiggono nelle loro pagine – bacheca  senza che questi attacchini della  trascrizione  vengano sfiorati dal dubbio della presunzione  di innocenza.  Se,  invece, una qualsiasi indagine riguarda  eroi, eroine, associazioni  antimafia nessuno osa toccare l’inquisito,  al quale ( giustamente sottolineano i garantisti veri) spetta la presunzione d’innocenza.

Grazie a Dio in questa società di spettatori, c’è l’antimafia vera: quella che paga sulla propria pelle la resistenza, fatta di comportamenti e di azioni reali e non annunciate, allo strapotere dell’antistato. Ma la negazione della “colpa” o la pretesa d’innocenza  -che appaiono simili, ma non lo sono –  diventano armi spuntate  in un’epoca in cui i social media  narcotizzano l’opinione pubblica  anche grazie a quelle  legioni d’imbecilli  che, prima dell’attuale rivoluzione digitale, “condannavano o assolvevano” standosene seduti ai tavolini di un bar davanti  od una gassosa  o una bottiglia di birra.

Non condannateci per reato di lesa maestà, se affermiamo  che l’avviso di garanzia, nell’immaginario collettivo, non è uguale per tutti. E già: perché  quello emesso nei  confronti di alcuni politici dell’inchiesta “Rimborsopoli”   del Consiglio regionale della Calabria peserebbe  quanto i metri cubi  della  frana di Maierato, mentre  quello recapitato ai  responsabili del Museo della ‘ndrangheta di Reggio  sarebbe  un atto dovuto. E se nel primo caso, l’associazionismo antimafia ha preteso dimissioni e passi indietro, nel secondo  è scattata la  sindrome delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. E ovviamente, non scrivo.

Antonio Latella  – giornalista e sociologo ( Presidente Dipartimento Calabria  dell’Associazione Nazionale Sociologi)


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