Pilato e Biles: l’etica della sconfitta
di Giampaolo Latella
Due storie al femminile ci raccontano il “lato oscuro della luna”, per dirla con i Pink Floyd. Le protagoniste sono Benedetta Pilato e Simone Biles: la primatista mondiale dei 50 rana di nuoto e la ginnasta dei record che, giovanissima, stupì il mondo conquistando a Rio quattro ori olimpici e, poi, cinque titoli iridati.
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Soggiogate al loro talento e schiacciate dal peso delle aspettative, entrambe a Tokyo hanno fallito. Squalificata l’italiana – appena sedicenne – al termine di una gara che ha definito “orribile”; ritirata l’americana nella finale a squadre che ha fatto sfuggire il gradino più alto del podio alla nazionale Usa. I fallimenti di Benedetta e Simone impressionano per le tante analogie. Arrivate in Giappone con i favori del pronostico e la pressione dell’opinione pubblica in patria, non sono riuscite a nascondere il motivo della loro sconfitta che è da ascrivere soprattutto a un crollo psicologico.
” I DEMONI NELLA TESTA”
Pilato ha fatto autocritica, in lacrime, davanti alle telecamere. Biles, dopo un primo tentativo di far passare il ritiro come la conseguenza di un infortunio, ha ammesso la complessità del momento che vive: “Ho i demoni nella testa”. Non è certo l’elemento agonistico a interessare in questa sede, quanto il fattore emotivo che ha frenato il rendimento delle due atlete, svelandoci la loro fragilità, drammatica e umana.
Benedetta e Simone sono rimaste in ostaggio della loro fama, divorate dalle dinamiche di uno “star system” sportivo cinico e spietato, che non perdona e trasforma le gratificazioni in una prigione dorata: una torre eburnea di solitudine, di paura, di emozioni soffocate e represse. Non sono certo le prime né le ultime sportive a vivere una crisi. E certamente non saranno le prime, né le ultime a sopravvivere dopo aver bevuto il calice del fallimento.
Ma deve far riflettere la loro condizione: diversa nelle proporzioni, ma non nelle potenziali conseguenze, da quella di tanti giovanissimi che non riescono a far fronte alla “condanna”, alla riprovazione sociale, al marchio indelebile che sente addosso chi non raggiunge un traguardo, non solo sportivo.
La società dell’immagine nella quale siamo immersi impone canoni insostenibili e irrealizzabili, nell’idolatria del successo, dell’ammirazione e dell’accettazione altrui, del facile arricchimento, della spasmodica ricerca di follower sui social, dell’inseguimento di modelli estetici di una bellezza asettica e innaturale, conformistica, di plastica.
Esempi che rischiano di minare le fondamenta del nucleo della personalità dei ragazzi, oggi peraltro ancora più a rischio, dopo un anno e mezzo di pandemia (e di dad) che li ha privati della forma tradizionale ed essenziale di socialità tra coetanei: la scuola.
Tutto questo si aggiunge al già pesante carico che il Covid-19 ha comportato sul piano didattico. Secondo Save the children, si stima che nel mondo siano stati persi 112 miliardi di giorni dedicati all’istruzione, con i bambini più poveri ad essere maggiormente colpiti. In particolare, si ipotizzano una perdita di apprendimento equivalente a 0,6 anni di scuola e un aumento del 25% della quota di bambini e bambine della scuola secondaria inferiore al di sotto del livello minimo di competenze.
Ma torniamo allo sport, che nel mondo pre-Covid era una delle principali agenzie educative. I drammi, tecnici e umani, di Benedetta Pilato e Simone Biles non possono lasciarci indifferenti. Anzi, devono trasformarsi in un monito e in una sollecitazione a un impegno collettivo per una nuova pedagogia che punti a rafforzare il senso di sé e la personalità dei giovani. In particolare dei bambini e degli adolescenti, oggi vittime del bombardamento mediatico che si auto-infliggono a causa della solitudine, della mancanza di stimoli, dell’assenza di luoghi e di momenti di aggregazione reali.
C’è da interrogarsi su quale modello di società stia nascendo in questi anni. Una società di monadi tristi e prive di vitalità, di ragazze e ragazzi “condannati” a eccellere, a conformarsi a mode, trend topic e challenge, a credere che il fine ultimo della nostra esistenza consista un pugno di dollari e di like, in un palmares di successi e conquiste.
Il rischio è che si perda di vista il senso della vita, che si smarrisca il contatto con la realtà, quella vera, non filtrata dallo smartphone.
Ben vengano, dunque, le sconfitte, necessarie per la maieutica delle emozioni, per la catarsi che passa dal pianto e, soprattutto, per accettare se stessi. Ma questo processo rischia di non concludersi mai se non sarà diffusa a tutti i livelli sociali un’educazione verso modelli meno sfrenatamente ambiziosi e, più semplicemente, umani.
Soccorrono così le parole di Nelson Mandela, presidente sudafricano e premio Nobel per la pace che anche attraverso il rugby contribuì a cambiare la storia del Novecento: “Non perdo mai. O vinco o imparo”. È l’etica della sconfitta. Di gran lunga più importante dell’ebbrezza della vittoria.