NATALE PER CHI? QUANDO ANCHE L’INTEGRAZIONE DIVENTA INTEGRALISTA
Sta facendo discutere la decisione di un preside di Rozzano che ha vietato i festeggiamenti natalizi a scuola a seguito delle stragi di Parigi. Ogni anno si ripropone il controverso tema del Natale come festa cattolica irrispettosa o meno verso gli altri culti religiosi presenti nella nostra penisola. Tutto cominciò circa 11 anni fa, quando due maestre di una scuola materna decisero di non allestire il presepe per non urtare la sensibilità dell’unico bambino musulmano che frequentava l’istituto.Destra e Sinistra prendono posizioni opposte e radicali come sempre. Io voglio cercare di scorgere una via che non si situa nel mezzo, ma che tenta di radicarsi nella riappropriazione di un senso critico che trascende le classiche visioni ideologiche.Parto dall’assunto che il Natale non è propriamente un culto, ma una tradizione culturale. Almeno questo è diventato nel momento in cui abbiamo accolto nella pratica religiosa della Natività del Signore, tutti quei simboli che rimandano ad un aspetto profano del Natale: Santa Claus, l’albero di Natale come albero di vita, e una miriade di tradizioni popolari che nulla hanno a che fare con la religiosità intrinseca del Natale.
Questi elementi citati sarebbero già sufficienti a sganciarlo da una visione prettamente religiosa per inquadrarlo nel tema più ampio delle tradizioni popolari. Per cui, a chi sostiene la laicità della scuola, si potrebbe rispondere che il Natale non è affatto solo religione, ma è costituito da un sottobosco popolare che attinge da diverse memorie e folclori. Soprattutto per i bambini il Natale, diciamocelo chiaramente, è più legato alla figura di Babbo Natale che di Gesù; la magia dell’Albero ha di gran lunga superato la “sacralità” del Presepe (del resto il Presepe non è nemmeno un precetto religioso, per quanto di ispirazione religiosa). Il Natale per i bambini è qualcosa che rientra in un mondo fiabesco. Per noi adulti, invece, assume diversi significati: i cattolici praticanti sicuramente lo imposteranno sulla santità, quelli laici potrebbero accoglierne soltanto gli aspetti che rientrano nella tradizione popolare, altri ancora potrebbero optare per una via di mezzo o non festeggiarlo affatto. Disponiamo della libertà di credere e praticare secondo la nostra visione delle cose.
La scuola, che è un luogo di istruzione, in cui si ha l’enorme responsabilità di crescere le donne e gli uomini del domani, dovrebbe basarsi sulla diffusione della conoscenza e conoscere significa anzitutto non censurare. Conoscere vuol dire imparare le nostre differenze, essere incuriositi da esse, scoprirne il significato e condividerle. Nascondere o vietare un presepe non è educativo. Ostentarlo negando l’esistenza di altre culture che convivono con la nostra, non lo è altrettanto. Non si tratta di imporre o di rinunciare, si tratta di condividere. Per questa ragione, ritengo che in un Paese laico, di cultura cristiana, con una percentuale importante di altri culti religiosi, con scuole che accolgono per prime il germogliare di queste nuove culture, la vera rivoluzione, il vero rispetto, sarebbe quello di accogliere la diversità senza cancellare la nostra identità. Un Natale in cui si insegna ai bambini cosa fa un bambino buddhista, musulmano, induista, ebreo, cristiano; in cui la religione non diventa un tabù né una barriera, ma uno strumento per conoscere l’Altro, per non avere paura dell’Altro, per comprendere l’Altro, come direbbe Euclides Mance. Insegnare che la religione non deve essere un mezzo per indottrinare e/o strumentalizzare le masse, né un motivo per farsi la guerra; scoprirne le matrici comuni, studiarle senza inculcare un Credo, ma instillare nelle piccole menti la curiosità per ciò che ci circonda, in nome della conservazione o della costruzione di nuove identità, più contaminate e più ricche.
Mi viene in mente un film del 2014: “The Giver: il mondo di Jonas”, che presenta un mondo in cui vige la pace totale, un mondo paurosamente flat, in cui le differenze sono state annientate persino nelle cose più banali come il modo di vestire, dove il linguaggio deve essere misurato e preciso e si redarguisce ogni sforo linguistico con un diplomatico e gelido: “Proprietà di linguaggio, per favore”; dove non esiste un “ti amo” ma solo “ti stimo” perché l’amore, come la rabbia, il dolore, la passione, sono emozioni pericolose, assolutamente da evitare poichè sfuggono al controllo della ragione; un mondo in cui persino la variabilità climatica è stata annientata per scongiurare cattivi raccolti e, di conseguenza, guerre, carestie, depredazioni. Il mondo in cui vive Jonas, il protagonista portatore di memorie che scoprirà la vera storia del mondo traendone un importante insegnamento, è incolore, non ha emozioni, né buone né cattive, sopravvive come un paziente in coma farmacologico, silenzioso, immobile e incapace di fare del male. Vivo, ma praticamente quasi morto, inconsapevole di essere stato privato delle sue sensazioni, dei suoi sogni, delle sue capacità empatiche. Arrivare a creare questo mondo senza differenze è sembrata la scelta più ragionevole a seguito di orrori indicibili che hanno devastato l’umanità. Eppure qualcosa non torna. Assieme alla scomparsa della diversità è andata perduta anche la bellezza e questa è stata l’iniezione di morte finale.
Davvero vogliamo un mondo di pace letale? Davvero vogliamo anestetizzarci dalle emozioni perché incapaci di viverle? Davvero vogliamo perdere le nostre memorie, cancellare le nostre storie? Davvero siamo talmente ottusi da non riuscire a vedere al di là del nostro microcosmo? Davvero abbiamo bisogno di disciplinarci alla sterilità? Davvero crediamo di rispettare l’Altro nascondendolo o nascondendoci? Davvero vogliamo rinunciare alla bellezza della diversità?
Forse vale la pensa pensarci, prima di annientarci in un modo o nell’altro.
Sonia Angelisi Sociologa ANS