MIGRAZIONE E WELFARE
di Alessia Maria Lamberti
Come l’immigrazione viene gestita dai governi centrali o a livello internazionale? Generalmente le politiche pubbliche in materia di immigrazione si suddividono in due grandi classi: le politiche migratorie rivolte alla regolazione del flussi migratori e al controllo dell’ammissione sul territorio di cittadini stranieri, e le politiche relative agli immigrati, che comprendono quelle di integrazione e di ammissione alla cittadinanza .
Dott./ssa Alessia Maria Lambaerti ==>>
La questione del controllo dei flussi migratori assume una posizione di rilievo nelle agende politiche dei governi, in particolare a partire dal blocco dell’immigrazione nei primi anni Settanta. Negli ultimi decenni, infatti, si è verificato un noto paradosso per cui sono stati liberalizzati molti tipi di scambi e flussi attraverso le frontiere, mentre i movimenti di persone sono stati sottoposti a regimi restrittivi e sempre più stringenti, con l’intento di dimostrare di poter tenere sotto controllo i confini dello Stato, per evitare di incorrere in crisi di fiducia da parte dei cittadini che chiedono di essere protetti da potenziali terroristi, fiancheggiatori o reclutatori. La letteratura sul tema ha sottolineato la de naturalizzazione dei confini mediante la crescente dotazione di strumenti tecnologici per l’identificazione dei viaggiatori e la sorveglianza dei punti di passaggio, ma anche con il ricorso all’antichissima tecnica dei muri. Ambrosini, ci propone l’evoluzione di tale controllo in tre direzioni: verso l’alto con l’accresciuto ricorso ad agenzie ed organismi sovranazionali ( il Frontex); verso il basso con la richiesta alle autorità locali di collaborare all’attuazione di politiche più stringenti di controllo del territorio; verso l’esterno, con il coinvolgimento di attori privati, a cui viene richiesto sotto pena di sanzioni, di verificare con scrupolo la validità dei documenti degli stranieri.
Facendo riferimento allo scenario Europeo, la priorità viene attribuita alla repressione dell’immigrazione irregolare: l’Unione Europea promuove una chiusura verso Sud e verso l’immigrazione scarsamente qualificata, resistenza nei confronti dei rifugiati, apertura verso l’Est Europa e completa libertà nel caso dei nuovi paesi membri. Le possibilità di ingresso legale oggi disponibili nei maggiori paesi Europei, si collocano ai due poli opposti della struttura occupazionale: o si tratta di autorizzazioni per lavori stagionali, oppure di lavoratori ad alta qualificazione. Le restrizioni, in particolare, si sono abbattute sul diritto d’asilo e sulla possibilità di ingresso per ragioni umanitarie; tra le svariate misure misure volte ad ostacolare l’ingresso dei richiedenti asilo, la più incisiva e discussa riguarda la responsabilizzazione dei paesi di transito o di primo ingresso ( Convenzione di Dublino): è qui che il rifugiato deve presentare la domanda di asilo, e in caso di riconoscimento questi paesi hanno l’obbligo di accoglierlo. Alessandra Corrado, in Migrazioni per lo sviluppo, infatti, ci ricorda due principali strumenti adottati dalla cooperazione europea: la politica europea di vicinato ( PEV) e la politica di co-sviluppo. La PEV rappresenta il quadro strategico per l’intensificazione della cooperazione con i paesi prossimi, permettendo di realizzare un sistema di cogestione delle frontiere. La politica di co-sviluppo, invece, è rivolta ai paesi in via di sviluppo; in particolare è da annoverare il piano di azione adottato a Rabat nel 2006 composto da tre assi: la promozione dello sviluppo, promozione della migrazione legale, repressione della migrazione illegale attraverso il rafforzamento della capacità di controllo delle frontiere nazionali dei paesi di transito e di partenza. I progetti messi in atto a livello istituzionale, per la promozione del co-sviluppo, però, sono spesso complessi e di difficile realizzazione, non riscuotono fiducia ma sospetto nella gestione dei fondi ecco perché i migranti scelgono attività informali di natura individuale o comunitaria.
Infatti gli stessi, anziché sottomettersi ai vincoli imposti dai paesi riceventi, hanno perseguito strade alternative, ma spesso sono stati intercettati e fermati nel corso del viaggio, altri sono caduti preda di organizzazioni criminali, molti sono arrivati ma hanno avuto la possibilità di inserirsi in qualche interstizio dell’economia sommersa. Di conseguenza, si registra un divario tra immigrazione autorizzata ed immigrazione effettiva, che rimane aperto nonostante la capacità degli Stati nel controllo dei flussi migratori si sia rafforzata nel corso del tempo; i governi di questo ne prendono coscienza assumendo provvedimenti per superare tale divario. L’ICMPD, a tal proposito, ci fornisce due principali classi di sanatoria della condizione di soggiorno irregolare degli immigrati: i programmi di regolarizzazione, validi per periodi di tempo limitati e mirate su specifiche categorie di stranieri in condizione irregolare; e i meccanismi di regolarizzazione, ovvero l’insieme di procedure attraverso cui gli Stati garantiscono uno status legale agli stranieri presenti irregolarmente sul territorio, sulla base di una lunga permanenza o per caratteri umanitari.
Ma osserviamo, in particolare, i caratteri rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia: il carattere collettivo e di massa ( nel nostro paese non sono stati adottati provvedimenti individuali, concessi caso per caso, ma la strada adottata è stata quella di provvedimenti con termini rigidi nella presentazione delle domande, che comportano lunghi tempi di attesa, difficoltà di esame approfondito delle istanze, e l’inevitabile ricerca di escamotage e soluzioni di comodo); la ricorrenza periodica ( la media è stata fino al 2012 circa una sanatoria ogni tre anni e mezzo. Questo comporta una costante precarietà degli immigrati presenti nel territorio Nazionale); elevati livelli di discrezionalità ( lasciati alla macchina burocratica e ai funzionari che esaminano concretamente le istanze, gli immigrati subiscono disparità di trattamento e persino peregrinazione delle istanze da una questura ad un’altra).
Tutto ciò, ci permette di avanzare due osservazioni: la prima fa riferimento al dilemma delle democrazie liberali; la seconda, invece, fa riferimento alla precarietà evidente a causa delle sanatorie. Per quanto riguarda il dilemma delle democrazie liberali possiamo dire che per diventare più efficienti nella repressione dell’immigrazione irregolare, gli stati dovrebbero diventare meno liberali. E’ per tali ragioni che hanno messo in atto delle Sanatorie rivolte alla regolarizzazione, ma che hanno generato maggiore precarietà: è quasi surreale pensare che gli immigrati per poter conservare lo status di regolari, devono avere un’occupazione stabile, quando il mercato li richiede in riferimento all’economia sommersa e quindi per lavori instabili e precari. Diventa sempre più complicato riuscire a conservare il permesso di soggiorno, ma, anche riuscire a ritornare nel proprio paese d’origine.
Il secondo versante delle politiche migratorie, riguarda, come anticipato precedentemente, l’integrazione degli immigrati nelle società riceventi. La letteratura sull’argomento ha individuato tre principali modelli d’inclusione delle popolazioni immigrate:
il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea in cui la stessa è vista come un fenomeno funzionale, ovvero gli immigrati sono considerati lavoratori chiamati, in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non devono mettere radici. Questo è il caso della Germania che si riteneva un paese di lavoratori ospiti; Castels a tal proposito parla di un modello di esclusione differenziata, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società, ma si vedono negato l’accesso ad altre ( come la partecipazione politica e la cittadinanza);
il secondo modello può essere definito assimilativo che ha trovato in Francia una sua manifestazione convinta. Qui il criterio fondamentale è l’omologazione anche culturale dei nuovi arrivati: è aperta l’ammissione ai nuovi venuti, a patto che aderiscono alle regole della politica democratica adottando la cultura della nazione ospitante. Per entrare a far parte a pieno titolo della nazione, gli immigrati devono avere alcuni anni di soggiorno, la fedina penale pulita, la conoscenza della lingua, e alcune conoscenze di base circa la storia e i fondamenti costituzionali. Le seconde generazioni acquistano a pieno titolo la cittadinanza secondo il principio dello ius soli: chi nasce sul territorio ne acquisisce la nazionalità;
il terzo modello è quello pluralista o multiculturale, in cui convergono esperienze storiche, matrici culturali e orientamenti politici differenti. Questo terzo modello può essere distinto in due varianti: quella liberale, tipica degli Stati Uniti, in cui si è tolleranti verso le differenze culturali, ma non sono favorite dall’impegno statale; e quella delle politiche multiculturaliste esplicite che implicano la volontà del gruppo di maggioranza di accettare le differenze culturali. Gli aspetti positivi di questo terzo modello, seppur nelle sue varianti, sono quello di attribuire un primato ai diritti individuali rispetto le norme comunitarie promuovendo una concezione multiculturale di cittadinanza, e quello di eliminare le forme discriminatorie e gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati.
Ma in questo panorama, dove si colloca l’Italia? Possiamo partire definendo i caratteri delle politiche migratorie in materia di inclusione, nella nostra Nazione: non ci sono politiche di reclutamento, vi è una scarsa regolazione istituzionale, vi è un’influenza rilevante degli attori sociali, una ricezione contrastante che va da aperture umanitarie a fenomeni di chiusura e rigetto, una diffusa rete di mutuo aiuto spontaneo tra connazionali, un inserimento nel mercato del lavoro informale. Pertanto, secondo queste premesse, Ambrosini ci suggerisce di parlare di un modello implicito di inclusione, in riferimento all’Italia, caratterizzato da politiche per lo più di carattere emergenziale. Tra queste ricordiamo la legge Turco-Napolitano, che poneva l’enfasi sulla parità giuridica e il rispetto delle differenze culturali, e introdusse l’istituto dello sponsor, per fornire maggiori garanzie per consentire l’accesso e il soggiorno a immigrati per motivi di lavoro; la legge Bossi-Fini che ha eliminato quest’ultimo istituto, ponendo alternative più stringenti. Per arrivare, poi, al governo di centro destra eletto nel 2008 che promuove il collegamento immigrazione e ordine pubblico, ancora oggi al centro del dibattito pubblico e politico e oggetto delle future politiche migratorie, in particolare quelle relative al governo M5S-Lega.
La logica emergenziale, infatti, ha caratterizzato tutte le forme di inclusione nel nostro paese, come ad esempio: le strutture di prima accoglienza e smistamento (CPSA, CDA, CASA) situate soprattutto nelle regioni meridionali, che avrebbero compiti di primo soccorso, identificazione e raccolta delle domande di asilo; i centri del sistema SPRAR istituito nel 2003 e rinominato SIPRIOMI nel 2018, che prevede un’accoglienza integrata per gruppi limitati di persone, in collaborazione con i Comuni che si candidano presentando appositi progetti ( dal 2018,però, possono accedervi solo persone in condizioni di vulnerabilità); i centri di accoglienza straordinaria che sono stati istituiti come soluzione di emergenza per tamponare la mancanza di posti nel sistema SPRAR.
L’accoglienza, in sostanza, è stata ridotta alla risposta ad esigenze minimali, che candida, inoltre, gli immigrati alla quasi totale esclusione sociale.
Abbiamo parlato della cittadinanza, e abbiamo visto come differenti modelli di inclusione, hanno concezioni differenti di cittadinanza in rapporto all’immigrazione. Vi sono tre diversi criteri di attribuzione della cittadinanza: il diritto di sangue, il diritto di suolo e il diritto di residenza ( si può aggiungere anche lo ius culturae, ovvero l’attribuzione della cittadinanza a chi frequenta almeno 5 anni di scuola nel nostro paese e consegue un titolo di studio). Ma cosa vuol dire cittadinanza in rapporto ai processi migratori? Riprendendo Zincone, consideriamo i principali significati: il primo riguarda l’appartenenza ad uno Stato, quindi risiedere liberamente sul territorio, uscire e rientrare dai suoi confini. Il secondo fa riferimento all’emancipazione, soprattutto alla possibilità di partecipare alle decisioni pubbliche ( diritti politici di Marshall); con il terzo intendiamo, invece, la possibilità di godere della protezione e dei benefici garantiti dai poteri pubblici ( diritti sociali di Marshall); infine, vi è il quarto significato per cui si registra un uguaglianza tra i cittadini, in cui non si esclude il pluralismo. Ma, se nel campo degli studi, si considera sempre la cittadinanza dall’alto, è importante anche la cittadinanza attribuita dal basso, ovvero l’insieme di relazioni tra individui, gruppi e istituzioni che si costruisce giorno dopo giorno nel tempo.
Tra le pratiche di cittadinanza dal basso emergono le pratiche di volontariato, formali e informali a cui partecipano gli immigrati con l’intento di presentarsi come cittadini attivi, solleciti del bene comune e impegnati a migliorare la qualità della vita sociale. A tal proposito, è importante sottolineare anche gli aspetti positivi della nostra nazione, l’Italia, citando l’esperienza di Camini. Dal 2010, e ancora nel 2016 e 2018, il comune calabrese, è stato protagonista di vari progetti volti a garantire l’inclusione della popolazione immigrata. Questi progetti hanno avuto impatti positivi non solo dal punto di vista degli immigrati, ma anche della popolazione autoctona: la presenza di giovani e bambini migranti ha contribuito ad evitare la chiusura dei servizi educativi di un paese ormai in spopolamento; vi è stata una ripresa degli esercizi commerciali,e grazie all’aumento di manodopera si è promossa la ristrutturazione del centro storico, sono stati recuperati terreni abbandonati per la produzione dell’olio extravergine d’oliva, sono stati creati laboratori artigianali di cucina, legno, pittura, sartoria, ferro battuto e ceramica.
Possiamo concludere questo capitolo, pertanto, affermando che a livello nazionale e internazionale, in rapporto ai processi migratori, si è registrata una crescente deresponsabilizzazione dei governi centrali e delle istituzioni, mentre un ruolo centrale viene attribuito ai governi locali, al terzo settore e alle associazioni di volontariato. Ciò a cui puntano le politiche migratorie è un controllo delle frontiere, mediante un’azione di esternalizzazione: bloccare i flussi migratori ai confini degli Stati membri e bloccare le domande di asilo, deresponsabilizzandosi, attribuendo responsabilità nella valutazione delle domande e nell’accoglienza ai paesi di transito dei migranti. Ma perché i flussi migratori sono al centro dei discorsi politici, ma poi vengono depoliticizzati attraverso l’implementazione di tali politiche? Tutta la visione migratoria sembra essere Eurocentrica, mai si considerano le condizioni dei paesi in via di sviluppo o non sviluppati a cui si riversa questa responsabilità, non ci si chiede perché le persone decidono di emigrare dal loro paese d’origine, e quali possono essere i giusti mezzi per fronteggiarla. La migrazione viene dibattuta con carattere emergenziale, lo stesso carattere che fa emergere l’ostilità della popolazione autoctona, utilizzata per giustificare le politiche di esternalizzazione e deresponsabilizzazione.
Tutte queste dinamiche occultano gli effettivi numeri della popolazione immigrata ( nel 2017 circa il 3% della popolazione mondiale), ma soprattutto la costante precarietà e incertezza, sembra essere la principale causa per cui diminuisce il numero di immigrati regolari, ma viene avvantaggiato l’arrivo dei migranti illegali o la permanenza dei migranti irregolari.
Ora, concentriamoci ai sistemi di welfare in Italia, e quindi alle garanzie dei diritti sociali rivolti agli immigrati. Come suggerisce Alessandro Sicora, per comprendere la situazione attuale e le prospettive future, è utile volgere uno sguardo al passato. Solitamente i diritti di cittadinanza vengono indicati in un pacchetto di servizi, detti welfare, che riguardano i livelli minimi essenziali per una vita decente delle persone e delle famiglie, ossia: l’istruzione, la sanità, la sicurezza sociale, l’alloggio, e in caso di necessità, i servizi particolari alle persone. A partire dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, possiamo riconoscere tre fasi del sistema di welfare: la fase della beneficienza privata, dove una serie di realtà private, religiose o laiche, effettuano un’attività di beneficienza rivolta a persone in stato di difficoltà, dove lo Stato non ha alcuna responsabilità. La fase della beneficienza pubblica, che prende avvio con la legge Crispi, che inserisce la beneficienza entro le funzioni pubbliche; la fase dei servizi sociali pubblici, contestualizzabile intorno agli anni ’70, che porta alla transizione dal concetto di beneficienza a quello di servizi sociali, visti come un vero e proprio diritto.
Infine vi è la fase dei servizi sociali integrati, che prende avvio con la legge-quadro 328-00; l’obiettivo è qui rilanciare una situazione caratterizzata dalla compresenza di realtà pubbliche e private, considerate componenti necessarie per “ la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Con questa ultima fase, si passa dall’espressione welfare State, che sembra essere divenuta inadeguata, a quella di Welfare mix, che evoca la compresenza tra sfere diverse, quindi tra pubblico e privato. Ma come le due sfere gestiscono gli interventi e i servizi di welfare? La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali sono di pertinenza dell’ambito pubblico, mentre alla gestione e all’offerta dei servizi provvedono sia i soggetti pubblici che il privato. In particolare, i Comuni sono tenuti a svolgere le attività volte a soddisfare gli interessi della collettività locale, riconosciuti dalla legge; accanto ai Comuni vi sono le Aziende Unità Sanitarie Locali, che si occupano delle prestazioni socio-sanitarie e collaborano per la stesura dei Piani di Zona.
Le Regioni, infine, esercitano la funzione di coordinamento, organizzazione e valutazione dei servizi erogati a livello locale. Per quanto riguarda il Terzo settore, invece, il campo è più diversificato; all’interno di questo, infatti, troviamo espressioni di solidarietà organizzata che possono assumere la forma di organismi senza scopo di lucro, cooperative, associazioni di volontariato, fondazioni, associazioni ed enti di promozione sociale. Ma come vengono inseriti i migranti nel complesso sistema dei servizi sociali? La finalità del Welfare Mix, in riferimento ai migranti, è l’ integrazione sociale, culturale ed economica degli stranieri immigrati in Italia, dei richiedenti asilo e (…) la lotta alla tratta e le vittime dello sfruttamento della prostituzione. Tale tipologia di utenza fa riferimento a due macrocategorie del sistema integrato dei servizi sociali: “ Interventi o servizi sociali” e “ centri e strutture residenziali, semiresidenziali e diurne”. Per quanto riguarda la prima macrocategoria citiamo: i centri telematici di ascolto, gli interventi per l’integrazione sociale dei soggetti deboli o a rischio, le attività ricreative di socializzazione, il sostegno socio-educativo scolastico, i servizi di prossimità/buon vicinato/ gruppi di auto-aiuto. Nella seconda macrocategoria, invece, gli immigrati ricevono una protezione sociale prevalentemente orientata all’accoglienza abitativa, oppure orientata ad accoglienze di emergenza.
Oggi, però, il fenomeno migratorio appare eterogeneo, sia nelle sue caratteristiche ( Stato di provenienza, modalità d’arrivo), sia nelle sue motivazioni ( per ragioni economiche, per ricongiungimento familiare, per ragioni politiche o altro), di conseguenza vi è la necessità di costruire, talvolta, percorsi individuali di inserimento socio-economico. Ma la crisi economica, come scrivono Morniroli e Pugliese, “ ha fatto fallire migliaia di progetti migratori che ormai sembravano essersi stabilizzati in condizioni di successo e inclusione (…). Fallimenti che in molti casi hanno spinto i migranti ad accettare (…) condizioni di lavoro caratterizzate da forte sfruttamento e precarietà di vita (…).”. Ecco, in questo contesto, emerge la differenza tra “noi” e “loro”: differentemente dal caso in cui a cadere al di sotto della soglia minima di reddito sono i cittadini italiani, quando a trovarsi in difficoltà è il lavoratore straniero, in una fase di soggiorno precaria, lo Stato è legittimato ad imporre il rimpatrio, non essendo un appartenente alla comunità, non essendo un cittadino, ma soprattutto un non cittadino che non può mantenersi. Elena Spinelli propone un momento di riflessione a partire dal concetto di discriminazione e come questo influenza le politiche migratorie, ma anche l’accoglienza degli immigrati nel Welfare.
Discriminazione significa separazione, e deriva dal latino “discriminatio”: distinguere, fare una differenza; in sociologia la discriminazione è un comportamento non favorevole verso gruppi sociali che hanno particolari peculiarità. Nel caso del sistema di Welfare, vediamo un sistema legale che è discriminatorio nei confronti dei “non italiani” in quanto li esclude o ne limita il godimento di alcuni dei diritti civili, come il voto, il diritto alla libera circolazione, il diritto di accedere ai servizi pubblici o ,ancora, la libertà professionale. La studiosa Lidia Morris a tal proposito, parla di “stratificazione civica”, facendo riferimento ad una crescente complessità con un accesso differenziato alla distribuzione delle risorse tra cittadini, semi-cittadini e stranieri. Le principali variabili che condizionano l’accesso ai servizi sono: la sussistenza del diritto d’accesso, la consapevolezza di questo diritto e l’effettivo esercizio del diritto; ma in realtà se ci pensiamo bene, i diritti nel caso degli immigrati diventano frutto di una negoziazione politica. Con la Legge 94 del 2009, ad esempio, vi è l’introduzione del reato di ingresso/ o soggiorno illegali, che ha tra le innumerevoli conseguenze, anche quello di imporre agli operatori socio-sanitari, la segnalazione per l’espulsione di coloro che si rivolgevano ai servizi non in possesso del soggiorno.
L’accesso e la fruibilità dei servizi sanitari e sociali, inoltre, sono resi complicati anche dalla scarsa informazione degli operatori sulla normativa che regola le diverse possibilità e modalità di accesso alle prestazioni per stranieri; tutto ciò deve essere confrontato, ancora, con il quadro burocratico formale, permeato da pratiche informali: una Asl prevede la riabilitazione anche per stranieri irregolari con il tesserino “Straniero Presente Temporaneamente”, altre Asl no; un Municipio prevede l’erogazione dell’assegno di maternità con il permesso di soggiorno, altri chiedono la carta di soggiorno. La non conoscenza della normativa e la differente applicazione della stessa, ha aumentato il potere dell’operatore, che manca di riferimenti culturali sull’organizzazione del Welfare italiano. A rendere difficile l’accesso ai servizi, inoltre, sono le barriere organizzative, le barriere economiche, che sono frutto di incompetenza e discriminazione istituzionale. In tutto questo contesto gli immigrati, per l’implementazione di politiche a carattere emergenziale, vengono percepiti dagli autoctoni come privilegiati nell’ambito delle politiche sociali, facendo sorgere movimenti xenofobi e anti-immigrati, che vengono utilizzati dal dibattito politico per giustificare i processi di espulsione e categorizzazione dei flussi migratori tra “ migranti utili allo Stato” e “ migranti da controllare perché minano lo sviluppo dello Stato stesso”.
Ma, pensare che gli immigrati, secondo i criteri di povertà e precarietà, rappresentano un costo particolare sul sistema di Welfare e, in generale, sull’economia dei Pesi di arrivo, non fa altro che ingigantire la portata della povertà degli immigrati, attribuendo meno attenzione ai processi di inclusione e inserimento.
La pratica dell’accoglienza, infatti, richiede in primo luogo un atteggiamento di apertura e di disponibilità nei confronti di una utenza immigrata, già a partire dal primo contatto con i servizi affinché il migrante riesca ad esprimere la propria soggettività, il proprio codice culturale, al fine di ricevere accoglimento della propria esperienza nella sua complessità e stabilire una relazione di fiducia. In effetti, è necessario non dimenticare che l’immigrato è prima di tutto un emigrato, che sta affrontando quello che viene definito “trauma migratorio”; la prima conseguenza dell’emigrazione è che la persona passa da un luogo in cui possedeva un’identità sociale, una storia, dei legami affettivi solidi, ad un altro in cui la stessa svanisce totalmente in un luogo in cui diventa un “nessuno”. Domande quali “ da dove viene, da quanto tempo è qui, cosa faceva lì, chi della sua famiglia sta ancora lì, come risolveva tali bisogni nel suo paese d’origine”, sono la base per un intervento d’aiuto, per un ascolto emotivo della persona che si ha di fronte.
Al contrario, osservazioni come “ signora ma un altro figlio!…”, ad una donna immigrata incita, con altri quattro figli al seguito, può far sentire la stessa “diversa”, facendo nascere sentimenti come l’imbarazzo, l’umiliazione, la delusione, il sentirsi sbagliati; nello stesso tempo tutto ciò può avere come conseguenza la paura di instaurare un rapporto con le istituzioni, e quindi il non utilizzo dei servizi di welfare anche quando ne hanno pieni diritti. Non va dimenticato, infine, che la categoria “migranti”, non deve essere analizzata secondo una visione eurocentrica, perché nella stessa vi sono una varietà di persone, non solo in riferimento alla provenienza, ma perché ognuno costruisce i proprio orizzonti di senso in maniera originale, ognuno ha una propria storia “lì”, ed una storia “qui”. Ma soprattutto ognuno da un significato differente alla sua storia “lì” ed alla sua storia “qui”. Probabilmente le istituzioni, per avanzare un welfare in grado di garantire a tutti la stessa sicurezza, dovrebbero comportarsi così come Weber insegna a noi sociologi: considerare l’agire dotato di senso, cioè tutte quelle azioni determinate da interessi e valori a cui gli individui attribuiscono uno specifico significato soggettivo.
Concludo questo capitolo, e la mia tesina, con le parole di Lorenz: “ La diversità culturale non rappresenta una questione di ordine culturale in quanto tale, ma diviene una critica per il fatto che evidenzia l’esistenza di una crisi della solidarietà in seno alle società contemporanee”.
Dott.ssa Lamberti Alessia Maria
BIBLIOGRAFIA
- Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, terza edizione, il Mulino, Bologna, 2020;
- Alessandra Corrado, Migrazioni per lo sviluppo. Modelli di cooperazione e politiche di co-sviluppo;
- Mariafrancesca D’Agostino, Alessandra Corrado, Francesco Caruso, a cura di, Migrazioni e confini. Politiche, diritti e nuove forme di partecipazione, Rubbentino Editore srl, 2016;
- Colf e badanti, l’immigrazione silenziosa (secondowelfare.it).