MA DAVVERO LA DEMOCRAZIA È SEMPRE SINONIMO DI LIBERTÀ?
Un moto di commossa partecipazione sta inondando la penisola in attesa del referendum di domenica prossima in Grecia. L’iniziativa del premier greco Tsipras di ridare la parola al popolo che con la sua decisione indirizzerà il proprio futuro, viene considerato un gesto di straordinario valore democratico enfatizzato ancor di più per il contesto nel quale la decisione è maturata e perché fatto nella terra che ha generato la democrazia, con l’aggiunta di un discorso, da parte di Tsipras, dai toni oratori che hanno riecheggiato i fasti dell’antico avo Pericle.
Come d’incanto, la forte emozione che si è impadronita in questi giorni di crisi greca e di prereferendum ha accantonato tutte quelle ricerche e riflessioni sul rapporto tra cittadini e sfera politica che hanno sollevato importanti questioni relative alla natura e alla qualità delle democrazie di massa così come queste si sono venute concretamente configurando nel corso del XX secolo appena trascorso.
Le risultanze di questa esperienza indicano che i livelli medi di partecipazione dei cittadini alla vita politica sono molto al di sotto degli standard esplicitamente o implicitamente fissati dalle teorie normative della democrazia. Nonostante i miglioramenti intervenuti sul piano socioeconomico, alla fine del XX secolo e soprattutto all’inizio del nuovo millennio, il cittadino reale è ancora assai diverso dal modello descritto e auspicato dai vecchi libri di educazione civica. Ma questa constatazione, ampiamente condivisa dagli studiosi della materia, non porta a conclusioni univoche.
Da un lato c’è chi ritiene che i livelli di partecipazione comunemente riscontrati negli attuali sistemi democratici siano in larga misura ‘fisiologici’ e difficilmente modificabili, almeno nel breve periodo. Per definizione, la partecipazione non può che avere carattere di spontaneità e dipende, in ultima analisi, dalla disponibilità dei cittadini a dedicare alla politica parte del proprio tempo e delle proprie risorse (intellettuali e materiali) a scapito di altre attività. È certo possibile e auspicabile che i membri della società assumano un ruolo più attivo in politica, ma per la sua stessa natura l’etica democratica non può prescrivere obblighi inderogabili di partecipazione.
Dall’altro lato, c’è chi vede nel deficit di partecipazione popolare alla vita politica la prova che le democrazie contemporanee sono ancora largamente imperfette e sicuramente perfettibili.
La qualità della democrazia potrebbe sensibilmente migliorare con un più esteso e intenso coinvolgimento della cittadinanza nell’arena politica. Una maggiore partecipazione contribuirebbe a formare cittadini più informati e competenti e darebbe anche maggiore voce ai valori e agli interessi di settori della popolazione ora inadeguatamente rappresentati. Un’opinione pubblica più attiva e coinvolta lascerebbe minor spazio all’azione dei gruppi di pressione portatori di interessi particolari, limitandone l’influenza sulle decisioni della comunità. Ne risulterebbero maggiori e più incisivi stimoli per la classe politica, periodicamente sottoposta al giudizio di elettori più maturi e in grado di decidere a ragion veduta e, per questo, meno influenzabili da eventuali pressioni o da suggestioni superficiali.
Certamente, un deciso miglioramento del quadro della partecipazione a livello di massa non potrebbe che avere ripercussioni positive sulla performance complessiva del sistema politico.
È una tesi condivisibile, ma che non affronta il problema di come possa venire colmato il deficit di partecipazione che caratterizza le democrazie contemporanee.
Le esperienze più recenti, che stanno portando alle attuali crisi nel mondo occidentale, offrono nuove chiavi di lettura che, per essere comprese, necessitano il chiarimento di alcuni equivoci che si perpetuano nel tempo, due in particolare: la democrazia rappresentativa non è la democrazia; ormai è divenuta consuetudine associare la democrazia alla libertà, ma non è così.
In virtù del sistema della delega, quella che viene definita “democrazia rappresentativa” costituisce in realtà un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie (i partiti ed i loro apparati,) che opprimono l’individuo singolo, libero, che rifiuta queste appartenenze, questi umilianti infeudamenti, e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, mentre così ne diventa vittima designata. I partiti che non erano contemplati nelle concezioni dei teorici della democrazia e, fino al 1920 non apparivano in nessuna costituzione liberaldemocratica, non sono, come suole dirsi, l’essenza della democrazia, ma la sua fine, quando decidono non solo i candidati ma anche gli eletti. E così, al cittadino non resta che la scelta dell’oligarchia dalla quale preferisce essere dominato. Gli stessi teorici moderni della democrazia, da Bobbio a Sartori, ammettono che si tratta in realtà di aristocrazie mascherate. Solo che rispetto alle aristocrazie storiche non hanno né le qualità né gli obblighi, ma solo i privilegi: l’oligarca democratico non ha alcuna qualità prepolitica.
Per quanto riguarda il cosiddetto “secondo equivoco”, invece, la democrazia rappresentativa è, in realtà, un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie politiche ed economiche, strettamente intrecciate tra di loro. Anche se quasi tutti i regimi sono stati oligarchici, un sistema oligarchico che si presenta sotto le forme della democrazia non è la stessa cosa di un sistema dichiaratamente aristocratico e ha pesanti conseguenze sul tessuto sociale, sul nostro modo di essere, sulla nostra vita. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione, unicamente e tautologicamente, quello di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo che le ha prodotte. In queste concentrazioni vi si ritrovano i mediocri, i deboli, che però uniti avranno sempre la meglio su chi agisce individualmente e liberamente. Nel solco del pensiero liberale si realizza l’estremo paradosso, proprio da chi voleva difendere i “diritti naturali” dell’individuo, valorizzandone capacità, meriti, potenzialità, si finisce invece per mortificare proprio il singolo, l’uomo libero, colui che rifiuta appartenenze e sottomissioni.
A demolire ogni tipo di riferimento positivo e di mitizzazione della democrazia, ci ha pensato lo studioso Hans Hermann Hoppe (1), che nel 2005 ha fondato la Property and Freedom Society.(2)
Hoppe, nel corso di un intervento ad un convegno tenutosi a Padova il 9 dicembre 2010, spiega, facendo riferimento ad un suo libro, quella che appare come la ricostruzione revisionista della storia moderna occidentale: dall’emergere dagli ordini feudali [che erano entità non statali] degli Stati monarchici assoluti e dalla trasformazione del mondo occidentale, cominciata con la rivoluzione francese e completata con la fine della prima guerra mondiale, che ha visto il passaggio degli Stati monarchici a quelli democratici e l’assurgere degli Stati Uniti al ruolo “di impero universale”.
A proposito di democrazia, secondo Hoppe, “Il primo e più fondamentale mito è che l’emergere da un ordine precedente (il periodo feudale) degli Stati sia stata la causa del progresso economico e civile che ne è seguito. La teoria ci induce invece a ritenere che tale progresso ci sarebbe comunque stato nonostante, e non a causa, la formazione degli Stati”.
Infatti, per Hoppe, “Lo Stato può essere definito convenzionalmente come: un’agenzia che esercita un monopolio territoriale, imposto con la forza, sia sulla decisione finale da prendersi in caso di controversie (giurisdizione) sia sulla tassazione. Per definizione quindi, ogni Stato, a prescindere dalla sua particolare costituzione è economicamente ed eticamente inadeguato”.
Ciò perché ogni monopolio è un “male”, dal punto di vista del consumatore.
Se la tendenza culturale esalta l’aspetto in base al quale la transizione dalle monarchie assolute agli Stati democratici viene considerato un progresso nei confronti della monarchia e che sia la causa dello sviluppo morale ed economico recente, per Hoppe “la democrazia è stata invece la fonte di tutte le forme di socialismo: del socialismo democratico europeo, del liberalismo e del neo-conservatorismo americano così come del socialismo internazionalista, quello sovietico, del fascismo italiano e del nazionalsocialismo in Germania”.
In base alla sua teoria, “la transizione dalla monarchia alla democrazia riguarda né più né meno il fatto che un “proprietario” monopolista ereditario, il principe o il re, sia sostituito da un “curatore” monopolista temporaneo e intercambiabile, il presidente, il primo ministro, e i membri del Parlamento. Sia i re sia i presidenti democratici produrranno dei misfatti, ma un re, poiché “possiede” il monopolio e può venderlo o tramandarlo ai propri eredi, si curerà degli effetti delle proprie azioni sul valore di questo suo capitale. In quanto proprietario del capitale sul “suo” territorio, il re sarà relativamente orientato al futuro. Per conservare e migliorare il valore della sua proprietà, egli lo sfrutterà moderatamente e in maniera calcolata. Al contrario, un curatore democratico temporaneo e intercambiabile non “possiede” il paese ma, per il tempo che rimane in carica, gli è consentito di usarlo a proprio beneficio. Questo non solo non elimina lo sfruttamento, anzi lo rende di corte vedute (orientato al presente) e non calcolato (sfrenato), cioè condotto senza alcun riguardo per il valore futuro del capitale presente nel paese”.
Il punto è che, come ha scritto Simone Weil, (3) “il vero spirito del 1789 (4)consiste nel pensare non che una cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il volere del popolo ha più probabilità di ogni altro volere di essere conforme alla giustizia”.
A conferma di ciò, basti ricordare come della Repubblica di Weimar (5), si sia potuto dire che era “una democrazia senza democratici”.
Maurizio Bonanno – giornalista e sociologo ANS
[1] Hans Hermann Hoppe è un economista tedesco, esponente della scuola austriaca, e un filosofo politico anarco-capitalista, che seguendo le orme del suo maestro Murray N. Rothbard, col quale lavorò per dieci anni in America, concentra la sua teoria sull’anarco-capitalismo e sul fallimento dell’istituzione Stato.
[2] La Property and Freedom Society ( PFS ) è un’organizzazione di cultura libertaria che si rifà alla cosiddetta “scuola austriaca” che si dedica alla promozione dei diritti di proprietà , il libero scambio, che si richiama all’anti- empirismo quando si tratta di economia, antimilitarismo , antimperialismo , anti-egualitarismo, ed alla libertà di associazione ) ed il conservatorismo culturale. Fondata nel maggio 2006 di Hans-Hermann Hoppe , teorico libertario, si presenta come la più radicalmente libertaria alternativa al Mont Pelerin Society. La PFS tiene conferenze annuali dove libertari e conservatori intellettuali pronunciano discorsi e si scambiano idee
3 Simone Adolphine Weil (1909 – 1943) filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l’insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all’impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute. vicina al pensiero anarchico e all’eterodossia marxista, i suoi argomenti spaziano dall’etica alla filosofia politica, dalla metafisica all’estetica, comprendendo alcuni testi poetici.
4 Il 26 agosto 1789 è una grande data della storia costituzionale. A Parigi, i rappresentanti del popolo francese, costituiti in Assemblea Nazionale, votano e approvano la Déclaration des droits de l’Homme et du Citoyen. Una data e un testo che segnano la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra e rappresentano una svolta nella storia del genere umano. Se collocata nel suo contesto storico, la Dichiarazione rivela lo spirito di una lotta generalizzata contro l’ordinamento giuridico, sociale e politico, fondato sul principio dei privilegi corporativi. Ma l’importanza e la grandezza della Dichiarazione è quella di essere, e di andare, oltre lo spirito del tempo. Non solo testo che dichiara i diritti per la Rivoluzione francese, ma documento che si proietta nel futuro e per il futuro dei diritti dell’umanità. Quei diritti che vengono dichiarati rappresentano ancora oggi le radici dei diritti fondamentali dell’uomo: una grande conquista di civiltà giuridica e politica per la Francia di allora, ma soprattutto per la storia umana.
5 La repubblica di Weimar fu lo stato con cui venne identificata la Germania tra il 1919 ed il 1933. L’indicazione Weimar, deriva dalla omonima città, dove si tenne un’assemblea nazionale per redigere una nuova costituzione dopo la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Il primo tentativo di stabilire una democrazia liberale in Germania fu un periodo di grande tensione e di conflitto interno nonché di grave crisi economica, che si concluse con l’ascesa al potere di Adolf Hitler e del Partito Nazionalsocialista nel 1933. Anche se tecnicamente la costituzione del 1919 non venne mai revocata del tutto fino a dopo la seconda guerra mondiale, le misure legali prese dal governo nazista nel 1933, comunemente note come Gleichschaltung, in effetti distrussero tutti i meccanismi forniti da un normale sistema democratico ed è quindi comune segnare il 1933 come la fine della Repubblica di Weimar.