LO SPETTACOLO DELLE MANETTE E IL RITORNO ALLA BARBARIE

sociologia onweb 2 novembre 2013Assistendo per caso alla trasmissione televisiva di Ra3 “Il tempo è la storia”, ho avuto la conferma   come il nostro Paese sia rimasto indietro nel campo dei diritti dell’uomo e della   tutela   della sua dignità. Diritti e dignità che anch’io, fino a quando come giornalista mi sono occupato di cronaca nera e giudiziaria, ho violato con comportamenti che oggi mi fanno arrossire provocando nel mio intimo momenti di grande sofferenza.   Focalizzando l’immagine relativa all’arresto di Camilla Ravera, avvenuto ad Arona   (Novara) nel 1930 durante il regime fascista, ho avuto la conferma dell’abuso sistematico dei mezzi dell’informazione   rispetto alla privacy   e, in generale, ai diritti fondamentali delle persone.   Abuso non “ad libitum”, ma offerto dallo Stato, nella fattispecie dalle forze di polizia, in occasione di provvedimenti restrittivi ottenuti dalle Procure della Repubblica per vicende legate alla criminalità comune, organizzata o ad episodi che,   per lo status dei soggetti coinvolti, fanno aumentare l’audience e, alla fine, producono notorietà e, forse, agevolano le carriere di rappresentanti della polizia giudiziaria e della magistratura.

La senatrice Camilla Ravera, importante artefice della costituzione del PCI, in un’istantanea del tempo viene ritratta tra due carabinieri che, probabilmente, la stavano accompagnando in caserma per notificarle i motivi dell’arresto.   Erano gli anni in cui   l’Italia   doveva fare i conti   con la dittatura e le “ragioni” del fermo ovviamente, erano riconducibili al suo impegno   contro   quella forma di stato e di governo di uno dei periodi storici più   bui della nazione.   Rapportando quell’immagine, riferita a quella fase storica   in cui le libertà   individuali e collettive erano un optional, con quelle dell’odierna società della comunicazione e dell’informazione, artefice del “villaggio globale” che ha allargato gli spazi di libertà e democrazia –   non sempre   rispettosi della dignità umana -, c’è da chiedersi se le sfilate di indagati con le manette ai polsi non violino le vigenti norme di legge. Non siamo né operatori né cultori del diritto, ma questo non impedisce di esprimere riserve e perplessità su un sistema che fa a pugni con la civiltà giuridica ( in questo caso presunta) di un Paese come l’Italia. E’ giusto portare in processione, fare sfilare in passerella sotto i flash dei fotografi e davanti alla telecamere, quanti vengono sottoposti alla limitazione della libertà personale?   Ed ancora: esiste o no una disposizione che lo impedisce o, quanto meno, lo limita? Se sì, allora   qualcuno commette degli abusi che devono essere sanzionati.

Quelle manette ai polsi, di uomini e donne, sono un fatto retrogrado che fa a pugni con qualsiasi tipo di civiltà. Nonostante la limitazione della libertà personale, quei cittadini che escono in manette dalle questure o dalle caserme delle altre forze dell’ordine sono dei semplici indagati. Tra gli ammanettati, è vero, troviamo dei delinquenti,   ma, come spesso è capitato in passato, anche persone che poi risultano totalmente estranee ai fatti loro addebitati. L’indagato al quale viene applicata una misura cautelare, in carcere o ai domiciliari, ha dei diritti: all’immagine, alla privacy   e alla tutela della dignità che spetta a qualsiasi essere umano.

Un delinquente ammanettato che si trova davanti un muro di foto- cineoperatori si esalta, si sente importante e, spesso, con la sua postura lancia messaggi a quella piccola folla di parenti e amici che stazionano davanti alle questure (e non solo). Spettacoli del genere ben si prestano a rafforzare la leadership criminale di quanti ormai il lessico comune definisce boss.

Il risvolto della medaglia, spesso, raffigura persone   che, per strane coincidenze,     rimangono     avvolte nella spirale delle indagini,   ma che le successive verifiche a garanzia dei diritti del presunto   reo   dimostrano, a volte prima di un giudizio penale, la sua estraneità ai fatti. In quel caso la sua immagine con le manette ai polsi ha già fatto il giro del mondo, ha prodotto giudizi personali ed effetti devastanti alla sua immagine che, difficilmente, saranno totalmente cancellati dopo l’accertamento della sua estraneità o della sua innocenza.

L’istantanea dell’arresto di Camilla Ravera ha provocato altri flashback:   gli “schiavettoni”   ai polsi di Enzo Carra ( durante “Tangentopoli”), le manette alle cosiddette donne della ‘ndrangheta, l’arresto –     ai domiciliari – dell’ex sindaco di Melito Porto Salvo Giuseppe Iaria.

In quest’ultimo caso ritengo una forzatura farlo uscire con i braccialetti ai polsi, camuffati da un soprabito, dalla sede provinciale dei Carabinieri per essere condotto nella sua abitazione nel melitese.

 

 

Le   immagini di cui stiamo discutendo non indicano   la vittoria dello Stato o la sua presenza   sul territorio. Anzi, tutt’altro. La sanzione è la conseguenza del fallimento di un’azione intanto preventiva, quindi pedagogica da parte dello Stato. La sfilata con le manette ai polsi o il loro strumentale tintinnio sono una riedizione moderna dell’antica barbarie. Sull’argomento   ci sarebbe molto da discutere e questa, certamente, non è la sede per trattarlo in modo esaustivo. Quello che voglio evidenziare è   l’abuso che viene fatto delle manette da parte   della polizia giudiziaria, il silenzio della magistratura su queste scene e la disinvoltura, in barba all’etica e alla deontologia dei giornalisti, con cui gli arrestati   finiscono sulle pagine dei giornali. Tutto ciò, al di là della violazione di precise disposizioni, è un’aperta violazione dei diritti umani e di quella che la nostra Costituzione definisce presunzione d’innocenza.


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