L’essere umano e l’accettazione del “rischio”

di Federico Carlino

L’essere umano è una creatura estremamente abitudinaria, è un animale che ricerca costantemente la ripetizione della routine, la certezza di ciò che gli è familiare e conosciuto. Riesce a vivere, salvo alcuni casi, felice e tranquillo solo ed esclusivamente nell’iterazione di un ciclo a lui congeniale e sicuro. È l’abitudine alla situazione, la tranquillità di ciò che è consueto, sia esso piacevole o meno, che fornisce la stabilità necessaria alla psiche umana.

<<== Dott. Federico Carlino

Appena questa invariabilità viene meno, lo stato di quiete e immobilità che cullava il soggetto subisce un pesante contraccolpo, richiedendo molte volte un’enorme quantità di tempo per potersi riposizionare. E questo accade sia a livello della comunità, sia a livello del singolo.

Questa certezza, questa sicurezza della ripetizione, e questa indisposizione al mutamento delle nostre consuetudini, viene riflessa anche sui pericoli e sui rischi che oggigiorno siamo disposti a correre, o che accettiamo come tali, senza mostrare una preoccupazione eccessiva. Il numero delle minacce derivanti dal nostro comportamento è certamente alto, ma siamo disposti ad affrontarle solo nel caso in cui posseggano alcune caratteristiche particolari e ben definite.

Come argomentato da Ulrich Beck, la società moderna è una società che si basa sul rischio, una società che deve, per forza di cosa, accettare tutti i pericoli, o ancora meglio, tutti gli effetti collaterali che il nostro stile di vita comporta, specialmente per quell’ambito legato al settore scientifico e tecnologico, che, a maggior ragione, può avere conseguenze catastrofiche e deleterie per la salute. Questo, ovviamente, non esclude la presenza di numerosi rischi legati alla sicurezza internazionale o a possibili crisi finanziarie (Beck, 2000).

Ulrich Beck ==>>

Il periodo di saldo ottimismo legato al positivismo, quando la fiducia cieca e costante nel progresso e nell’avanzamento delle possibilità umane verso posizioni migliori guidava la nostra vita, è finito definitivamente. I disastri, primo fra tutti l’incidente verificatosi a Chernobyl nel 1986, ma anche il più recente di Fukushima del 2011, hanno completamente annientato lo spirito ottimistico nell’essere umano. Inoltre, il mondo ha più volte visto come, anche senza incidenti di sorta, il potenziale tecnologico possa venire utilizzato in forma offensiva, con tutte le conseguenze oggi note.

Ma a differenza delle teorizzazioni fornite da Beck, i rischi da noi accettati non sono totalmente svincolati da un nostro controllo, o da una nostra volontà, e non bisogna necessariamente porre una distinzione netta tra rischi globali e singoli, considerando i primi come collegati a una rassegnazione rispetto a una situazione completamente indipendente e i secondi come decisi attraverso una consapevolezza completa. È per questo che nell’utilizzo della parola “rischio”, in questa sede, non s’intende la classificazione del sociologo tedesco, ma il pericolo che ogni azione umana, sia singola sia collettiva, possa comportare. L’una incide sull’altra.

Tuttavia, nonostante la presenza di questi effetti collaterali, e la piena consapevolezza da parte nostra della loro minaccia, l’essere umano non sembra essere particolarmente preoccupato del pericolo a cui viene esposto da un comportamento che lui stesso mantiene imperterrito. L’abitudine alla presenza di determinati rischi ha fatto sì che, ormai, anche la percezione degli stessi sia superata e presa sottogamba. Non bisogna commettere l’errore di considerare ogni rischio su un medesimo livello, ma è necessario differenziare effetti collaterali che si è disposti ad accettare, ed effetti collaterali di cui, invece, non è possibile sopportare la presenza.

Tutti quelli che rientrano nel primo gruppo, generalmente, possiedono tre caratteristiche principali: la non presenza nell’immediato futuro, la conoscenza della loro esistenza da parte della popolazione e la provenienza da un comportamento profondamente radicato. Per quanto riguarda il primo punto, un rischio, per essere accettato e per non creare panico nella società, deve necessariamente muoversi a una velocità differente dalla suddetta. In questo caso, non deve avere effetti nelle immediate vicinanze, ma in un futuro lontano o, ancora meglio, indefinito. Il mondo moderno è estremamente accelerato. Ogni cosa si muove con costanza senza giungere fondamentalmente a nulla, e senza, soprattutto, guardare oltre il tempo più prossimo possibile. Viviamo nell’adesso e pensiamo solo a un futuro estremamente limitato, che non riesce ad estendere il proprio sguardo oltre il domani. I rischi che perciò siamo disposti a correre sono quelli che non hanno nessun tipo di collegamento con l’oggi, ma che sono localizzati in un periodo lontano e/o indefinito. Sono quelli che noi non possiamo percepire se non nell’analisi di un lasso temporale considerevolmente esteso, che in genere comprende anni, se non decenni.

Prendiamo, per esempio, il caso dell’inquinamento. Sappiamo perfettamente che l’uso massiccio e costante di prodotti derivanti dal petrolio comporterà un costante e graduale aumento dell’inquinamento ambientale, che altro non farà se non aggravare la già critica situazione del pianeta. Siamo perfettamente consci che, senza un repentino cambiamento della situazione, non potremo altro che avere effetti negativi. Eppure, il mondo, tranne alcuni singoli casi o iniziative dettate dalla futura situazione, non si lascia prendere dal panico, né si abbandona a momenti di isteria collettiva o di rivolte in nome della salvezza del pianeta.

Tutto questo perché l’inquinamento non possiede un effetto immediato. Lo slogan che più viene ripetuto è: “Per il bene dei nostri figli”, ed è senza dubbio vero. Ma proprio perché comprende un lasso di tempo estremamente lungo per mostrare la totalità dei suoi effetti, impossibile da ipotizzare per un uomo abituato a vivere e pensare nella nostra società, non è di facile comprensione. Per la maggioranza delle persone sembra impossibile vedere oltre il breve periodo.

Tutte le proiezioni di disastri e di effetti collaterali, per suscitare un effetto anche minimo, dovrebbero presentare risultati allarmanti massimo in un anno di tempo. Oltre questo limite non sembrano avere minimamente presa sul pubblico. Il nostro cervello è oramai abituato a procrastinare ogni azione necessaria per migliorare le attuali condizioni. Vivendo sempre e solo nell’oggi, in un singolo giorno perenne, anche solo venti anni sembrano un tempo praticamente infinito, oltre che quasi inimmaginabile.

Ci sono, però, rischi che potrebbero verificarsi in un lasso di tempo relativamente breve, come è stato per gli incidenti nucleari sopracitati, e che quindi dovrebbero avere una maggiore presa sulla coscienza comune. Ma, anche in questo caso, il rischio non corre sulla nostra stessa percezione temporale. Infatti, mentre per il fattore dell’inquinamento il problema risiede nel quando gli effetti saranno maggiormente visibili e gravi, nel discorso di un possibile disastro nucleare non si discute tanto il quando ma il se questo avverrà mai. Nonostante venga costruita una centrale nucleare, non è detto che questa necessariamente esploda, il che colloca il problema di un disastro atomico in un tempo incerto e forse anche inesistente.

Quello che si può riscontrare in ambito globale, può essere rilevato anche nella vita del soggetto singolo e nelle azioni di tutti i giorni. Ogni uomo è figlio del suo tempo, e ogni essere umano è totalmente influenzato dalla società in cui cresce e vive. Perciò, anche i danni che noi stessi possiamo arrecare al nostro corpo possono essere facilmente sorvolati quando mostrano una lunga data di scadenza. Prendiamo, per esempio, il danno delle sigarette. Oggi che il fumo sia cancerogeno non è un segreto per nessuno, e, certamente, legato al vizio del fumo vi è tutto un corrispettivo e un fortissimo collegamento sociale, ma vi è anche una consistente campagna di sensibilizzazione.

Il fumo provoca, tra gli altri dannosi effetti, soprattutto la formazione di cancro a polmoni, pelle, lingua ecc. oltre che a rischi di ischemie, infarti e altre patologie, ma tutto questo viene tranquillamente accettato da qualunque fumatore moderno. Questo perché i danni più gravi provocati dal consumo delle sigarette non possiedono una manifestazione certa, e se compaiono lo fanno solo nel lungo periodo.

Si potrebbe controbattere che il fumo possieda anche degli effetti immediati, o perlomeno in un lasso temporale considerevolmente breve, ma per molti di quelli ci sono rimedi repentini, che sono alla portata di tutti e che sopperiscono a questo problema.

Come seconda caratteristica, invece, un rischio accettato deve essere necessariamente conosciuto, e, perciò, deve essere possibile mettere in conto la sua manifestazione a un nostro ipotetico comportamento o sistema.

L’accettazione, dopotutto, è necessariamente collegata alla conoscenza. Nel momento stesso in cui veniamo a prendere consapevolezza della pericolosità di un determinato comportamento, acquisiamo quasi una sorta di potere su quest’ultimo, spesso mal soppesando l’effettivo potenziale, e non ponderando correttamente gli effetti.

La conoscenza del rischio, però, comporta la nascita di un fasullo senso di controllo sull’effettiva presenza della scelta o meno operata dal soggetto. Conoscere gli effetti collaterali ci fornisce la possibilità di soppesarli e decidere spontaneamente di perseguire una specifica azione, o di abbandonarla quando il pericolo sia effettivamente superiore al beneficio. Questa sensazione di scelta, però, altro non è se non il risultato effimero di una mera illusione.

La terza caratteristica necessaria al rischio è legata alla sua origine, ovvero al comportamento da cui potrebbe scaturire l’effetto collaterale. Infatti, nonostante il potenziale pericolo soddisfi le caratteristiche precedenti, senza la presenza di quest’ultimo punto è piuttosto raro che sopravviva alla trasformazione che potrebbe essere messa in atto dalla società.

Un rischio, per potersi mantenere saldo e continuativo, deve essere il risultato di un’azione o di un processo estremamente radicato e stabile all’interno delle abitudini globali, oppure, essere il risultato o l’effetto di un sistema che sembra incancellabile o inalienabile dalla routine umana. Il rischio dell’inquinamento, per esempio, è collegato allo stile di vita e ai sistemi di consumo globali, e una sua scomparsa richiederebbe un lavoro e una fatica dal peso non ignorabile. Questo, ovviamente, senza contare tutti i legami con il mondo economico.

È come se gli effetti collaterali del comportamento assumessero una posizione di second’ordine rispetto all’impossibilità stessa di alterazione del suddetto. L’abitudine e l’incapacità di immaginare un sistema alternativo riescono ad acquietare le coscienze umane, che si cullano nella scusa dell’impossibilità di apportare un rimedio. La fatica che andrebbe messa in gioco diviene peggiore degli effetti collaterali a cui si rischia di andare incontro, soprattutto perché la prima andrebbe attivata in un periodo immediato.

Ci sono casi, però, in cui i pericoli derivanti da un’azione umana possono essere eliminati sospendendo o modificando l’azione in questione. Questo può accadere o per il semplice motivo che si tratti di un’operazione che non risulti essere indispensabile, o, molto più probabile, perché è possibile apportare alcune modifiche alle caratteristiche delle suddette operazioni. Un esempio potrebbe essere il cambiamento sull’utilizzo di un determinato materiale piuttosto che un altro.

Nell’accettazione di questi rischi e di questi effetti collaterali, però, il problema risiede proprio nel senso di abitudine che si sviluppa nella consapevolezza della loro presenza. La reale incidenza di queste ultime, nonostante sia oramai estremamente diffusa, non riesce a suscitare più il senso di pericolo e di attenzione che risulterebbe invece necessario. Lo stesso Beck parlava di rischi inevitabili. Questa considerazione del pericolo, e la consuetudine della presenza di minacce collegate ad azioni che, anche se globali, rispondono pur sempre a un sistema organizzativo umano, hanno fatto sì che si creasse il principio dell’inevitabilità del rischio (Beck, 2000).

In un processo che può essere ricollegato a quello teorizzato da Seligman dell’Impotenza appresa (Seligman, 1992), anche se con evidenti differenze, la demoralizzazione e l’arrendevolezza, a cui oramai siamo abituati, nell’accettare pericoli che potrebbero essere sistematicamente ridotti, è piuttosto allarmante nell’ambito dello sviluppo umano.

Alla base della presenza di questi rischi gioca proprio quel senso di ineluttabilità e lontananza che alimentano la riproduzione degli stessi, in una visione deterministica e fatale del futuro. Ma questa considerazione è esclusivamente frutto di un pensiero che vede la società come totalmente separata e slegata dal comportamento umano del singolo. Visione che incoraggia una passività e un totale senso di impotenza nell’azione umana, aumentando la riproduzione di comportamenti negativi per un illusorio pensiero racchiudibile nella frase: “è inutile fare qualcosa”. Questo pensiero, però, che risponde a una fatalistica teoria che si auto-avvera, non fa che peggiorare la già grave situazione attuale. Situazione che necessiterebbe di una svolta sociale concreta.

Federico Carlino – sociologo

Bibliografia

Beck U., La società del rischio, Carocci, Roma 2000.

Ghisleni M., W. Privitera (a cura di), Sociologie contemporanee, Milano 2009.

Privitera W., Tecnica, individuo e modernità. Cinque lezioni sulla teoria di Ulrich Beck, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.

Seligman M. E. P., Helplessness: On Depression, Development, and Death, W.H. Freeman & Company, U.S.A. 1992.

Simmel G., La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1996.


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