Lavoro, immobilità e politica: tre dimensioni in cerca di soluzione
“Vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre” (Oriana Fallaci 2004).
E’ con le parole di una grande pensatrice che voglio iniziare questo articolo. Una pensatrice che non ha mai taciuto! E non è possibile tacere, quando all’immobilismo sociale si contrappone l’assenza di uno dei fattori più rilevanti per una società: il lavoro. Con la singolarità, prettamente italiana, abbiamo una Carta Costituzionale che sancisce “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”(art. 1 cost.), e che addirittura sostiene che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”(art. 4 cost.); e ancora “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”(art.35 cost.). Eppure tutto ciò è rimasto solo ed unicamente un insieme di meravigliosi principi che non trovano applicazione. I governi si susseguono, le manovre pullulano, eppure… Eppure nulla di fatto… I giovani, soprattutto meridionali, ci troviano innanzi ad una schiera infinita di porte chiuse in faccia! Sempre più esclusi, e abbandonati dalle istituzioni, navighiamo in acque torbide, e il lavoro, che dovrebbe essere, un diritto fondamentale di ogni cittadino, diventa un motivo di ansia, preoccupazione, di timore! Un rischio, facendo riferimento a Beck! Secondo i dati, recentemente diffusi dall’AlmaLaurea sono stati 280.000 i laureati in Italia nel 2018, tra questi, 160 mila laureati di primo livello, 82 mila dei percorsi magistrali biennali e 37 mila magistrali a ciclo unico. Il calo delle immatricolazioni risulta più accentuato nelle aree meridionali (-26,0%). Ancora una volta, il meridione si ritrova ultima in classifica, perché di fatto mancano percorsi “tangenti” tra le università meridionali e le aziende ed enti presenti sul territorio! Neanche a nominare stage o tirocini retribuiti per determinate tipologie di classi di laurea(come Sociologia)! Si tratta di un dato allarmante, dal momento che da un lato, le classifiche influenzano negativamente le famiglie e i futuri iscritti, visto che per effetto di indicatori ed indici mal utilizzati, spingono molto frequentemente ad emigrare per la formazione universitaria. A tal proposito, il professore e coordinatore del corso di laurea in Sociologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, Cleto Corposanto, ha dichiarato che graduatorie di questo tipo “non misurano la qualità della didattica erogata, non misura la qualità e la bravura dei docenti che vi insegnano, non misura la qualità scientifica della ricerca, non misura lo sbocco lavorativo dopo la laurea, ma è legata sostanzialmente, in particolare quella del Censis, a un discorso di erogazione di borse di studio, che tra l’altro non dipendono neanche dalle Università, in fin dei conti, dipendono dalle Regioni”; perché di fatto si hanno poche risorse economiche da investire sugli studenti validi… A pensare che la nostra Costituzione dispone che “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”(art. 3 cost.). L’altro aspetto riguarda la scarsa possibilità di assorbimento dei laureati calabresi nel loro territorio! E’ una contraddizione in termini, sfornare centinaia e centinaia di laureati, se di fatto, i pochi pubblici concorsi disponibili sul territorio, soventemente, sono destinati ai diplomati! Per cui oltre al danno anche la beffa, di doversi sentire “sminuiti” nel partecipare a selezioni non compatibili con i proprio percorso di studi! “Un uomo è povero non già quando non ha niente, ma quando non lavora”, sosteneva
Charles-Louis de Montesquieu, perché il lavoro è tra i principali nutrimenti di una società:
- produce elementi culturali immateriali e materiali, ed è tra le attività più elevate che consente di distinguere l’uomo dagli altri animali;
- si pone come agente che modifica l’ambiente fisico e sociale, e quindi, è fonte vitale dell’evoluzione sociale;
- è uno dei principali “collanti sociali”, dal momento che media rapporti sociali, primari e secondari, dai quali si originano organizzazioni superiori come: gruppi, sindacati, movimenti, ecc.; garantendo forme di integrazione e conflitto;
- rappresenta il cardine della formazione principale dell’identità, appartenenza e coesistenza individuale e collettiva;
- svolge una funzione fondamentale nel rendere utile, gratificato e accettato l’individuo nella società.
L’elenco potrebbe continuare ancora, ma c’è un aspetto che in silenzio si muove tra i meandri delle agglomerazioni sociali. Aspetto, sospetto, o dubbio… E se fosse funzionale al sistema una massa di individui con un minore tasso di istruzione e occupazione, tale da essere più facilmente manovrabile? Bene ha detto, con la sua lungimiranza, George Orwell in “1984” “Le masse non si ribellano mai in maniera spontanea, e non si ribellano perché sono oppresse. In realtà, fino a quando non si consente loro di poter fare confronti, non acquisiscono neanche coscienza di essere oppresse”. E di fatto, un dato importante conferma questa ipotesi, dal momento che secondo una recente ricerca PIAAC (Programme for International Assessment of Adult Competencies), un programma dell’OCSE che valuta le competenze della popolazione, il 28% dei cittadini italiani presenta ‘low skills’, basse competenze. Stiamo parlando del cosiddetto analfabetismo funzionale. Cioè una forma di analfabetismo in cui non mancano gli strumenti basilari quali leggere e scrivere, bensì caratterizzata da una significativa riduzione delle capacità di comprensione di ciò che si legge, ciò che si ascolta, ecc. Secondo questa ricerca il 60% si concentra tra Sud e Nord Ovest del Paese. Di seguito è riportata nel dettaglio la tabella che analizza l’analfabetismo funzionale.
E’ forse vero, allora, che “Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenza. A loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto”(Orwell 1948). Si tratta di uno scenario preoccupante, del quale se ne parla troppo poco. E’ molto più semplice ricorrere alla tecnica del capro espiatorio: gli immigrati, i battibecchi sui social tra i politici, la loro vita privata, e tanto altro. Potremmo parlare della tecnica politica e dell’informazione di massa, “della sabbia negli occhi”: si fomenta la paura, si disorienta lo sguardo, piuttosto che affrontare le reali criticità del nostro paese. Perché il potere segue i gruppi più forti, così come le leggi, per dirla in termini durkheimiani, portano impresse dentro di sé l’impronta del gruppo che le hanno proposte! “Se il benessere e la sicurezza fossero divenuti un bene comune, la massima parte delle persone che di norma sono come immobilizzate dalla povertà si sarebbero alfabetizzate, apprendendo così a pensare autonomamente; e una volta che questo fosse successo, avrebbero compreso prima o poi che la minoranza privilegiata non aveva alcuna funzione e l’avrebbero spazzata via”(ibidem). Nell’epoca in cui sono tramontate le grandi narrazioni, le ideologie politiche, tutto appare intrappolato da una coltre narcotica, che stenta a ricercare, o forse, ad assumere un antidoto valido per spezzare questo circolo vizioso. Istruzione, lavoro e protesta, fino a qualche tempo fa, erano gli elementi costitutivi di un’equazione quasi perfetta, visto che la “(…)protesta era ed è dovuta in sostanza al fatto che il modello dominante dell’organizzazione del lavoro viola una molteplicità di bisogni, sia contingenti sia essenziali, dell’individuo che lavora in un’azienda” (Gallino 2014). A tal proposito, seguendo i principi della Sociologia del lavoro, vediamo come oggi vengono a mancare tutte le variabili intervenienti, che teoricamente dovrebbero garantire il lavoro e le sua vantaggiosa essenza in termini quali-quantitativi:
- la tecnologia insita nel prodotto e/o utilizzata per la realizzazione dello stesso: se da un lato rappresenta un significativo vantaggio in termini quantità/prezzo qualità/prezzo, sta sicuramente portando ad una significativa riduzione del numero di personale assunto in diversi settori(il che potrebbe iniziare a favorire una forma di “nonluoghizzazione”, ricordando Augé, dei luoghi di lavoro);
- l’organizzazione cioè l’intera struttura, l’impianto temporale e le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Anche in questo caso, l’avvento di nuovi contratti di lavoro, sta favorendo una certa discontinuità nell’espletamento del lavoro; orari di lavoro ridotti, o distribuiti in lotti temporali sporadici… Dovremmo chiederci quanto sia vantaggioso tutto ciò per i lavoratori e gli utenti;
- il mercato del lavoro ovvero l’insieme delle variabili che sono fondanti per il settore produttivo che connotano le forze di lavoro che possono essere impiegate: età, sesso, scolarità, qualificazione ecc. Si tratta di una macrovariabile molto rilevante, e come ricorda la nota trimestrale ISTAT sul mercato del lavoro diffusa il 13 giugno 2019, si caratterizza per un lieve miglioramento, +0,1%, più che lieve potremmo dire, senza troppi giri di parole, minimale! Nella nota trimestrale viene precisato come la “crescita dell’occupazione soprattutto nel Nord e nel Centro (+1,4% e +0,3%, rispettivamente) si contrappone, per il secondo trimestre consecutivo, il calo nel Mezzogiorno (-0,6%)”;
- i sindacati che dovrebbero migliorare la qualità del lavoro sebbene siano costantemente oggetto di diversi attacchi e critiche sotto diversi punti di vista;
- la struttura del sistema politico, dimensione in cui si intrecciano potere, politica ed economia. Luciano Gallino a tal proposito sostiene che “Pochissimi tra i sistemi esistenti, capitalistici o socialisti, hanno finora favorito o permesso l’incremento della qualità del lavoro al disopra di gradi limitati di autonomia e controllo”(2014). Basti pensare gli ultimi governi quanto abbiano parlato di incremento dell’occupazione giovanile, ma di fatto se c’è stata, è passata quasi del tutto inosservata;
- il valore del lavoro, aspetto che da sempre, e oggi più che mai, sottovalutato e quindi sottopagato, infatti portando a “(…)l’atteggiamento di scarso attaccamento al lavoro che da ciò deriva sia stato giustificato con l’umiliante qualità del lavoro che propongono le aziende, esso contribuisce in realtà a mantenere quest’ultima ai livelli più bassi, sottraendo ai tentativi per migliorarla le risorse psicologiche, tecniche ed economiche a ciò necessarie”(ibidem).
Rispetto all’ultimo punto, Gallino in un’intervista del 2008, ricorda come “Concepire il lavoro come una merce significa concepirlo come una attività separata dalla persona come avviene con qualunque oggetto.(..) la forza lavoro viene concepita come una qualsiasi altro oggetto. (…)Questa concezione che potremmo chiamare del “tutto mercato” ha avuto la meglio sia nelle imprese che nella politica di molti governi, così come nell’ambito delle teorie economiche. Si tratta di una idea che sta producendo disastri in molti ambiti della vita sociale”. In merito al rapporto istruzione lavoro sottolinea un elemento essenziale “Esiste un ritardo strutturale del nostro Paese che non si recupera certo con leggi che spesso hanno un orizzonte limitato ad uno-due anni. (…)Le imprese italiane devono assumersi le loro responsabilità e non scaricare le colpe sul mondo della scuola”.
A questo punto cosa potremmo fare? Forse dovremmo cercare di uscire dal torpore che ci sta relegando in una condizione di stallo, di corsa immobile… Dovremmo darci una mossa, dovremmo forse andare contro il “Big brother” che tutto controlla, cercando di tenere in mente che “esistono solo quattro modi perché un gruppo dirigente perda il potere: che sia sconfitto dall’esterno, che governi in maniera tanto inefficiente da spingere le masse alla rivolta, che consenta la formazione di un gruppo di Medi forte e animato dallo scontento, che perda la fiducia in se stesso e la voglia di governare”(Orwell 1948).
Davide Costa dottore in Sociologia
Bibliografia
Fallaci O.(2004) “La rabbia e l’orgoglio”, Rizzoli, Segrate;
Gallino L.(2009) “Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità”, 6° edizione, Laterza editore, Roma-Bari;
Gallino L.(2014) “Dizionario di Sociologia”, De Agostini Libri S.p.A, Novara;
Orwell G.(1928) “1984”, Oscar Mondadori, Segrate, trad.it Stefano Manferlotti (2016).