L’ASCESA DELL’ORIENTE E LE GRANDI NARRAZIONI

 

SONIA ANGELISI 9 agosto 2015Così come in passato, oggi si sta assistendo ad un altro spostamento del baricentro economico e commerciale. L’ascesa dell’Oriente e, in particolare, della Cina, spinge gli studiosi ad approfondire le dinamiche di questo fenomeno, ripercorrendo le tappe storiche ed economiche  di territori spesso considerati  in un ruolo marginale rispetto alla storia del mondo. Le prime riflessioni partono dalle origini della rivoluzione industriale. Le narrazioni della rivoluzione industriale, spesso si riferiscono alla sola Europa nord occidentale, evidenziando il radicato eurocentrismo della storiografia. Allo scopo di analizzare a 360° quella che viene considerata una svolta della storia, è necessario adottare una dimensione temporale di lungo periodo e una dimensione spaziale planetaria. Nel dibattito scientifico degli anni’80 e ’90, è stata messa in discussione la nozione stessa di rivoluzione industriale, considerata come fenomeno di mutamento rapido e radicale. Sulla base di analisi macroeconomiche e metodi quantitativi, alcuni studiosi hanno sostenuto che fino al 1830 la crescita della Gran Bretagna è stata più lenta di quanto si pensasse, tanto che si pensò di definirla come evoluzione anziché rivoluzione a dispetto di quelle interpretazioni “revisioniste” che, pur riconoscendo il lento sviluppo di quella fase, non ne negarono l’unicità. Tuttavia, la ricontestualizzazione del fenomeno ha avuto implicazioni importanti sull’evento opposto alla relativa immobilità dell’economia preindustriale. La rivoluzione industriale viene comparata con altri episodi di crescita economica precedenti o contemporanei, mentre i processi di globalizzazione sollecitano allo studio di altre aree del pianeta, come ad esempio l’Asia, messe a confronto col vecchio continente. Tale processo ha ridotto quella che Braudel chiama “diseguaglianza storiografica tra l’Europa e il resto del mondo” in modo da “recidere il nodo gordiano della storia del mondo, ossia la genesi della superiorità europea” visto che “avendo inventato il mestiere di storico, l’Europa se n’è avvalsa a proprio vantaggio”. Dunque, la straordinaria innovazione metodologica sta nell’ampliamento spaziotemporale del campo d’indagine e nell’elaborazione di categorie comparative, capaci di confrontare the West and the Rest non per differenze rispetto al modello di sviluppo occidentale, ma secondo una comparazione reciproca. È quello che hanno fatto gli studiosi “revisionisti” della Californian School con Wong e Pomeranz, i quali hanno riscontrato “sorprendenti similitudini” tra reddito pro-capite e produzione europea e asiatica (più precisamente tra Inghilterra e il delta del fiume Yangzi in Cina ossia l’odierna Shangai) fino alla metà del ‘700.

Al fine di comparare fasi significative di crescita economica susseguitesi nel tempo e in luoghi differenti, sono stati elaborati concetti nuovi come rivoluzione industriosa (1) ed efflorescenza ( 2). La rivoluzione industriosa è spesso associata al modello di sviluppo del Giappone e dell’Asia orientale, modello  che successivamente si è fuso con quello occidentale, generando la recente e attuale forte crescita economica di quelle aree. Il Giappone, a metà del 1800, è considerato emblema della rivoluzione industriosa, per la sua produzione su piccola scala realizzata  con un’alta intensità di manodopera (labour intensive), visto che il Giappone era povero di risorse.In sintesi, in tutta la storia mondiale si sono scoperti periodi di espansione dei commerci, divisione del lavoro, specializzazione, urbanizzazioni, innovazioni tecnologiche e crescita del Pil. Resta da chiedersi, allora, perché, nonostante queste rivoluzioni in più parti del globo, solo in Inghilterra o, se vogliamo, in Europa,  la rivoluzione industriale fu seguita da un inedito sviluppo mentre in altre parti del mondo ciò non avviene. Pomeranz risponde a questo interrogativo facendo riferimento a due fattori: 1) L’ampia disponibilità del carbone fossile (3), che permise all’Inghilterra di imboccare lo sviluppo energetico in grado di contrastare le trappole malthusiane; 2) La colonizzazione del Nuovo Mondo, da cui si estraevano e importavano risorse, indebolendo i tradizionali traffici con l’oriente.

In sostanza, fu il conservatorismo cinese, le scelte meno dinamiche delle autorità statali ispirate a logiche di introversione (4), volte a tutelare le popolazioni rurali, confini e produzioni, a permettere all’Europa di diventare egemone, dominio favorito dalla politica aggressiva ed espansionista e dall’economia innovativa, soprattutto dal punto di vista tecnologico. È proprio la tecnologia, infatti, a rendere particolare il ruolo dell’industrializzazione inglese ed europea: uno sciame di innovazioni di eccezionale qualità e quantità concentrate in un breve periodo storico, confermando la rivoluzione industriale come cesura storica fondamentale della storia dell’umanità. In conclusione, il puzzle della rivoluzione industriale è ancora lontano dal ricomporsi perfettamente; come afferma Tommaso Detti: “oggi come in passato, nessuna interpretazione sembra in grado tenere assieme, se non in parte, la lunga e variegata serie di fattori che concorsero a darle luogo: un po’ come se di una ricetta si conoscessero tutti (o quasi tutti) gli ingredienti, ma non le dosi di ciascuno di essi”. Le tesi sull’origine della globalizzazione e delle economie-mondo, nonché le teorie sulla rivoluzione industriale, conducono ad una riflessione sullo studio del sapere. L’adozione di metodologie specifiche, di campi di indagine selezionati, di studi olistici o microanalisi, apre una dibattito sulle rappresentazioni della conoscenza e dei processi di funzionamento del sistema. La distinzione tra un mondo reale di fatti storici concreti e di un mondo di idee, il quale può essere inteso come rappresentazione, pone quesiti interessanti sulla prospettiva del sapere.

La conoscenza non deve avere necessariamente una funzione di rispecchiamento o di rappresentazione della realtà; tutti i saperi sociali nascono, essenzialmente, in risposta a bisogni organizzativi. Giorgio Gargani afferma che il sapere è “la strutturazione metodica del caso”, cioè casualmente si trovano delle risposte che funzionano e gli vengono attribuiti dei fondamenti per ragioni di sicurezza e di stabilità. Mentre gli studiosi lavorano a livelli di astrazione della realtà di solito bassi, ad un alto livello di astrazione le Grandi Narrazioni sono molto importanti, perché basate sul lungo periodo e su una scala abbastanza ampia. La storia, infatti, è stato il principale strumento attraverso cui l’Occidente ha imposto la sua Grande Narrazione. Ciò è stato reso possibile anche da un metodo comparativo fondato sul distanziamento spazio-temporale, che altro non è che la negazione della coevità e della contemporaneità: gli altri vengono collocati in un altro tempo e in un altro spazio e ciò permette di operare delle gradazioni dello sviluppo. Il senso complessivo è quello di separare tutto in modo che le frazioni vengano schematizzate metodologicamente e storiograficamente. È un po’ la storia delle teorie della modernizzazione: la fede nello sviluppo come naturale prosieguo delle teorie illuministe sul progresso. La teoria della modernizzazione nasce negli anni ’50, quando gli Stati Uniti, col timore che l’Urss li raggiungessero in termini di competitività economica, si inventarono una storia da offrire ai popoli del sud del mondo. Nel loro insieme, le teorie della modernizzazione fornirono un modello di sviluppo graduale e non-rivoluzionario, fondato sulla fiducia nel progresso e nella razionalità, che prometteva a tutti una possibilità di successo nel conseguire l’obiettivo della crescita economica e della formazione di istituzioni politiche e culturali moderne, ma a partire da una equazione eurocentrica, secondo cui il percorso verso la modernità consisteva nel “processo di cambiamento verso quei tipi di sistemi sociali, economici e politici che si sono sviluppati in Europa occidentale e nell’America del Nord dal XVII al XIX secolo e si sono poi diffusi ad altri paesi europei e, nel XIX e XX secolo, al continente sudamericano, a quello asiatico e a quello africano” (Eisenstadt, 1966, p. 1).

Proprio nel 1950 Walt Whitman Rostow, fondatore della modernizzazione, parla di take off e scrive il “Non – Communist Manifesto” per spiegare le ragioni della superiorità occidentale e consigliare al sud del mondo quali metodi e strategie adottare per svilupparsi. Alcuni anni più tardi, Huntington si rese conto che tale progetto, però, creava troppe aspettative in termini di diritti, stili di vita,ecc… Per questa ragione, gli Stati Uniti e le loro istituzioni democratiche smisero di essere un modello da imitare e verso il quale tendere nel processo di modernizzazione politica, in modo che l’obiettivo a cui tendere non fosse più la democratizzazione degli stati, quanto l’ordine. Washington non era più un modello da imitare, poiché “forse solo le società moderne con culture politiche moderne … possono realmente candidarsi alla democratizzazione” (Ward, 1963, p. 596), ma Mosca e Pechino sono esempi virtuosi di ordine politico necessario per gettare le basi di uno sviluppo tanto desiderato e realizzabile nel lungo periodo. Tuttavia, non è solo la democrazia a generare aspettative, ma anche la crescita economica; pertanto, alla dittatura si aggiunse anche la stagnazione economica come passaggio doloroso ma obbligatorio per raggiungere il paradiso politico-economico statunitense: lo sviluppo. In pratica, con questo passaggio quelle che erano le teorie della modernizzazione proposte da Rostow, vengono annullate in favore di un nuovo progetto politico mondiale. Comunque sia, le critiche alla modernizzazione non si fecero attendere. Negli anni ’60 un gruppo di studiosi latino-americani che si proponevano neo-marxisti, attaccarono la grande narrazione modernizzatrice sul fattore spaziale, ossia sul fatto che le teorie della modernizzazione si basassero sullo stato-nazione. Questa unità di analisi aveva portato alla narrazione di singole storie di stati-nazionali, non considerando le influenze del mercato mondiale e del sistema interstatale e occultando quello “scambio ineguale” che riproduceva le condizioni di sottosviluppo allargava la forbice fra cento e periferia del mondo (5). Con una visione mondiale e un’articolazione spaziale nell’analisi dei  processi, il sottosviluppo non poteva più essere visto come un problema interno ai cosiddetti paesi sottosviluppati, ma doveva rappresentarsi come condizione continuamente riprodotta dallo sviluppo del sistema capitalistico, il quale produceva, come dice Andre Gunder Frank, uno “sviluppo del sottosviluppo”. Tale approccio, consente di superare quelle premesse eurocentriche basate sul distanziamento spazio-temporale.

La globalizzazione che si configura, a sua volta, come un progetto politico di riorganizzazione planetaria, ma in termini meno universalistici rispetto al concetto di sviluppo, riproduce quella riduzione dei diritti e della democrazia, funzionale al sistema capitalistico, attraverso la negazione dell’autonomia. Inoltre, come nella prospettiva modernizzatrice, nella globalizzazione il problema della povertà dei paesi in via di sviluppo è attribuita ad un problema tutto interno (isolamento dalle forze della modernità, insufficiente adozione di politiche in grado di renderli partecipi dei benefici dell’economia mondiale). Globalizzazione come riesumazione del concetto di modernizzazione, quindi, che se vogliamo affonda le sue radici nel vecchio imperialismo, come sostiene Bourdieu.

In conclusione, la grande narrazione modernizzatrice, neutralizza i colpi inferti all’eurocentrismo naturalizzandoli come effetti inevitabili e meccanici della trasformazione della stessa modernità. La strategia metodologica della globalizzazione è stata fondata sul passaggio del concetto di globalizzazione da explanandum (la globalizzazione è esito dello sviluppo di alcuni processi storici) ad explanas (la globalizzazione spiega il mutare del mondo), un’inversione logica che è servita a legittimare strategie politiche e a riaffermare il sentimento di “distinzione” dell’occidente rispetto al resto del mondo. È in quest’ ottica ce la modernità diventa riflessiva o radicalizzata, nel senso che non si contrappone concettualmente al “tradizionale” relegando l’Altro nello spazio di differenza, ma reinterpreta la tradizione fornendo una nuova rappresentazione dell’Altro. È così che ogni confronto viene generalizzato, tutto è intrecciato e integrato tanto da non consentire l’attribuzione della paternità delle cose, l’originalità. La nuova colonna portante del concetto di modernità è proprio il fatto che non viene abbracciata la novità in sé e per sé, ma si assiste ad una continua riflessività globale che offusca le radici di ogni cosa. In questo stato confusionale, si tenta di assolvere l’occidente dalle sue responsabilità storiche e ciò che rimane degli errori del passato, viene considerato come, ancora una volta, incapacità delle società di raggiungere la modernità riflessiva, introducendo così una gerarchizzazione della modernità stessa. Elementi negativi come insicurezza, rischio ed incertezza sono nuovamente passaggi ineluttabili per il dispiegarsi necessario della modernità. La società del rischio viene falsamente rappresentato come il nostro maturare verso il miglioramento costante. Rischio come opportunità, rischio come libertà di scegliere. Processi di democratizzazione e surplus di libertà che impongono gli individui di mettere sé stessi alla prova: essere in grado di fare piani a breve scadenza, di adattarsi alle circostanze, di organizzarsi improvvisamente, di riconoscere gli ostacoli, superarli e neutralizzarli. Flessibilità e libertà sono diventate le parole d’ordine dei nostri tempi, termini che assoggettano l’individuo alle logiche capitalistiche, imprigionandoli in una realtà che non gli appartiene.

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente come sia fortemente riduttivo considerare la globalizzazione come la semplice espansione dei mercati o la replica di processi locali su scala globale. L’approccio olistico all’analisi storica e sociale deve essere funzionale alla riscoperta delle origini reali di quel dominio che ha dirottato i percorsi di sviluppo verso un’uniformità deformante. Guardare alle teorie della modernizzazione e ai processi di globalizzazione come a progetti intenzionalmente elaborati e concretizzati dalla storica collaborazione delle èlite governative con i potenti dell’economia, sembra essere l’interpretazione più plausibile. È necessario, per il bene della nostra terra e delle generazioni future, prendere consapevolezza dell’insostenibilità sociale e ambientale di questo modello di sviluppo, il quale impoverisce i poveri e arricchisce i potenti, sfrutta e saccheggia le risorse del pianeta e produce fame e sofferenza, rapina i paesi delle proprie tradizioni e neutralizza le certezze. Il tentativo di replicare il modello di sviluppo standard ha garantito il predominio occidentale negli ultimi due secoli. Il riequilibrio dei rapporti di forza fra centro e periferia de sistema, riconoscendo l’importanza della cooperazione fra stati, è quanto mai necessario per ricostituire l’interdipendenza dei paesi e il rispetto delle loro differenze. Partire dai saperi, riscrivendo la Storia contro le grandi narrazioni che hanno manipolato le società nel corso del tempo, potrebbe essere il primo passo verso il riconoscimento della nostra identità.

 

Sonia Angelisi   – sociologa ANS Calabria

[1] Locuzione riproposta da Jan De Vries per definire le nuove forme di produzione  familiare, di preparazione alla rivoluzione industriale, che estesero il mercato dei beni, del lavoro e dei capitali nell’Europa nord occidentale e nell’America coloniale.

2 Definita da Jack Goldstone come episodi di crescita ricorrenti nel corso della storia mondiale.

3 Altri studiosi, come Philip Huang, sostengono che questo non si possa considerare un fattore di arretratezza, poiché il carbone non era richiesto in Cina e, comunque, era abbondantemente presente nel Nord della Cina e sarebbe stato facile farlo arrivare nel delta grazie allo sviluppo dei rapporti fluviali.

4 Stato poco interventista, la cui spesa pubblica è pari ad un 1/3 di quella inglese; privo di marina militare e alieno all’espansione coloniale.

5 La formazione della periferia sottosviluppata è la necessaria conseguenza del funzionamento del sistema capitalistico mondiale per cui il centro, integrando la periferia nel proprio sistema di scambi, si appropria della ricchezza ivi prodotta, che utilizza per superare le proprie contraddizioni e per consolidare la propria posizione dominante. In pratica, si assisteva ad un deterioramento di lungo termine dei rapporti di scambio a sfavore dei paesi esportatori di materie prime a vantaggio dei paesi industrializzati come conseguenza dell’applicazione dei principi del libero scambio internazionale.

 


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