L’AMBIGUITA’ DEI SOCIAL

SONIA ANGELISI 2Sull’effettiva utilità della rete nei rapporti sociali, si sono spese pagine e pagine di dissertazioni sociologiche. Dopo un’iniziale diffidenza nei confronti dei social, considerati come un ulteriore strumento mistificatore della realtà de dei rapporti tra gli individui, si sta facendo sempre più spazio una rivalutazione in positivo delle piattaforme multimediali di socializzazione.

Prima di raccontare l’evoluzione in bit della comunicazione, è opportuno chiarire cos’è la comunicazione e che funzione ha assunto con l’avvento delle nuove tecnologie. La comunicazione è definita come quella particolare forma di interazione sociale che consiste nella produzione collettiva di significati, condivisi o antagonistici, attraverso l’uso di un codice. Essa può presentare gradi più o meno elevati di formalizzazione, intenzionalità e consapevolezza (1). Tuttavia, la comunicazione non si può considerare un mero processo cooperativo non conflittuale di produzione di senso poiché spesso i significati prodotti nella vita quotidiana non sono condivisi, ma antagonistici. L’intersecazione delle innovazioni tecnologiche cono la comunicazione ha mutato il modo stesso di comunicare. La comunicazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa comunemente chiamati mass media, ha originato nuove forme di interazione sociale, mutando i modi di pensare della soggettività stessa. I media, infatti, rappresentano un elemento di radicale rottura e innovazioni rispetto al passato tanto da rientra in un filone di studi denominato cultural studies atto ad analizzare sia la produzione e la fruizione dei mass media, sia il rapporto tra comunicazione e cultura (Tota, 2007)

Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) ha il merito di interpretare in modo innovativo gli effetti della comunicazione sulla società e sui singoli attori sociali. In sintesi egli sostiene che il mezzo tecnologico determina i caratteri strutturali della comunicazione e produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo indipendentemente dai contenuti dell’informazione. Dunque, la tesi del sociologo canadese è che il medium è il messaggio (Medium is message), e questo è il perno principale su cui ruota il suo pensiero sociologico in tema di comunicazione: ogni medium deve essere studiato in base ai criteri strutturali, cioè tenendo conto delle modalità in base ai quali il mezzo organizza la comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende non neutrale. Lo stesso messaggio che viene comunicato da medium differenti suscita negli utenti-spettatori comportamenti e modi di pensare differenti, conducendo alla formazione di una certa forma mentis. Ogni media, inoltre, può assolvere a funzioni diverse; la televisione, ad esempio, è definito dal sociologo come un mezzo di comunicazione dalla funzione rassicurante. La televisione, infatti, non porta novità, né stravolgimenti nelle case delle persone. Essa si limita semplicemente ad “incantare”, a confermare la vita che scorre, inchiodando gli spettatori in una stasi fisica, cioè passare del tempo seduti a guardarla, e mentale, in quanto favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, ma statica al contrario di altri mezzi comunicazione interattivi, che richiedono la partecipazione attiva dell’utente, come internet.

Baudrillard nella sua opera La società dei consumi (il Mulino, Bologna, 1976) condivide a tesi di McLuhan, specificando che con questa locuzione, medium is message, il sociologo canadese intende che il vero messaggio trasmesso dai media (TV e radio), quello cioè effettivamente “consumato” e recepito dai consumatori, non è la facciata multimediale , ma “lo schema costrittivo (…) di disarticolazione del reale in segni successivi ed equivalenti” (Baudrillard, 1976, p. 137). Il sociologo francese sostiene che ogni messaggio dei media ha solo la funzione di rinviare ad un altro messaggio, per cui la comunicazione di massa invia un messaggio imperativo alla società che è quello di consumare il messaggio, misconoscere il mondo e dare sempre più valore all’informazione. Dunque, le funzioni veicolate dalle tecnologie delle comunicazioni sono due: funzione di condizionamento e funzione di misconoscimento. Queste due funzioni sono da imputarsi all’essenza tecnica di ogni media, persino del libro (la literacy di McLuhan ). Veniamo condizionati e, consciamente o inconsciamente, non vediamo/riconosciamo più il mondo in cui viviamo se non secondo le lenti che ci vengono offerte dai media. Il messaggio reale inviato è quello che provoca un mutamento strutturale persino nel nostro habitus, fino a modificare le relazioni umane.

Con l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione e del World Wide Web, si  modifica ulteriormente la comunicazione e assiste alla creazione di quella che Debord chiama “LA società dello spettacolo”. Debord, presentandoci la società dello spettacolo, ripensa le teorie marxiste adattandola all’evoluzione che si è operata nel corso degli ani nell’accumulazione delle merci. Infatti, mentre Marx ne Il Capitale affermava che “tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci”, Debord nella sua opera magna La società dello spettacolo, ricalca l’incipit de Il Capitale di Marx: “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. (Debord, 2004)Con questa asserzione Debord vuole significare che l’accumulazione del capitale e l’espansione delle tecnologie della comunicazione hanno permesso di spingere il “feticismo delle merci” ad un grado prima impensabile. Il concetto centrale della critica di Debord è lo spettacolo, il quale va inteso come il tipo di relazioni interpersonali costruite dalle immagini di una società spettacolarizzata, tant’è che egli afferma: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini” (Debord, 2004).

Da sottolineare che lo spettacolo per il filosofo francese rappresenta solo una parte della società configurandosi come quello strumento attraverso cui questa parte domina il tutto. Questa contraddizione rende evidentemente questo strumento falso ed ingannevole, poichè struttura le immagini secondo gli interessi solo di una parte della società.  Il settore in  questione che domina il resto della società non è altro che l’economia. Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. Anche Baudrillard fa riferimento al tema della spettacolarizzazione nella sua opera La società dei consumi (1976) affermando che:“Si potrebbe proporre quindi che l’era del consumo, essendo lo sbocco storico di tutto il processo di produttività accelerata sotto il segno del capitale, sia anche l’era dell’alienazione radicale. La logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi regola no solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. Tutto è ripreso da questa logica, non solamente nel senso in cui tutte le funzioni, tutti i bisogni sono oggettivati manipolati in termini di profitto, ma nel senso più profondo in cui tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili.” (Baudrillard, 1976, p. 234)

Constatando una frammentazione della società vista il dominio di una parte di essa, lo spettacolo è funzionale ad una ricomposizione dell’unità perduta nella realtà sul piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita degli individui. Per Debord, la società dello spettacolo mostra come unito ciò che in realtà è diviso e come diviso ciò che in realtà è unito. È in questo modo che si realizza una nuova alienazione. Mentre nel capitalismo classico, descritto da Marx, l’alienazione è il risultato del passaggio dall’essere all’avere, nel capitalismo spettacolare essa deriva dal passaggio dall’avere all’apparire. Mentre le teorie del consumo produttivo si saldavano sempre più con le ideologie che ruotavano intorno al mito di Internet, diversi autori si sono, dunque, impegnati nello smentire la democraticità e l’utilità effettiva del World Wide Web. L’interattività che sembra caratterizzare il rapporto degli individui con Internet è, in realtà, fittizio e lo si può spiegare col semplice fatto che Internet è uno spazio sociale caratterizzato da una notevole dispersione: internet non è una rete, ma un insieme senza dimensione di reti, che raccoglie le informazioni del mondo intero. Internet non è altro che la trasposizione multimediale del mero capitalismo, in cui flussi di capitali, di merci, di informazioni e di persone circolano continuamente (Castells, 2002).

“In questo tendere alla totalità e all’infinito sta il limite di Internet, la sua frustrante e deludente scommessa.(..) Internet si avvia ad essere già oggi, agli albori del suo sviluppo, malinconicamente indirizzato verso un futuro da televisione iper-generalista o iperspecializzata, interattiva finchè si vuole, ma inesorabilmente commerciale. C’è qualcosa di male nel commercio, qualcosa che disturba? No, assolutamente. In un mondo che produce si deve pur consumare. Ma che c’entra il commercio con la rivoluzione? Non ci sarà mai nessuna rivoluzione del pensiero, come qualcuno vorrebbe farci credere” (Landi, 2007, pp. 35-49) È per questa ragione che più autori esprimono il loro dissenso quando Internet si erge a baluardo di una nuova democrazia. La libertà e la trasparenza assolute sono chimere  funzionali a chi intende sviluppare la dimensione economica della Rete e a chi intende controllare la mole di informazioni che passano attraverso il pc. Lo stesso Google, un semplice motore di ricerca, rappresenta uno strumento antidemocratico, quasi dittatoriale nella selezione delle informazioni. “Il modello di Google è un modello che appare essere regolato da una specie di dittatura della mediocrità. Ovvero dal volere della massa, che si impone con la forza della sua quantità, grazie agli algoritmi di motori di ricerca come quello di Google, i quali premiano i siti più frequentati e dunque più popolari. Con il risultato finale che la massa di ignoranti può avere la meglio sulle persone realmente competenti e che in generale tutti quanti ci perdono sul piano sia dell’autorevolezza che della visibilità” (Lanier, 2010)

A tal proposito, la studiosa statunitense Jodi Dean sostiene che le moderne tecnologie della comunicazione sono profondamente depoliticizzanti e che la comunicazione funziona in modo feticistico, nel senso che il feticcio tecnologico diventa un sostituto dell’impegno politico con la falsa illusione di essere cittadini super informati e, di conseguenza, partecipi. Questo comporta un apatia nei confronti di un reale impegno politico ai fini di un ordine democratico, tanto che Bauman utilizza una metafora per spiegare questo processo dicendo che: “Il continuo flusso di informazione a cui siamo sottoposti non è un affluente del fiume della democrazia, ma un vortice che cattura contenuti rigurgitandoli in laghi artificiali maestosi e giganteschi, ma stagnanti e stantii. Più è grande questo flusso, maggiore è il rischio che il fiume della democrazia si inaridisca. I canali mondiali dell’informazione nutrono la moderna cultura liquida sostituendo l’imparare con il dimenticare. Fagocitando tutti  i segni di dissenso e protesta permettendo alla moderna cultura liquida di procedere senza rischi e senza scosse producendo immagini invece di discussioni e pensieri reali” (Bauman, 2007)

Tuttavia, di recente, la teoria critica alla comunicazione 2.0 si è affievolita per mettere in risalto gli aspetti positivi che la rete è in grado di donarci. Il sociologo Guido Martinotti, infatti ribadisce come parlare di comunità virtuali sia errato poiché siamo sempre e comunque di fronte a relazioni tra individui e, quindi, a comunità biologiche. Inoltre, non è vero che la rete diminuisce la socialità, ma, anzi, la aumenta; d’altronde, se è vero che la rete crea relazioni di un tipo nuovo, senza “contenuto biotico”, essa si diffonde, però, solo là dove già esiste una solida struttura sociale. I social, dunque, non vano demonizzati né santificati. Sono un strumento che presenta infiniti usi e che può prestarsi a infinite utilità; senz’altro debordanti di informazioni non sempre veritiere, un marasma, un blob di dati che non significa una maggiore circolazione di conoscenza. Tuttavia, la rete amplifica le reti, quelle tra esseri umani sempre più isolati e vittime dell’individualismo postmoderno. IL web allora si configura come un’àncora di salvezza per non perdere il contatto con la nostra socialità, pur nascondendoci dietro molteplici identità virtuali.

Sonia Angelisi    – Sociologa ANS

[1] Tota Anna Lisa, Comunicazione e società, in Studiare la società. Questioni, concetti, teorie. Carocci Editore, 2007, Roma, p. 283.


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