La verità dei giudici. Riflessioni sociologiche

Nuova foto Marco Lilli

Il presente elaborato prende spunto dal dibattito su: “Aldo Moro, trent’anni dopo”. Organizzato da Università degli Studi della Sicilia Centrale Kore di Enna e Università degli Studi di Palermo. Incontro registrato da Radio Radicale, martedì 13 maggio 2008, a Enna [1].

L’estratto del discorso qui di seguito proposto – che, osservo, lo indico come ricordo del giudice Severino Santiapichi (1926-2016), senza nulla togliere agli altri relatori intervenuti – ha, dal mio punto di vista, un immenso valore non soltanto giuridico, ma soprattutto sociale. Vale a dire non soltanto una testimonianza rivolata ai futuri giuristi, ma all’intera collettività.

Una testimonianza, dunque, quella lasciataci dall’illustre giurista (Santiapichi), rivolta alle future generazioni, e, mi permetto ancora di osservare, una Lectio Magistralis che adeguatamente compresa porta a dedurre ciò che i sociologi del diritto da sempre affermano, cioè che le questioni giuridiche non appartengono soltanto al giurista – puro, così come lo indicava Max Weber (1864-1920) – e al legislatore, che spesso giurista non lo è affatto, ma a tutta la società civile.

Anche se è fin troppo evidente come tali questioni interessino più da vicino, in particolare, il giudice, istituzionalmente investito a decidere proprio sulla sorte del singolo attore sociale, laddove questi è imputato oppure chiamato a rispondere dinanzi una qualsiasi giurisdizione.

Dalle parole di Santiapichi si comprende molto bene che il principio dell’accertamento della verità processuale è un qualcosa che non necessariamente, anzi, aggiungo, quasi mai, coincide con la verità storica dei fatti. Lo dice egli stesso in uno dei suoi passaggi che accenno appena: «Il giudice non è portatore di verità» (cfr. Registrazione in premessa).

Di fatto, il giudice per giungere ad una decisione, qualunque essa sia, deve muoversi unicamente entro i confini delle regole dettate dal codice procedurale di rito. Dunque anche quando dovesse mai sospettare una verità diversa da quella che emerge all’interno del processo, con le regole del processo, èrgo nel contradditorio tra le parti, egli dovrà orientare il proprio dispositivo tenendo conto solo e soltanto a quanto emerso dal e nel processo. Nulla in più.

Altrimenti detto, scrive più compiutamente Ferdinando Imposimato: «Di fronte al delitto, l’obiettivo fondamentale del giudice e prima ancora dell’inquirente è, o dovrebbe essere, quello di fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. L’aspetto drammatico del processo è nel fatto che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale, anche quando intuisce che essa contrasta con la verità reale, che non affiora nel processo, ma viene percepita intuitivamente e logicamente dal giudice […]. Nel primo caso il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nel confronti della quale manchino le prove, o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione […]. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione della innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie, ispezioni, corpi del reato – depongono contro l’imputato. In questo caso la conseguenza è drammatica per la persona accusata». Infatti, prosegue il magistrato: «la condanna è “giusta” sul piano processuale perché conforme alle prove raccolte, ma ingiusta su quello sostanziale» (cfr. Imposimato, 2009, pp. 6-7).

Tra l’altro, riassumendo le osservazioni di Severino Santiapichi: «Guardate i vari processi al terrorismo dal punto di vista del rapporto tra diritto e società, non vi fermate a leggere i libri di diritto soltanto […]. Voi che vi avviate a diventare giuristi dovete riflettere […]. Come giudici non facciamo storia, come giudici accertiamo i fatti secondo le strade che ci ha insegnato la procedura e abbiamo percorsi obbligati, il che non è dello storico. Allora non confondete gli aspetti storici di una vicenda dagli aspetti giurisdizionali […]. Stateci attenti, rispettate le regole, rispettatele perché sono le regole la garanzia della democrazia, non c’è altra garanzia» (cfr. Registrazione in premessa).

Del resto, scrive Paolo Grossi: «Il referente necessario del diritto è soltanto la società, la società come realtà complessa, articolatissima […] il diritto organizza il sociale, mette ordine nella rissa incomposta che ribolle in seno alla società, è innanzi tutto ordinamento […]. Mettere ordine, infatti, significa fare i conti con i caratteri della realtà ordinanda, giacché unicamente presupponendo e considerando quei caratteri non le si farà violenza e la si ordinerà effettivamente. Ordinare significa sempre rispettare la complessità sociale, la quale costituirà un vero e proprio limite per la volontà ordinante impedendo che questa degeneri in valutazione meramente soggettiva e quindi in arbitrio» (cfr. Grossi, 2009, pp. 15-16-17).

Forse c’è un ma in tutto questo, e – mi permetto di dover ulteriormente osservare – probabilmente più d’uno, cioè che l’eccesso di produzione normativa, insieme alla frequente inaffidabilità delle stesse norme, è spesso concausa di incomunicabilità e di smarrimento generale, al punto di generare forte senso di anomia, èrgo assenza di riferimenti, perciò con la reale conseguenza che troppe leggi, di frequente l’una contraddizione dell’altra, finiscono per equivalere a nessuna legge, quindi con scarso significato giuridico e altrettanta scarsa efficacia dal punto di vista del diritto più in generale (cfr. Ferrari, 2010).

Tuttavia, riprendendo ancora una volta Santiapichi: «Il giudice non è portatore di verità. La verità come valore assoluto porta all’inquisizione. Porta a raccogliere anche i frutti dall’albero velenoso. Porta a violare regole fondamentali sulla illiceità o liceità dei mezzi di prova […]. Il giudice però deve avere una cultura, e questo è molto importante. Voi, tanto se vi accingete a fare gli avvocati, quanto se vi accingete a fare i giudici, stateci attenti, la cultura però ve la dovete fare. […]. E la cultura del giudice è anche cultura dei limiti, se non soprattutto cultura dei limiti» (cfr. Registrazione in premessa).

Ma da questo punto di vista, Aristotele – a proposito della figura del giudice, «presentato come “l’uomo del giusto mezzo”» –, sostiene che: «Quando le parti sono in conflitto […] si rivolgono ad un giudice, “terzo imparziale”, dal quale si attendono che mantenga tra di loro “la bilancia alla pari”. Spetta al giudice render giustizia, vale a dire scoprire, nel rapporto controverso, il “giusto mezzo”» (cfr. Kerchove-Ost, 1998, pp. 53-54).

Mentre dal punto di vista più generale: «Simmel ritiene che di fatto non si dia mai una verità semplice e unitaria quale mero rispecchiamento del mondo, ma che sia proprio l’azione reciproca, cioè l’interazione tra individui, a costituire quelle reti relazionali entro cui gli individui ricercano la verità sul proprio conto e su quello degli altri […]. Secondo la sua prospettiva filosofico-sociologica relazionale, non solo ogni conoscenza deve essere pensata come relativa e vera anche nel suo contrario, ma noi costruiamo anche l’immagine dell’altro come “risultato di un processo analogico per mezzo del quale vediamo l’altro mediante ciò che sappiamo di noi stessi in un rapporto di reciproca dipendenza/indipendenza”. La “verità” che dell’altro riusciamo a conoscere non è quella che realmente gli appartiene» (cfr. De Simone, 2007, p. 119).

Tornando più propriamente ai processi, secondo statistica, pare che il 90% degli stessi si celebra su base indiziaria, con inevitabili ripercussioni dal punto di vista del dubbio concernente le condanne, quanto, mi permetto di aggiungere, le assoluzioni. E la Consulta, chiamata in causa, con Ordinanza 12-25 luglio 2001, n. 302, ha di fatto avallato tale istituto, respingendo la richiesta di dichiarare incostituzionale il processo indiziario (cfr. Francione, 2015).

Ebbene, secondo Putnam sono le norme di reciprocità e le reti associazionistiche e di impegno civico che incoraggiano la fiducia nella società e i processi collaborativi, giacché questi riducono gli incentivi alla trasgressione e ridimensionano l’incertezza, offrendo infine modelli per una fattiva collaborazione (cfr. Lazzarini, 2007).

Forse ha ragione Fornari, quando scrive che: «Superare l’idea che la conoscenza sia un assemblare e disporre in modo cumulativo e progressivo, meccanico e lineare, pezzi di sapere del tutto o in parte scollegati, significa riconsegnarsi alla possibilità di muoversi e, perché no, di scegliere tra diversi punti di vista, tra diverse versioni del mondo, assumendo quella che appare più rilevante e capace di dare risposte a questioni per lungo tempo rimosse e trattate come problemi marginali, inutili, privi di consistenza scientifica» (cfr. Fornari, 2014, pp. 123-124) ■

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[1] Attribuzione. L’audio qui trattato è stato estratto dal file originale registrato da Radio Radicale durante la suddetta conferenza. Il file messo a disposizione da Radio Radicale osserva il principio del rilascio con licenza Creative Commons, così come indicato sul sito ufficiale. La porzione di audio in interesse è stato inserito nella rivista da me diretta: Sociologia Contemporanea – www.sociologiacontemporanea.it/la-verita-dei-giudici/

 

Riferimenti bibliografici

De Simone A. (2007), L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Napoli, Liguori.

Ferrari V. (2010), Prima lezione di sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza.

Fornari F. (2014), Il baule di Newton. La sociologia e la sfida della complessità, Perugia, Morlacchi.

Francione G. (2015) (a cura di), Temi desnuda. Vademecum per creare una giustizia giusta, Roma, Herald.

Grossi P. (2009), Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza.

Imposimato F. (2009), L’errore giudiziario. Aspetti giuridici e casi pratici, Milano, Giuffrè.

Kerchove M. e Ost F. (1998), Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, Giuffrè.

Lazzarini G. (2007), Etica e scenari di responsabilità sociale, Milano, Angeli.

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Pubblicato in Sociologia Contemporanea (ISSN 2421-5872). N. 14A16 del 24/10/2016

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