La vacanza nel XXI secolo. Un’evoluzione del lavoro domestico
Sta arrivando l’estate e si respira aria di vacanze. Il corpo si libera degli abiti pesanti pregustando i piaceri della spiaggia, la vita si fa più leggera e le preoccupazioni sono rimandate a settembre.
<<== Prof. Patrizio Paolinelli
Per quanto le ferie retribuite siano soggettivamente vissute come una parentesi fatta prevalentemente di relax, divertimento e trasgressione, il loro significato sociale è in stretta relazione con le dinamiche dell’occupazione. Tale relazione poggia su due basi: 1) il tempo di lavoro determina la quantità e la qualità del tempo libero; 2) le modificazioni all’interno del mondo produttivo connotano l’immagine, il senso e la narrazione della vacanza. Pertanto il modo in cui viviamo oggi l’estate non è più quello di dieci o vent’anni fa perché con l’avanzare della globalizzazione sta volgendo al termine la struttura del ciclo di vita basata sulla sequenza infanzia, scuola, lavoro, tempo libero, pensione. Insomma, sta volgendo al termine l’epoca del lavoro salariato con i conflitti e le certezze che ne conseguivano e ci stiamo addentrando sempre più nell’era del lavoratore flessibile, così come illustrato sin dal 1988 da Richard Sennett. E se il lavoratore diventa flessibile, anche il turista cambia pelle, ovvero muta il proprio habitus mentale.
Per comprendere il nuovo senso della vacanza non possiamo non fare i conti col ripetersi senza fine di crisi economiche, con la diffusione del precariato, con le minacce al posto fisso e al sistema pensionistico. Eppure oggi le ferie sono vissute sempre meno come una sorta di risarcimento per l’inverno trascorso al lavoro. Al contrario prevale una funzione produttiva della vacanza centrata sui valori della seduzione, dell’apparenza e della forma fisica. La vacanza richiede ormai dal turista così tanti saperi e così tante prestazioni da rendere tutt’uno il corpo energetico della forma-lavoro e il corpo pulsionale assediato dai piaceri primari. Se così stanno le cose, e per quanto possa apparire paradossale, la vacanza non è più in netta discontinuità col mondo della produzione, ma ne costituisce il prolungamento in una società dove la disoccupazione ha raggiunto percentuali drammatiche e dove le disuguaglianze aumentano di anno in anno. E sebbene la vacanza sembri un tema futile, da relegare nella storia del costume, in realtà è sul fronte del tempo libero che si sta giocando una partita decisiva per il futuro del lavoro. Il motivo è semplice: nella modernità liquida il ruolo sociale del consumatore si trova ormai sullo stesso piano di quello del lavoratore.
I due tempi, consumo e produzione, tendono a sovrapporsi perché per gli individui il prestigio personale costituisce la principale posta in gioco della vita sociale. E il prestigio può essere raggiunto sia attraverso il reddito monetario generato dalla professione svolta, che dal reddito identitario, generato da una competente messa in pratica dei valori che caratterizzano il tempo libero.
Che le vacanze abbiano avuto una funzione prevalentemente produttiva non è una novità. Per i ceti dominanti da sempre la vacanza è anche e forse soprattutto un modo per tessere rapporti d’interesse con propri pari all’interno di resort esclusivi e panfili da sogno. Per le élite il party, il golf, la regata non sono solo momenti per la rappresentazione del consumo vistoso, ma costituiscono anche modi informali per accrescere il proprio capitale sociale, ossia visibilità, relazioni, prestigio, fiducia. Con peculiarità proprie questa tendenza sta scendendo dal vertice della piramide sociale verso la base, diciamo verso la massa dei vacanzieri appartenenti ai ceti medi e medio-bassi. Tuttavia non si tratta di un processo di democratizzazione come ad esempio il passaggio della crociera da viaggio per pochi a viaggio per tutti. Perché se per il jet-set la tendenza produttiva della vacanza ha come obiettivo ultimo il profitto per la maggior parte dei turisti l’obiettivo della produzione è tutt’altro. E il motivo è semplice: questa maggioranza non possiede le stesse risorse per aumentare il proprio capitale sociale. Pertanto dirige altrove il suo investimento. Dove? Sul corpo.
Il corpo è ormai l’unico bene di cui possiamo avere una qualche certezza. Il resto ci è stato tolto in tutto o in parte: la speranza nel futuro, un welfare-state efficiente, rapporti umani degni di questo nome, l’aria pulita, l’ambiente naturale. Persino l’acqua da bere dobbiamo comprarla imbottigliata, mentre alcuni futurologi prevedono che a causa della sua scarsità prima o poi scoppieranno nuove guerre. E il lavoro? Anche quello ci viene progressivamente tolto. C’è e non c’è. La possibilità di non trovarlo o di perderlo è una delle paure collettive dei nostri tempi così come lo era la peste durante il medioevo. Di converso, nel ricco Occidente la fame è scomparsa da oltre mezzo secolo, i lavori di fatica investono ormai una minoranza della popolazione attiva, abitiamo in città cablate e dalle vetrine scintillanti, viviamo più a lungo rispetto al passato, curiamo malattie che fino a pochi decenni fa compivano stragi, l’adolescenza si spinge oltre i trent’anni e la vecchiaia si sposta sempre più in avanti.
Quest’insieme di fattori ha prodotto una vita meno fragile e meno passeggera conducendo Hervé Juvin a ipotizzare che stiamo assistendo a un passaggio di civiltà il cui esito sarà dato dal risultato del conflitto tra l’identità fondata corpo e l’identità fondata sulla storia. Per sottolineare quanto il corpo sia al centro degli interessi del mondo della produzione vale la pena ricordare che Juvin è un economista e che il suo libro, “Il corpo” è stato pubblicato nel 2006 in Italia da Egea, casa editrice dell’Università Commerciale “Luigi Bocconi”, nella collana Cultura d’impresa.
La tesi di Juvin è molto interessante soprattutto perché ha il merito di inquadrare molto bene un problema socialmente trasversale. Per l’economista francese il corpo che abbiamo ereditato nel XX secolo è vicino a mutare natura: “Cambiando il suo tempo e il suo spazio, il corpo ha trasformato il nostro rapporto con il tempo e lo spazio, ha cambiato persino il suo rapporto con se stesso e con ciò che non è lui – gli altri corpi, la mente, l’anima, la natura, l’ambiente, il potere e l’autorità, il desiderio e la proprietà – e questo cambiamento è al centro di molti cambiamenti futuri, alcuni già presenti, talmente presenti che ci abbagliano e ci impediscono di vedere ciò che stiamo diventando, ciò che siamo già diventati. È l’ospite inaspettato di un secolo che cerca la sua storia. E ne è il padrone”.
Se si esce da un approccio soggettivista possiamo tranquillamente affermare che Juvin si lascia prendere un po’ la mano dalla sua prosa, soprattutto quando afferma che il corpo è il padrone della sua storia o che addirittura “ha preso il potere”. Semmai è vero il contrario: è il potere che ha preso il corpo come mai prima nella storia. E proprio per questo motivo il corpo è oggi uno dei principali bersagli dell’attività economica. Pubblicità, moda, cosmesi, chirurgia estetica, wellness, sport, design, architettura, comunicazione e turismo costituiscono una filiera di industrie che possiamo denominare “fabbriche della felicità” in quanto il loro obiettivo è soddisfare il piacere dei sensi. Tali fabbriche si sono spontaneamente integrate permettendo a industrie dei sogni come il cinema di generare pratiche quotidiane tanto che oggi è l’immagine a creare la realtà e non viceversa. Le fabbriche della felicità producono e incentivano un corpo particolare: il corpo glamour. Ossia un corpo attraente, conturbante, dotato di forte sex-appeal e in grado di presentarsi sempre sull’onda dell’ultima moda. Insomma un corpo perennemente in cerca di riflettori, di un pubblico e di un applauso.
Come si costruisce questo corpo spettacolare? Passando attraverso l’esperienza mentale ed emotiva degli individui in modo che vivano il desiderio del corpo glamour come un preciso atto della propria volontà. Le fabbriche della felicità rispondono a questa domanda di identità producendo e promuovendo stili di vita al cui centro risiedono fascino e apparenze, sensualità e disinvoltura, benessere e protagonismo. In poche parole, nelle realtà economicamente avanzate il glamour è il principale modo d’essere, di sentire e di esibire il proprio sé. L’angosciante prova costume in vista dell’estate costituisce una preoccupazione che tocca tutti, ormai a qualsiasi età. E se il tuo corpo non incanta sei un outsider. E se sei un outsider hai il dovere di metterti al lavoro per tornare insider. Come? Con la chirurgia estetica, l’esercizio fisico, il make-up, la pettinatura, l’abbigliamento.
L’istituzione che ha permesso l’affermazione planetaria del corpo glamour è il mercato delle immagini. Meglio, il suo inarrestabile ampliamento, anche durante una crisi economica prolungata come l’attuale. Stampa fotografia, cinema, televisione e Internet offrono quotidianamente allo sguardo del grande pubblico un diluvio di corpi giovani, belli, in salute e in smagliante forma fisica. Cosa hanno di particolare queste immagini? Sono in gran parte gratuite.
E, come noto, l’offerta gratuita è una tecnica di vendita applicata dal marketing per catturare clienti. Tecnica che nel caso del corpo glamour ha funzionato egregiamente monopolizzando l’immaginario collettivo dell’Occidente in tema di rappresentazione fisica del sé. Di più: il corpo glamour è un prodotto di esportazione in ogni angolo del pianeta. Le immagini e i gesti dei divi del cinema, della televisione e della musica pop sfruttano l’incontenibile forza dell’eros in nome della liberazione del corpo dai vincoli della tradizione. Il loro effetto è travolgente: il grande pubblico non vede l’ora di adeguare la propria immagine interna alle immagini esterne di star e starlette che ammiccano invitanti da ogni dove: stampa, pubblicità, videoclip, varietà televisivi e così via. Questo rispecchiarsi nei corpi glamour trasmessi dai media è cruciale perché l’adesione incondizionata a tali immagini è un lavoro quotidiano che gli individui fanno sul proprio aspetto fisico e sulle proprie emozioni. Un lavoro che va dalla culla alla tomba.
Un lavoro complesso perché è allo stesso tempo cognitivo (selezione dell’immagine), creativo (interiorizzazione dell’immagine), relazionale (proiezione dell’immagine). E allora eccoci passare dallo schermo allo specchio alle prese con i dilemmi dell’estate che incombe: monokini o bikini? Abbronzatura integrale o parziale? Più tatuati o più palestrati? E lo sguardo? Indifferente o di sfida? E il piercing? Discreto o indiscreto? Tutte decisioni che possono essere prese solo in base alla narrazione della propria immagine personale. Narrazione che aspira al corpo perfetto di attori e top model. Un corpo che ha nell’età e nella bilancia due giudici implacabili. Su quest’attività di cura del corpo-immagine si è soffermato con magistrale profondità analitica Jean-Claude Kaufmann in una ricerca sociologica del 2007 sul seno nudo nelle spiagge francesi (“Corpi di donna, sguardi di uomo”, edizioni Cortina). La ricerca ha dimostrato quanto un gesto apparentemente semplice come togliersi il reggiseno al mare non sia affatto naturale, ma frutto di una lunga elaborazione storica (nuovo ascolto del corpo), di continue negoziazioni (con gli sguardi maschili) e persino di micro-conflittualità (il seno più bello della spiaggia rischia l’accusa di esibizionismo, mentre le donne anziane e quelle grasse mandano in crisi la norma morfologica e si ritrovano sottoposte a una mormorata censura estetica).
Tra le conseguenze più visibili della frenetica attività per apparire come cover girl, star hollywoodiane e sex symbol c’è il forte abbassamento della soglia del senso del pudore. Nel XXI secolo non ci si vergogna di esporre il proprio corpo più o meno denudato. Ci si vergogna degli anni che passano, degli inestetismi della pelle, del grasso superfluo, dei difetti fisici e di non vestire alla moda – fosse pure l’abito un ridotto costume da bagno. Su questa nuova vergogna, sul senso di inadeguatezza che ne segue e sull’allargamento dello spazio sociale concesso alla vanità prosperano il turismo e le altre fabbriche della felicità. Fabbriche che chiedono al consumatore di icone dello spettacolo e della moda di cooperare alla costruzione della propria immagine così come Ikea chiede ai propri clienti di farsi carico del montaggio dei mobili. Il prodotto è un corpo favoloso, ossia un corpo plasmato come un oggetto di design e in grado di raccontare una storia fatta di aspirazioni: al desiderio, all’eterna giovinezza, al piacere-dovere di essere ammirati.
L’attuale culto del corpo ha nell’estate la sua prova del fuoco. È soprattutto durante le vacanze che gli individui devono dimostrare di essere assunti a tempo indeterminato dal mercato delle immagini. Essere espulsi da quel mondo significa ritrovarsi ai margini della società esattamente come capita a chi è espulso dal mercato del lavoro. A causa di quest’ansia il turista si sottopone a un duro lavoro manuale fatto di dieta e palestra, make-up e acconciature. L’obiettivo è presentarsi in spiaggia o in discoteca con un corpo estetico o erotico. Meglio ancora, con un mix tra i due corpi. L’importante è non offrire al pubblico un corpo banale, ossia un corpo che è visto ma non guardato. Perché l’anonimato è un’altra grande paura collettiva dei nostri tempi. Occorre allora esibire un corpo favoloso ispirato in qualche maniera dalle offerte del mercato delle immagini. Si tratta di una mossa soggettiva per aggirare l’impossibilità dell’ascesa sociale e ancor più spesso l’impossibilità di avere un lavoro garantito. Questi deficit hanno nello strenuo lavoro sul look la loro compensazione: dimostrano che se anche si è precari, disoccupati e con poche speranze per il futuro si è comunque in attività e pronti alla competizione.
Per provarlo al mondo ecco che durante l’estate i social network pullulano di fotografie di turisti in pose da divi dello spettacolo. Possiamo inquadrare tale attività come un’evoluzione del lavoro domestico. Che resta non pagato, ma risponde all’esigenza di mostrare un’identità capace di reggere ai continui cambiamenti delle mode e dei consumi, capace di navigare in un flusso perenne di immagini.
Patrizio Paolinelli, Via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro