LA SCOMODITÀ DI UNA SCIENZA CURIOSA, LA SOCIOLOGIA…

di Davide Franceschiello

Sin dalle sue origini, quella che può essere definita la scienza che studia la società, ha trovato ostacoli alla sua identificazione prima ed alla sua affermazione dopo. Alcuni hanno ritenuto che non ci fosse bisogno della Sociologia perché della società si occupavano altre scienze sociali che si sono sviluppate molto prima: l’economia, la scienza politica, l’antropologia culturale, la psicologia sociale, la demografia, la storia che, evidentemente, trattano esplicitamente o implicitamente della società.

<<== DOTT. Davide Franceschiello

I grandi filosofi dell’antichità (Platone e Aristotele) i filosofi dell’illuminismo (da Hobbes a Montesquieu) non si può dire certo che non abbiano esplicitato osservazioni sui comportamenti sociali. Allora bisognerebbe capire in che cosa si differenzia specificatamente la S. da queste scienze sociali.

La S. è forse una delle poche scienze di cui si può definire l’anno di nascita ufficiale: il 1838 quando, Auguste Comte (1798-1857), nel suo XLVII Cours de philosophie positive, ne parlò esplicitamente, attraverso un neologismo che combinava una parola di origine latina (societas) ed una di origina greca (logos) e siccome il maestro di Comte fu Henry Saint-Simon, va riconosciuto anche a lui il ruolo di fondatore della disciplina. Altri sostengono, molto più genericamente, che la S. nasce quando l’ordine sociale viene sconvolto, quindi nel 1492 con la scoperta dell’America, quando cioè si percepisce che il mondo non è circoscritto e la società passa da tradizionale medioevale di tipo religioso a moderna. La S. nasce dalla rivoluzione scientifica, dalla rivoluzione industriale del ‘700, dalla rivoluzione francese, quindi politica. La S. nasce quindi quando la società si trasforma e ci si pone il problema di capirne le ragioni del cambiamento per riuscire a controllarlo. Possiamo quindi dire che Comte fu il primo a porsi il problema di studiare la società applicando un metodo scientifico che consiste nello sviluppare un’ipotesi, verificarla mediante la raccolta di dati, accertarsi se è vera o falsa

Un altro pioniere fu Herbert Spencer (1820-1903) sociologo inglese che ispirò i primi sociologi statunitensi. La piena maturità arriverà però a cavallo tra il finire del 1800 e i primi anni del 20° secolo, quando operarono: in Francia, Émile Durkheim (1858-1917); In Germania: Georg Simmel (1858-1918), Ferdinand Tönnies (1855-1936) e Max Weber (1864-1929); in Italia, Vilfredo Pareto (1848-1923) e i “fondatori” americani, da Lester Ward (1841-1913) a Charles Cooley (1864-1929). La S. divenne materia di insegnamento universitario in Francia e USA e sul finire dell’‘800 presero il via alcune importanti riviste sociologiche: Revue Internationale de Sociologie (1893), l’American Journal of Sociology (1895), la Rivista Italiana di Sociologia (1897), l’Année Sociologique che Durkheim cominciò a pubblicare nel 1898. Sempre in Francia fu fondato l’Institute International de Sociologie. La S. è quindi un fenomeno espressamente occidentale, dell’Europa occidentale in particolare, sicuramente collocata in un’epoca post rivoluzionaria. Molto difficile quindi che rappresenti solo un caso il fatto che se ne sia sentita l’esigenza all’indomani di forti sconvolgimenti sociali.

Fu l’avvento della società industriale, vista come sinonimo di progresso ed emancipazione, di libertà dalla fame e povertà, ma soprattutto di eguaglianza avverso consolidati rapporti gerarchici di sudditanza e deferenza. Fu il periodo di straordinari processi di migrazione e inurbamento, dei tempi della fabbrica avverso i tempi fisiologici, dei rapporti impersonali e di scambio in sostituzione di quelli naturali a dare il via alla S. che non poteva che nascere a fronte di una radicale trasformazione della società e dal desiderio di doverla studiare, di capirne i nuovi meccanismi regolatori. La S. è quindi figlia del mutamento, dei profondi cambiamenti dei rapporti tra gruppi sociali e individui, tra capitale e forza lavoro. Marx ed Engels, nel Manifesto del partito comunista del 1848, sono i primi a parlare di conflitto di classe come grande forza della storia e motore del mutamento sociale. Tanti altri furono i sociologi che, ovviamente, si susseguirono ai pionieri e anche di grande spessore, così come tanti furono i sociologi italiani che hanno avviato la disciplina non certo senza difficoltà.

Anche in Italia, a cavallo degli ultimi due secoli, si sviluppò una buona tradizione sociologica, d’altronde i temi da affrontare non mancavano certo: l’arretratezza rurale e la miseria diffusa tra i contadini, i punti cardine. Tra i primi “nemici” della S. italiana ci fu Benedetto Croce che ne negava la legittimità di scienza empirica già dal 1898, ritenendo la Storia e l’Economia come uniche scienze destinate ad occuparsi dei fenomeni sociali. Questa negazione rallentò sicuramente lo sviluppo di una S. italiana non ancora affermata. Addirittura, uno studioso crociano, Carlo Antoni, riferì in modo dispregiativo della S. come la “scienza dei manichini”. Nel periodo tra le due grandi guerre la S. sopravvisse sotto altra denominazione e coltivata da specialisti di altre discipline, mentre la “Rivista italiana di sociologia” concluse le sue pubblicazioni nel 1921 e così la Società italiana di sociologia cessò la propria attività. Il regime fascista fece il resto, la “curiosità” della S. non poteva essere certo funzionale agli scopi propagandistici ed ai destini imperiali della nazione. In Germania, invece, il processo di Gleichschaltung impedì una sorta di asservimento al regime nazista. Invero il regime comunista guardò con molto sospetto il presentarsi della S., la quale avrebbe potuto smascherare i problemi che affliggevano la società da questo dominata.

Nel secondo dopoguerra la S. era praticamente scomparsa dal panorama accademico italiano. L’unica cattedra presente nella Facoltà fiorentina di Scienze Politiche era nata dalla trasformazione di una cattedra di Storia e dottrina del fascismo. Non solo, nel mondo universitario si registravano anche molte ostilità, specie da parte dei giuristi e degli storici, soprattutto quelli di formazione crociana che intravedevano nella S. il prodotto della cultura positivistica. Non più teneri erano filosofi, mentre più disponibili al dialogo erano i demografi e gli statistici anche se spesso legati a prospettive organicistiche che ne avevano favorito la collusione con il fascismo. Anche gli economisti mostravano vicinanza ai sociologi, ma poca roba. Insomma, tranne qualche caso vigeva l’ostracismo dell’Università italiana verso la S., né tantomeno c’era spazio per la formazione sociologica. Solo qualche organizzazione privata come l’Ufficio Studi Olivetti favori le indagini di sociologi americani, tutt’al più di origine italiana come Paul Campisi, che, venuti a studiare la società italiana del dopo guerra, no disdegnarono di accogliere diversi giovani che volevano accingersi alla S. Così anche il Centro di Prevenzione e Difesa sociale di Milano, associazione fondata da alcuni magistrati milanesi che annoverava una sezione dedicata alla S. e che nel 1954 ebbe modo di organizzare un congresso internazionale di studio sulle aree arretrate del Paese e negli anni a venire si impegnò anche per nel processo di istituzionalizzazione delle scienza sociali. Pian piano sorsero in tutta Italia altri centri di ricerca: a Portici, per mezzo di un gruppo di economisti agrari guidati da Manlio Rossi Doria e a Roma dove venne fondato un centro di orientamento cattolico, l’Istituto “Luigi Sturzo”.

A seguire la SVIMEZ, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, con giovani studiosi che cominciarono a sviluppare ricerche sociologiche. Nel 1951 poi a Torino, Nicola Abbagnano fondò, insieme al suo allievo, Franco Ferrarotti, i “quaderni di Sociologia”, una rivista che cominciò a pubblicare alcuni rapporti di ricerca e articoli di matrice sociologica. La giovane S. italiana aveva bisogno di importanti riferimenti e questi furono orientati verso la consolidata S. americana: su “The Structure of Social Action” di T. Parsons, che aprì le porte alla conoscenza di Durkheim e Weber; “Social Theory and Social Structure” di R.K. Merton e i saggi metodologici di Paul Lazarsfeld. Nel 1957 si costituì l’Associazione Italiana di Scienze Sociali e nel ’59 si tenne, tra Milano e Stresa, il quarto congresso mondiale di S. La fase pionieristica sembrava essere giunta al termine, ma nelle università la S. stentava a decollare. Cominciò ad entrarvi in “ordine sparso”, sfruttando alcune sensibilità locali e l’appoggio condizionato di alcuni “baroni”. Il prezzo da pagare consistette nella dispersione dei sociologi ed il conseguente isolamento nelle università, unito all’assenza di centri di ricerca.  Negli atenei di Torino, Milano, Pavia, Padova, Bologna, Firenze e Roma, tra le facoltà di Lettere e Scienze Politiche, “comparirono” insegnamenti sociologici, ma nulla di definito e direttamente riconducibile alla S.

Purtuttavia è proprio grazie a questi “focolai” di S. che poté sorgere la prima vera e propria facoltà di S. italiana, l’ISSS (Istituto Superiore di Scienze Sociali) di Trento. Non più quindi solo disciplina impartita nelle facoltà umanistiche, ma si istituzionalizza la presenza accademica della S., dotata di propria autonomia, e si avvia il graduale, seppur lento, processo di riconoscimento pubblico, nonché dei titoli di studio e quindi dell’utilità delle conoscenze da essa prodotte. Nel mondo della scienza le novità risultano spesso indigeste però e così le vessazioni verso la S. continuarono: reiterati furono i tentativi di Maranini e Miglio di bloccare la Facoltà di S. e di trasformarla in un indirizzo del corso di laurea in Scienze Politiche. Così come risultavano ancora pressanti le indifferenze da parte degli studiosi di stampo crociano. Grazie a Trento però, alcuni settori del mondo intellettuale, laico e cattolico, cominciarono a percepire la S. come un mezzo per avviare rigorose analisi dei fenomeni sociali in essere: i problemi della crescita economica del Paese e le connesse trasformazioni sociali. Andava via via prendendosi in considerazione l’idea che le altre materie sociali e umanistiche non fossero pienamente in grado di comprendere le trasformazioni sociali e di regolamentarle, ma che per completarsi c’era bisogno della S. Trento quindi aprì le porte dell’accademia alla S e i suoi piani di studio divennero punti di riferimento per i corsi di laurea di S. nate in Italia tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’90

Nel 1970 ad Urbino ed alla Sapienza partirono i corsi di S., trasformati in facoltà nel ’91; all’Università della Calabria parte nel ’72 una Facoltà che aveva l’ambizione di distinguersi dal panorama accademico nazionale: Scienza Economiche e Sociali, che aveva un indirizzo economico ed uno sociologico. Ma i guai non erano finiti perché, nonostante il mondo politico, in un primo momento, aveva intravisto nella S. la disciplina capace di formare i quadri della Democrazia Cristiana (Flaminio Piccoli al Nord e Ciro De Mita al Sud) negli anni di piombo non ebbe difficoltà a prendere le distanze dai sociologi, intravisti come pericolosi terroristi. È stata ancor più screditata da parte di personaggi come Renato Curcio e Tony Negri, qualificatisi come sociologi. Quindi per alcuni Sociologia era la facoltà dei terroristi rossi e dei sovversivi comunisti. Più tardi poi, nel ’94 nasce la facoltà di S. presso la Federico II di Napoli e nel ’98 quella presso Milano Bicocca.

In questi anni la S. italiana cominciò a studiare il processo di trasformazione della propria società, gli squilibri tra Nord e Sud, i fenomeni migratori legati a questi squilibri, la crescita industriale e la conurbazione dovuta allo spopolamento delle campagne, il sistema politico. Con la riforma Berlinguer-Zecchino del 2001 si ebbe poi una moltiplicazione degli insegnamenti sociologici quasi mai accompagnata però da un’altrettanta crescita degli insegnamenti metodologici inerenti la ricerca tout court e le tecniche di raccolta dei dati, tutt’a favore invece della sociologia espressiva. Non posso non essere d’accordo, a tal proposito, con chi sostiene che la S. debba essere una disciplina scientifica, empiricamente fondata, unico modo per verificare le ipotesi di ricerca e mettere a punto rigorose descrizioni della realtà sociale, risorse economiche permettendo! Da qualche anno a questa parte invece le analisi della realtà sociale e le risposte ai problemi da questa emergenti vengono lasciate a più o meno validi “sondaggisti” con competenze oceanografiche, giuridiche o giornalistiche quando va bene. Sempre meno sociologi sono chiamati infatti a leggere la realtà sociale da cui farne derivare opportune politiche pubbliche o esplicite riflessioni sui modi di governare la realtà sociale.

In Italia si organizzano molti festival di studio su letteratura, economia, diritto, storia, ma nessuno sulla S., ma anche in altri Paesi la situazione non è molto diversa: nel libro del sociologo inglese, J.H.Goldthorpe (On Sociology), si mette in evidenza come sempre più governi non finanzino la ricerca sociologica, troppo spesso ricondotta ad espressioni letterarie dei fenomeni sociali o di critica sociale anziché fondate su rivelazioni scientifiche basate: sul paradigma della scelta razionale e/o sulle matrici di dati elaborabili statisticamente, relative a campioni o ad intere popolazioni, quella che lo stesso Goldthorpe definisce QAD+RAT (Quantitative Analysis of Large Scale Tada-Sets + Rational Action Theory). Sulla stessa linea il sociologo Raymond Boudon, il quale ritiene che solo la ricerca scientifica potrà dare nuovo prestigio, e finanziamenti, alla S. In altri termini ci troviamo dinanzi alla dicotomia tra sociologia accademica e sociologia applicata e su quanto risulti opportuna l’una anziché l’altra. Certo è che molti studenti avrebbero preferito che almeno una parte dell’insegnamento fosse orientato alla creazione di professionalità più facilmente spendibili sul mercato del lavoro, ma la perenne crisi occupazionale, in specie quella giovanile, affiancata da un’ottusa visione prospettica degli sbocchi lavorativi ha invece spinto verso la didattica delle ambizioni culturali e accademiche, riducendo la S. ad una scienza di nicchia, da orticello accademico, di contestazione molto teorica e poco pragmatica, distante anni luce dai centri di decisione amministrativa, locale e nazionale. Il prof. Giuseppe De Rita cosi si esprime in merito: “Se la classe dirigente del lavoro sociologico non ha saputo dare contorni e significati precisi alla presenza della S. nelle Università, nonpotevamo aspettarci certo che avessero idee più chiare i giovani che nell’università entravano. E dovevamo in qualche modo aspettarci che i percorsi formativi dei giovani fossero, come certifica la ricerca, percorsi di nomadismo accidentato e incoerente”.

Che la S. abbia perso la sua pragmaticità è riscontrabile anche nelle migliaia di definizione della stessa e di come i tanti interpreti l’abbiano intesa in modi differenti, tanto che i sociologi stessi, ad oggi, hanno difficoltà a circoscrivere i loro stessi ambiti di azione. La S. è una scienza empirica, fondata sulla pratica, non è filosofia, non è speculazione teorica sulla società, Il sociologo, come dice Ferrarotti:”… deve sporcarsi le mani..”, deve inoltre essere curioso di natura e non dare nulla per scontato. In caso contrario smetteremmo di interrogarci sul perché degli eventi, dei mutamenti, delle circostanze, su come controllarli o adattarli alle nostre esigenze e su quali alternative lavorare. La S. è quindi la risposta a mille domande per cercare di comprendere la realtà, alla quale deve affiancarsi per poterla osservare e studiare, analizzare senza pregiudizi o preconcetti. “Una conoscenza critica, scrive il sociologo Marco Omizzolo, che si unisce ad una coscienza consapevole del ruolo sociale del ricercatore e che non si limita a fotografare la realtà o a scomporla per analizzarla, ma interviene in essa organizzando percorsi e agenti di un cambiamento partecipato e innovativo”. Io faccio sociologia nel momento in cui immagino soluzioni ai problemi che incontro, includendo gli interpreti dei fenomeni, ossia metto in pratica quella “osservazione partecipante” che mi permette di essere parte integrante della realtà sociale che sto osservando, di essere io stesso ricercatore e ricercato come scrive Ferrarotti. “Si può restare, continua Omizzolo, solo ricercatori dinanzi ad un uomo che racconta di lavorare quattordici ore al giorno, tutti i giorni del mese per 300 euro?” Si può rimanere solo ricercatori dinanzi alla violenza perpetrata su donne, minori, anziani, disabili, dinanzi alla miseria dilagante delle nuove povertà? Ci si può trasmettere queste nozioni solo tra addetti ai lavori, tra protettori di torri d’avorio, o invece escogitare, pianificare una metodologia di ricerca partecipata e inclusiva! Questa, per me, la nuova frontiera della Sociologia, fatta di coinvolgente prossimità, intrisa di cambiamento e foriera di passione. Elaborativa di una weltanschauung di pace e giustizia sociale, “…di un’azione ispirata alla non violenza per stabilire, in contesti vocati alla violenza, la premessa per il suo superamento (Danilo Dolci).

Il sociologo Francesco Lembo scrive: “le complessità sociali possono diventare risorse compatibili e possono diventare fattori di spinta capaci anche di muovere sviluppo. Da qui l’importanza della S. e del sociologo nei percorsi di ricerca – Il nostro Paese affronta oggi, con grande difficoltà, i temi epocali di una società multietnica ed il non facile rapporto tra individualismo e globalizzazione. Fattori estremamente complessi a cui solo la S. può fornire le risposte adatte”.

Insomma ci sarebbe da lavorare a piè spinto per i sociologi e l’emergenza coronavirus rappresenta un altro profondo mutamento sociale che apre il campo a tantissimi altri studi visto che con la pandemia i comportamenti sociali degli individui, le relazioni umane sono totalmente cambiati e Dio solo sa per quanto ancora. Negli USA o UK, in Germania e Francia, la S. è utilizzata negli studi di mercato, in quelli politici ed elettorali, nonché nella programmazione sociale. Le ricerche sociologiche vengono utilizzate da imprenditori, manager, dirigenti pubblici e soprattutto dai politici. In Italia abbiamo avuto modo di accennare che invece la figura del sociologo è stata, forse troppo facilmente, soppiantata da altre figure professionali a cui è stata ceduta una quota consistente di operatività in cambio di un mero riconoscimento a livello accademico. Politologi, sondaggisti, ingegneri, manager, economisti, forniscono risposte al posto dei sociologi, relegati sempre più ad un ruolo marginale. Nell’immaginario collettivo la S. non riveste un ruolo pratico, la natura del sociologo risulta sempre più indefinita, è tutto e niente allo stesso tempo. Il 90% dei laureati in S. fa mestieri impiegatizi o d’insegnamento che non hanno attinenza con la laurea ed il restante 10% che sviluppa, più o meno, S., parrebbe il più frustrato. Ciò emerge dal libro del prof. De Rita (Immagini e rappresentazioni di una professione non realizzata. Profili formativi e professionali dei laureati in sociologia) secondo il quale: “i laureati che hanno trovato posto nella ASP e nei servizi sociali degli enti locali hanno dichiarato di svolgere un lavoro subalterno, frammentario, accessorio o considerato ingombrante dai responsabili delle istituzioni in cui si trovano ad operare”. La concorrenza poi, come detto, è esponenzialmente aumentata, la Facoltà di Scienze Politiche è stata parificata a quella di S., psicologi, laureati in lettere, si vanno ad aggiungere alle professioni già citate. Ritorna così il problema di definire e circoscrivere la professione del sociologo per impedire “invasioni di campo”. Manca il riconoscimento della figura professionale del sociologo e delle sue attività, che siano di ricerca o di applicazione delle soluzioni derivate dalla ricerca scientifica.

Per l’ISTAT il sociologo è uno studioso dei fenomeni sociali e dei rapporti tra individui, gruppi e organizzazioni; Alberoni ha definito il sociologo come una categoria multiforme, un mostro a 100 teste in pratica, il “sociologo errante”; Ferrarotti riconosce al sociologo il ruolo, oltre che di ricercatore, di facilitatore dei processi economici, sociali e comunicativi, supervisore nel campo dell’assistenza sociale. Per altri ancora potrebbe occupare un ruolo strategico in settori multidisciplinari: nel settore amministrativo, nelle scienze umane e nel settore educativo. In molte cooperative viene impiegato come coordinatore dei servizi educativi e prima che venisse definita l’obbligatorietà della laurea in pedagogia ricopriva il ruolo di educatore vero e proprio. Ma il problema è proprio questo che il sociologo “vaga” o “erra” come scrive Alberoni, non ha una meta precisa, una identificazione specifica che altre categorie professionali hanno. Gli educatori, con la loro associazione, l’APEI (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani) sono riusciti a farsi riconoscere delimitando il loro raggio di azione, e così psicologi e soprattutto assistenti sociali. I sociologi sono attenti, troppo, a conservare il loro spazio unicamente nelle “torri d’avorio” delle università. Negli anni ’70 e ’80 il sociologo veniva impiegato soprattutto nella pubblica amministrazione, la crisi economica ed il blocco dei concorsi pubblici ha ridotto questa possibilità. Ma gli sbocchi lavorativi sono tanti: studioso dei fenomeni sociali, coordinatore/pianificatore dei servizi e delle politiche pubbliche; progettista sociale ed europrogettista, giornalista, esperto in risorse umane e in marketing e comunicazione; come visto può essere impiegato nel campo amministrativo, del welfare e dei servizi sociali, ma anche nelle politiche attive del lavoro; infine, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, conosciamo colleghi sociologi che fanno i CTP e CTU. Il problema, quindi, non è relativo alla mancanza si sbocchi lavorativi, il problema fondamentale è che il sociologo non è una figura professionale riconosciuta dal mondo del lavoro

L’Italia non investe in ricerca, in nessun campo, il settore for profit non offre spazio ai sociologi, pur essendo una figura strategica. In Italia poi abbiamo sulla testa il pesante macigno delle corporazioni di stampo fascista e delle loro “liste di proscrizione”, gli albi. Così l’economista si tiene ben stretto il suo campo di azione, l’assistente sociale ha trincerato il suo con il proprio albo, il consulente del lavoro è stato accessibile al sociologo fino al 2014, oggi non più, mentre ci sono sempre più professioni che rosicchiano giorno per giorno fette di mercato del lavoro ai sociologi che, non essendosi mai nascosti dietro la costituzione di un albo, dinanzi ad un assetto normativo siffatto, dinanzi ad una figura professionale sconosciuta o comunque non meglio identificata di altre, devono sgomitare per affermare la loro professionalità.

Un buon passo in avanti è stato fatto dall’Associazione Sociologi Italiani, ultima arrivata nel panorama delle associazioni di sociologi (2016), ma unica riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come iscritta nell’elenco delle Associazioni non ordinistiche che possono rilasciare ai propri soci l’attestato di qualità e di qualificazione professionale dei servizi prestati, in base agli articoli 4,7,8 della legge 4/2013. Con l’iscrizione all’elenco del MISE viene garantita la tutela dei cittadini in relazione alle prestazioni professionali degli iscritti, la valorizzazione delle competenze attraverso la formazione professionale, il rispetto delle regole deontologiche e quelle sulla concorrenza così come le professioni organizzate in ordini. Ma ora il secondo passo dell’associazione sarà quello del riconoscimento sostanziale della figura professionale del sociologo, della sua centralità all’interno del mercato del lavoro pubblico e privato attraverso la tutela da parte del Diritto. Un riconoscimento de facto per la definizione identitaria del Sociologo, per l’attivazione di strumenti giuridici di tutela come il riconoscimento dell’esercizio abusivo della professione sociologica e la creazione delle condizioni per la promulgazione di una legge che preveda l’assunzione obbligatoria dei sociologi per attività sensibili che riguardano le competenze degli stessi in enti pubblici e privati.

«La Sociologia è la scienza dell’interconnessione dei vari aspetti della vita sociale reciprocamente condizionati. Una disciplina scomoda fondata su curiosità, la cui ambizione folle è quella di arrivare al significato profondo delle cose e chiarire la natura di molte complessità» (Franco Ferrarotti)

dott. Davide Franceschiello – Segretario generale nazionale e Presidente della Deputazione ASI Calabria.


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