LA GRANDE PAURA

SAVERIO OCCHIUTO sociologiaonwebUna recente indagine condotta dal Dipartimento di Scienze giuridiche e sociali dell’Università d’Annunzio di Pescara, ha rivelato che per oltre  la metà degli intervistati (51,4% ) la paura più grande è legata al disagio economico. Soltanto dopo, ma con percentuali molto minori, si collocano la paura della criminalità (23,4%), dell’inquinamento ambientale (14,5%), dell’immigrazione (8,5%), del terrorismo internazionale (1,8%), delle catastrofi naturali (0,4%).

La ricerca è stata realizzata su un campione di 700 cittadini distribuiti in modo omogeneo nei quartieri della città. Naturalmente, facendo riferimento a un contesto geografico specifico, quello dell’Italia centro meridionale, non è detto che lo studio possa avere valore statistico per le restanti aree del Paese. Ma è comunque significativa la distanza enorme che in base alle conclusioni della ricerca divide la paura di perdere il posto di lavoro, di non farcela più ad arrivare alla fine del mese, di trovare una occupazione, rispetto a quella di essere scippato per strada o di ritrovarsi un ladro armato dentro casa o all’interno del proprio negozio. Va tuttavia osservato, che mentre le altre paure sono legate ad episodi precisi e sporadici, come le grandi catastrofi naturali o gli attentati terroristici, quella legata al disagio economico si trasforma spesso in angoscia, in uno stato permanente di infelicità, di frustrazione.

Un male sociale che investe sempre più persone, dai giovani ai nonni preoccupati del futuro dei propri nipoti, con conseguenze generazionali e sociali che oggi sono sotto gli occhi di tutti: come la paura di fare figli o di crearsi una famiglia dopo avere messo in fila i conti per pagare l’asilo nido, i pannolini, il pediatra, l’ultimo modello di passeggino, le vacanze per tutti. Anche qui siamo di fronte a un salto generazionale enorme tra chi, nel primo dopoguerra, non aveva difficoltà a mettere al mondo quattro o cinque figli, riuscendo a sfamarli dignitosamente pur muovendosi tra le macerie, e chi, oggi – facciamo l’esempio di una famiglia media di tre persone – non sa proprio immaginare un presente senza tre telefoni cellulari, almeno due auto (più lo scooter per muoversi in città), due viaggi l’anno per trascorrere le vacanze, un guardaroba alla moda da rinnovare ad ogni cambio di stagione. Il benessere ha alzato la soglia del desiderio.

Un’asticella che la società basata sul consumo compulsivo sposta ogni giorno di più verso l’alto, anche se noi non ce ne accorgiamo. Soffriamo, ci angosciamo per non riuscire ad arrivare dove vorremmo, nonostante quel “dove” sia spesso un accessorio superfluo.  E’ l’esistenza che si aggira come un automa in un centro commerciale. Una vita virtuale, come tutto ciò che scorre sui social network. Tutto questo, ce lo insegna la storia, si supera solo attraverso due vie: una grande guerra (che nessuno si augura) per resettare il grande disordine e ripartire da zero, o una rivoluzione culturale che porti ad invertire le “priorità”, percorso temutissimo dalle lobby economiche. La scelta spetta in ogni caso a ciascuno di noi, dopo avere assunto la consapevolezza che essere infelici dentro e felici “fuori”, è una vita triste. Appunto, proprio come ci dice la ricerca dell’Università abruzzese.

Saverio Occhiuto – giornalista professionista e psicologo


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