LA FERROVIA DEI BORBONE
Quando si parla di ferrovia ci si rifà a Robert Stephenson. Questi in effetti fu l’ultimo anello di una lunga serie il quale assemblò tutte le teorie che da millenni furono messe in atto per aiutare l’uomo nel lavoro ma anche per stupirlo. Il principio per cui una vaporiera si muove è basato sul concetto della “pentola a pressione”. Un contenitore pieno d’acqua, il liquido viene riscaldato, il vapore prodotto fuoriesce da un ugello infine con l’ausilio di cinghie e ingranaggi, usando delle ruote, si avvia il movimento per spostare il tutto. Questo sistema fu ampiamente usato già nell’antica Grecia nel periodo Miceneo. Tale metodo s’impiegò per ottenere alcuni movimenti delle statue di dei e anche per aprire le porte dei tempi a loro dedicati. Si hanno notizie certe e documentate di Erone d’Alessandria, nel I secolo a. C., il quale con l’uso del vapore stupiva i suoi contemporanei ottenendo degli effetti speciali, tutti relativi alla dinamica, facendo credere loro che tutto ciò fosse soprannaturale.Facendo un balzo in avanti nel tempo, già Galileo Galilei ed Evangelista Torricelli si cimentarono nell’uso del principio del vapore. Però bisogna arrivare nel 19° secolo per avere l’utilizzo di tale concetto, nello specifico per l’impiego nella trazione. Ciò avvenne quando George Stephenson costruì la prima locomotiva che venne utilizzata nelle miniere per il trasporto del carbone, l’uso di questo mezzo per il trasferimento dei passeggeri si deve al figlio Robert il quale continuò gli studi sfruttando e raffinando l’esperienza del padre. La prima ferrovia fu inaugurata nel 1825, il percorso fu Liverpool-Manchester con la locomotiva chiamata Rockert ideata da George. Nella penisola il primo stato che vide lontano coniugando i grandi vantaggi della ferrovia con lo sviluppo che essa poteva apportare, fu il Regno delle Due Sicilie, quel Regno Meridionale tanto maltrattato e bistrattato che con il suo Sovrano, Ferdinando 2°, il primo in Italia seppe dare una svolta di modernità alla nostra Nazione, la stessa che, per interessi personali, Lord Gladston la definì “negazione di Dio” ma tanto apprezzata dal connazionale Lord Disraeli. Il Sovrano borbonico, come dicevamo, si convinse della bontà dell’invenzione tanto che fece acquistare una di queste automotrici, la Bayard, facendola poi studiare ai suoi ingegneri quindi intraprenderne la produzione in serie ponendo in essere la realizzazione di uno stabilimento localizzandolo a Pietrarsa nel quartiere di San Giovanni a Tetuccio.
Dopo avere intrapreso la costruzione delle locomotive e dei vagoni ferroviari si passò al loro utilizzo, nel mentre si costruì la ferrovia Napoli-Portici. Questa non venne realizzata per trasportare in modo plateale la Corte dalla capitale a Portici, come dicono i detrattori, ma per trasferire dal porto di Napoli a Pietrarsa i pani di metallo che arrivavano via mare dalle ferriere di mongiana in Calabria i quali servivano per costruire treni e binari. Il percorso era di 7,25 chilometri, questa tratta fu inaugurato nel 1839, in seguito, nel 1842, fu realizzato il percorso fino a Castellammare di Stabia, quindi dopo due anni si prolungò a Pompei e Nocera. In previsione vi era l’idea di realizzare una tratta fino al confine con lo stato Pontificio e precisamente a Sparanise. Nel 1846 si iniziarono gli studi di fattibilità per prolungare il percorso fino a Santa Severina e Avellino quindi fu sottoscritta la concessione. S’intraprese lo studio specifico per costruire il percorso Foggia–Bari per poi continuare fino a Brindisi e Taranto, verso nord per raggiungere le Marche. Il tutto venne vanificato con l’unità d’Italia che sottomise ai loschi traffici piemontesi il “Regno Felice”, con questo appellativo era conosciuto all’epoca il Regno borbonico.
Ubaldino Peruzzi, nel 1861 ricopriva la carica di Ministro dei lavori pubblici del neonato regno d’Italia, in una sua relazione confermava l’esistenza di un progetto di legge atto alla realizzazione della tratta Napoli-Adriatico di 140 chilometri. Tutto il materiale rotabile era prodotto nella fabbrica di Pietrarsa, La denominazione per esteso di questa realtà industriale era “Reale opificio Meccanico, Pirotecnico e per le locomotive”. La prima locomotiva, per lo studio, fu acquistata dalla ditta Longridge Starbuck & Co. di New Castle, questa fu interamente smontata, studiata e quindi si iniziò la produzione migliorandola nelle parti tecniche. Significativa fu la frase del Sovrano “ …perché il braccio straniero a fabbricare le macchine, mosse a vapore, il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse”. Lo storico inglese Bolton King nella sua opera riferita all’Italia relativa al periodo dal 1814 al 1871 dichiarò “…nessuno stato in Italia poteva vantare istituzione più progredita come quella del Regno delle Due Sicilie”, Guido Landi sostenne “… il Regno delle Due Sicilie fu considerato una forte costruzione politica superiore a tutti gli altri stati italiani”. Le vaporiere e i vagoni per treni costruiti negli stabilimenti di Pietrarsa vennero esportati in tutti gli stati della penisola, il Piemonte nel 1847 ne acquistò 7.
Bisogna doverosamente fare cenno alla prima protesta operaia dell’Italia unita. Ciò avvenne nel 1863 a Pietrarsa gli attori furono gli operai dell’opificio e Sebastiano Grandis. Questi era un ingegnere piemontese nato nella Savoja , prima che fosse ceduta alla Francia per pagare i debiti contratti con essa, il quale dopo l’unificazione fu incaricato a decidere, tra la fabbrica di Pietrarsa e quella dell’Ansaldo di Genova, quale delle due dovesse essere smantellata. Al tempo l’industria di Pietrarsa era all’avanguardia e impiegava 1050 operai mentre quello di Genova, senza onore ne gloria, era sostenuto dai politici piemontesi e ciò prevalse, per cui il Grandis decise per la sopravvivenza di quest’ultima. Durante la protesta delle maestranze di Pietrarsa, perché vi erano in corso licenziamenti, i bersaglieri chiamati dal liquidatore fecero fuoco sugli scioperanti per cui vi furono diversi morti.
Sarebbe riduttivo parlare delle ferrovie e dell’industria di Pietrarsa se non si fa almeno un cenno alle miniere di Stilo, alla fabbrica d’armi della Ferdinandea e alle fonderie di Mongiana, il tutto era una realtà che esisteva in Calabria. Il materiale ferroso veniva estratto nelle miniere della zona di Stilo e dintorni, veniva lavorato a Mongiana, dove si fabbricavano anche le corazzature per le navi e si ricavavano dei pani di ghisa i quali in parte venivano usati negli stabilimenti della Ferdinandea per la costruzione di armi e in parte esportato per essere lavorato altrove, il porto d’imbarco era Monteleone, oggi Vibo Valentia. Apprezzato era il fucile “Mongiana”, con canna rigata e alzo di mira variabile, il quale costituiva un punto d’onore per l’industria, arma della quale ogni collezionista che la possiede ne fa vanto. Naturalmente il materiale ricavato dalla fonderia veniva usato anche per opere civili quale la costruzione di ponti. A tale proposito vogliamo ricordare il primo ponte sospeso in ferro costruito nella penisola italiana e il secondo in Europa, nel 1832, sul fiume Garigliano, il Real Ferdinando, tuttora esistente. Inoltre si ricavavano statue e manufatti anche di uso domestico. Le maestranze che lavoravano erano tenute in gran conto e, all’epoca, moltissimi operai che prestavano la loro opera provenivano dall’Italia del nord fra cui svariati piemontesi. Per il benessere dei lavoratori vennero costruite case unifamiliare che tuttora esistono in barba al tempo e ai terremoti. Queste realtà vennero vanificate con l’unità d’Italia adducendo la scusa che un’industria ferriera non poteva esistere in mezzo alle montagne e distante dal mare, così il tutto fu trasferito a Terni dove sorse la nuova industria ancora più lontana dal mare e al centro degli Appennini. Dopo l’unità degli stati italiani sotto un’unica bandiera il progresso nel Meridione ebbe un terribile arresto e sottosviluppo che tutt’oggi si registra. Si spera in tempi migliori.
ANTONIO PIZZI
PRESIDENTE CIRCOLO CULTURALE REGNO DELLE DUE SICILIE CARDINALE RUFFO DI CALABRIA