La decadenza della politica, il caos nel Pd sul referendum, lo scontro tra governo e Regioni, l’incompetenza sulla scuola
L’analisi politica di Giorgio Benvenuto nell’intervista di Patrizio Paolinelli
Si sta iniziando a scaldare la campagna referendaria sul taglio dei parlamentari. A Montecitorio i partiti hanno votato per il sì quasi all’unanimità. Oggi invece sono attraversati da molti dubbi. Come spiega questo passaggio dalla certezza all’incertezza?
<<=== Prof. Patrizio Paolinelli
Lo spiego col fatto che la politica non c’è più e che le decisioni si prendono in base alle esigenze del momento. La politica si fa senza respiro, senza prospettive, è tutta tattica e niente strategia. È incredibile: in parlamento alcuni partiti avevano votato a favore del taglio dei parlamentari e ora rimettono in discussione quella scelta. Va riconosciuto che i 5 Stelle sono i più coerenti, d’altra parte la riduzione del numero dei parlamentari è un loro antico cavallo di battaglia. Ma il quadro complessivo è quello di una decadenza della politica. Comunque, i tanti ripensamenti nel fronte del sì sono venuti fuori anche perché il voto in parlamento non è stato il frutto di un dibattito interno ai partiti e ancora meno nel Paese. Si è trattato di decisioni prese da gruppi dirigenti che pensavano di interpretare correttamente la realtà. In tutta evidenza si sono sbagliati.
Nessuno nega che occorra rendere maggiormente efficiente il nostro parlamento. Ma l’efficienza non è un fatto quantitativo, è un fatto qualitativo. Non è riducendo il numero dei parlamentari che automaticamente il parlamento diventerà più dinamico e operoso. I problemi sono altri. Alcuni esempi: i regolamenti sono ormai superati e vanno modificati, il bicameralismo perfetto non ha più una sua giustificazione, infine, in questi ultimi anni il parlamento è stato espropriato dei suoi compiti tanto da non avere più il valore che aveva nella Prima Repubblica e all’inizio della Seconda. Purtroppo su questi problemi non vedo grande attenzione.
Tuttavia Zingaretti ha lanciato un appello a Conte affinché la maggioranza di governo approvi prima del referendum sul taglio dei parlamentari una riforma elettorale. Cosa pensa di questa mossa?
Che arriva in ritardo. Anzi, con troppo ritardo. Innanzitutto mi ha stupito il cambiamento repentino del Partito Democratico. Il quale, come è noto, ha votato per tre volte no al taglio dei parlamentari quando il Movimento 5 Stelle stava al governo con la Lega, poi quando è nato il Conte bis ha votato sì. È stata una mossa tattica. Comprensibile, altrimenti il nuovo governo rischiava di cadere, ma poi è mancata la strategia. Quella che adesso Zingaretti vuole mettere in pista con la proposta di una riforma elettorale a poco più di tre settimane dal referendum. Ciò denota come ancora oggi il Partito Democratico sia fermo all’emergenza. Ossia impedire che vinca la destra. Obiettivo legittimo, ma per raggiungere il quale non basta fare delle alleanze contraddittorie. Occorre avere un progetto. Progetto che fino ad oggi non si è visto.
A parte questo aspetto, quando la tattica non fa parte di una strategia può rivelarsi assai problematica. C’è infatti da considerare che se al referendum vinceranno i sì si tratterà di una vittoria dei 5 Stelle, se invece vinceranno i no si tratterà di una sconfitta che coinvolgerà anche il PD. Non basta. Se come sembra alla fine Zingaretti decidesse di lasciare libertà di coscienza agli iscritti al partito e al suo elettorato si aprirebbe un problema di carattere generale, che va al di là dello stesso PD e di Zingaretti. E cioè il fatto che su una questione che investe la Costituzione un partito deve essere perfettamente cosciente di quello che vuole e di quello che non vuole. In questo caso lasciare libertà di coscienza è troppo comodo. È un atteggiamento da Ponzio Pilato: qualsiasi soluzione va bene. Invece sui temi che investono la struttura delle istituzioni i partiti non hanno mai lasciato libertà di coscienza, a partire dal referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. Hanno sempre dato indicazioni precise e assunto posizioni molto chiare.
Lo scontro tra Regioni e governo nazionale si arricchisce di altri due capitoli. Il primo, riguarda la vicenda dell’ordinanza del presidente della Regione Sicilia, impugnata dal governo e sospesa dal Tar. Tale ordinanza stabiliva il trasferimento fuori dall’isola di tutti i migranti presenti nei sovraffollati hotspot della regione. Il secondo capitolo riguarda le regole per garantire l’apertura in sicurezza delle scuole. Si è faticato parecchio a trovare un accordo e comunque ci sono ancora diverse incognite. Questi continui tira e molla tra Stato e Enti locali stanno superando il livello di guardia?
Sì e da molto tempo. Qui c’è una vecchia responsabilità. Mi riferisco alla modifica del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001. Una riforma che tra i suoi risultati ha avuto quello di aprire un forte conflitto tra Stato centrale e Regioni, tanto che i quattro quinti delle sentenze della Corte Costituzionale riguardano le diatribe tra questi due enti. Anche il caso della Regione Sicilia da lei menzionato è stato risolto da un tribunale. Arrivati a questo punto a me sembra che siamo all’emergenza perché i processi decisionali subiscono continui stop e non si può andare avanti in questa maniera. La questione va affrontata e vanno stabilite chiaramente le competenze tra Stato e Regioni per evitare che il continuo ricorso ai giudici finisca per produrre una paralisi istituzionale. Il problema è talmente serio che Conte fa continuamente ricorso ai Decreti della Presidenza del Consiglio e utilizza la Cassa depositi e prestiti come uno strumento amministrativo per rimettere in piedi l’intervento dello Stato nell’economia. Cosa che ha una sua ragionevolezza, ma va disciplinata mentre oggi è assai confusa.
In merito alla vicenda relativa all’apertura delle scuole debbo dire che è stata gestita con un’enorme incompetenza. Mi spiace dirlo ma siamo a una specie di carnevalata. Mi risulta difficilmente comprensibile questa storia dei banchi, delle mascherine, delle distanze da tenere in aula e sui mezzi di trasporto, dei professori over 55 anni che si sentono a rischio, di chi debba misurare la temperatura ai ragazzi e così via. Si è iniziato a chiudere le scuole a marzo, siamo a fine agosto e a distanza di poco più di due settimane dalla riapertura, stiamo ancora discutendo su cosa si debba fare. Non ci si poteva pensare prima? E poi non è chiara la responsabilità dei presidi, inoltre le assunzioni di nuovo personale debbono ancora essere fatte. Insomma, come si dice a Roma, siamo a carissimo amico. Non voglio infierire, ma cos’hanno fatto le due task force dedicate alla scuola? Francamente mi stupisce la latitanza del governo. Vista la situazione perché non è stata indetta una riunione urgente? È incredibile.
Pochi giorni fa ad Amatrice si è tenuta la commemorazione delle vittime del terremoto del 24 luglio 2016 che provocò oltre trecento morti e 65mila sfollati. Dinanzi alle rimostranze della popolazione per i ritardi nella ricostruzione il premier Conte ha dichiarato “Stiamo creando le premesse per procedere molto più speditamente rispetto al passato”. Sarà così?
Ce lo auguriamo tutti, soprattutto i cittadini di Amatrice. Non intendo affatto polemizzare con quanto ha detto il premier, purtroppo però registro una grande ricchezza di parole e un’altrettanta grande povertà di fatti: a quattro anni dal sisma non si è ricostruito quasi nulla. E allora, oltre alle rassicurazioni, bisognerebbe cominciare a tappe forzate a mettere in piedi un vero piano di ricostruzione. Ma per questo c’è bisogno di una volontà politica. Proprio per evitare ritardi eccessivi ritengo che emergenze come i terremoti vadano affrontate nello stesso modo con sui è stato affrontato il crollo del ponte di Genova. In due anni è stato ricostruito, mentre ad Amatrice ci sono ancora le macerie da sgombrare. Che posso dire? Rimboccatevi le maniche e fate come avete fatto a Genova.
Patrizio Paolinelli, jobsnews.it, agosto 2020.