LA BELLA E LA BESTIA: STEREOTIPI CULTURALI E DINAMICHE RELAZIONALI

di Federica Ucci

In sociologia, per stereotipi si intendono schemi di classificazione sociale che attribuiscono ai membri di una determinata categoria oltre che specifiche caratteristiche anche sfumature valutative, positive o negative. Essi si trovano nella sottocultura di classe e spesso si sono formati storicamente nel corso di molte generazioni, per cui sono basati su esperienze non dirette e individuali, ma assorbite nel processo di educazione sociale con beneficio d’inventario.

Un individuo li acquista prima di entrare personalmente in contatto con i rappresentanti della categoria stereotipizzàta, in altre parole se ne appropria prima di fare esperienze personali. Parte notevole degli atteggiamenti umani è dovuta non tanto al diretto comportamento di altri uomini, quanto agli stereotipi che vengono messi in moto nella coscienza nel momento in cui l’uomo si rende conto di essere venuto in contatto con i rappresentanti della categoria determinata. Si può dire, generalizzando, che una delle condizioni essenziali per la durevolezza e la stabilità del modello di comportamento dei membri di una determinata classe, in determinate situazioni sociali, è proprio l’approvazione degli stereotipi di cultura(1).

Il termine “stereotipo” è stato introdotto nelle scienze sociali da Walter Lippman nell’ambito degli studi dei processi di formazione dell’opinione pubblica in cui il rapporto conoscitivo con la realtà esterna è mediato dalle immagini mentali che ognuno si forma di essa e che sintetizzano, come “scorciatoie”, la complessità del reale in modo da renderlo di più semplice comprensione. Questa visione distorta della quotidianità e della vita associata è un’etichetta che viene portata avanti attraverso gerarchizzazioni socio culturali che possono aprire le porte al pregiudizio, un giudizio “prematuro” basato su un’informazione incompleta e insufficiente, che talvolta può sfociare in un sentimento negativo proprio per la mancanza di informazioni. Citando Lippman, gli stereotipi sono “fortezze della nostra tradizione entro la cui cinta possiamo professare con sicurezza le nostre opinioni di sempre”(2).

In questa sede, possiamo definire stereotipi di genere quelle rappresentazioni o immagini comuni e semplificate della realtà che, in ogni cultura, attribuiscono determinate caratteristiche alle donne, agli uomini e ai rapporti fra loro. Il loro uso conduce ad una percezione rigida e distorta della realtà che si basa su ciò che noi intendiamo per femminile e maschile e ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Gli elementi propri degli stereotipi di genere, secondo i quali le donne e gli uomini presentano “naturalmente” determinati elementi caratteriali, specifiche attitudini e competenze, influiscono in modo significativo nelle loro scelte di vita, creando inoltre in loro la tendenza ad esercitare la propria soggettività attraverso gli stereotipi stessi.

Sappiamo che per capire il comportamento degli adulti occorre conoscere il loro background infantile, la famiglia infatti è la prima agenzia di socializzazione dell’individuo, è al suo interno che il bambino inizia a farsi un’idea di se stesso, degli altri e del mondo e a capire come funziona la vita all’interno di un gruppo, almeno fino a quando inizia a frequentare la scuola. All’interno di queste agenzie la trasmissione culturale degli stereotipi avviene in diversi modi e attraverso diversi prodotti culturali, come ad esempio le favole, le quali influenzano profondamente l’immaginario infantile e, di riflesso, la costruzione dell’identità. Presentando una componente descrittiva e una componente prescrittiva, secondo cui si devono possedere determinate caratteristiche per essere accettati, le favole contribuiscono a confermare, tramandare e riprodurre modelli sociali tradizionali e forti differenziazioni di genere che i bambini interiorizzano grazie a un linguaggio simbolico immediatamente fruibile.

In questa epoca ipermoderna, nell’ambito delle relazioni sociali, in generale nei rapporti di amicizia, ma anche in quelli lavorativi o più nello specifico, in quelli di coppia, si tende a ragionare in termini egoici, ci si percepisce nella relazione con l’altro come due “Io”, due entità distinte che devono sforzarsi di unirsi, invece che come un “Io duale”, ovvero una singola identità interconnessa in cui la coppia sente e pensa mediante mappe neurali identiche, attivate da un corso di comunicazione continuo. L’individuo umano dipende naturalmente da una controparte per esistere, crescere e definirsi, quando sperimenta le prime esperienze infantili in strutture familiari caratterizzate da forti stati ansiosi, in esso può ingenerarsi una eccessiva paura del mondo esterno che lo fanno percepire come incapace di affrontare le grandi sfide della vita. Tuttavia, ci sono delle dinamiche ancora più nocive che possono plasmare il comportamento del futuro adulto e fare in modo che esse siano “replicate” nelle relazioni sentimentali e interpersonali in generale, le quali possono essere caratterizzate da dipendenza emotiva.

Statisticamente questo fenomeno risulta riguardare maggiormente la popolazione femminile, infatti, dalla letteratura risulta che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi sono di sesso femminile (D. Miller, 1994). l tema delle donne che hanno bisogno di essere al servizio di qualcuno e di “salvarlo” e degli uomini che ricercano donne capaci di controllare il loro comportamento per essere “salvati” non è un’idea moderna, ma è rafforzata da alcune favole che, dando corpo alle lezioni più importanti della cultura che le crea e le perpetua, continuano ad offrire da secoli diverse versioni di questo dramma.

Prendiamo, ad esempio, la favola “La Bella e la Bestia”, in cui una giovane carina e innocente incontra un mostro repellente e spaventoso.

Per salvare la propria famiglia dalla sua collera, accetta di vivere con lui e, conoscendolo meglio riesce a superare la sua ripugnanza arrivando persino ad amarlo. A questo punto, accade una magia: la Bestia si libera dall’incantesimo che gli aveva fatto assumere quelle sembianze per tornare ad essere un principe, compagno grato e desiderabile. Così Belle vede ripagata la sua accettazione, restando accanto a lui per condividere una vita meravigliosa. La Bella e la Bestia, come molte altre favole ripetute nei secoli, incarna una profonda verità spirituale, e questo tipo di verità di solito è già molto difficile da cogliere e capire, ancor di più da mettere in pratica, perché molto spesso cozza con i valori contemporanei.  Perciò, nella maggior parte dei casi, c’è una tendenza a interpretare questa favola in modo che rinforzi il pregiudizio culturale e, così facendo, è facile fraintendere il suo significato più genuino o perderlo del tutto. Il pregiudizio culturale che la favola sembra confermare è che una donna può cambiare un uomo se lo ama abbastanza intensamente.

Questa credenza è pervasiva nella psiche individuale e collettiva, più volte riflessa nei nostri comportamenti quotidiani e rappresenta il tacito assunto culturale che possiamo cambiare qualcuno in meglio con la forza del nostro amore e che, se siamo femmine, è nostro dovere farlo. Quando qualcuno a cui teniamo molto non risponde con le azioni o i sentimenti come noi vorremmo, cerchiamo di escogitare qualcosa per cambiare il suo comportamento o il suo carattere, talvolta seguendo i consigli degli altri, amici e parenti, ai quali chiediamo pareri volutamente o, ancor peggio, che si prendono autonomamente il diritto di elargire suggerimenti contraddittori non resistendo alla tentazione di volerli dare: tutti si concentrano sul problema di aiutare e come aiutare.

In questo contesto, anche i mass media entrano in azione, non solo per riflettere questo sistema di credenze, ma anche per rinforzarlo e perpetuarlo con la loro influenza, continuando a delegare questo compito alle donne. Le riviste femminili, ad esempio, pubblicano spesso articoli su “come aiutare il vostro uomo a diventare..”, mentre articoli analoghi su come andrebbero aiutate le donne raramente appaiono sulle riviste per uomini. Perché l’idea di trasformare una persona infelice, intrattabile o ancora peggio abusante in un partner perfetto è un concetto così affascinante per le donne?

Nell’etica giudaico-cristiana è insito il concetto di aiutare quelli che sono meno fortunati di noi, ci insegnano che il nostro dovere sono la compassione e la generosità quando qualcuno ha dei problemi: non giudicare, ma soprattutto aiutare è per noi un obbligo morale. Questi argomenti virtuosi non sono sufficienti a spiegare il bisogno di controllare le altre persone per riuscire a cambiarle, esso nasce da un’infanzia sottoposta a troppe emozioni schiaccianti: paura, rabbia, tensioni insopportabili, senso di colpa e vergogna, pietà per gli altri e per se stessi. Un bambino verrebbe distrutto in un ambiente di questo tipo se non sviluppa delle difese. I due meccanismi di autoprotezione più potenti sono la negazione e il controllo. Il meccanismo della negazione è molto utile per ignorare verità che non vogliamo prendere in considerazione, questo tipo di rifiuto della realtà avviene  su due livelli:  su quello di ciò che effettivamente accade e su quello dei sentimenti.

Facciamo un esempio per capire a livello pratico cosa succede in queste situazioni e quali potrebbero essere le ripercussioni sull’individuo.

Una bambina con un padre che rincasa tardi la sera o non rincasa affatto a causa di una relazione extraconiugale dice a se stessa, oppure le viene detto da un altro membro della famiglia, che il motivo è il lavoro. In questo modo, la bambina nega che tra i genitori ci siano problemi ed evita il senso di paura per la stabilità della propria famiglia e del proprio benessere personale che, altrimenti, sarebbe inevitabile. Inoltre, al posto della rabbia e della vergogna che sperimenterebbe affrontando la realtà, prova compassione se pensa che il padre lavori duramente, negando così sia la realtà che i suoi sentimenti: si crea una fantasia che rende la vita più facile. Così facendo, diventerà sempre più abile nel costruire questo tipo di difesa contro il dolore, ma allo stesso tempo perderà la capacità di fare scelte libere ed autentiche. Il meccanismo di difesa agisce automaticamente nell’inconscio, in una famiglia problematica spesso c’è una negazione condivisa della realtà, indipendentemente dalla gravità dei problemi, se esso non si attivasse il nucleo ne risentirebbe a livello psichico.

Inoltre, se un membro provasse ad opporsi a ciò, mostrando le cose per come realmente sono, probabilmente gli altri componenti gli si opporrebbero con fortissima resistenza e, talvolta, anche con la sua emarginazione. Il meccanismo della negazione porta ad evitare di attuare una scelta consapevole per adattarsi alla realtà e a sottrarsi dal sentire le proprie emozioni: tutto si limita ad “accadere” quando l’ego, nella sua lotta per proteggersi da conflitti, responsabilità e timori schiaccianti, cancella le intuizioni e le informazioni troppo dolorose e inopportune. Questo meccanismo porta anche ad evitare chiunque o qualsiasi cosa minacci di smantellare quella difesa contro il dolore, non si vuole provare senso di abbandono, panico, disperazione, risentimento e disgusto perché sono le emozioni tragiche e conflittuali che si dovrebbero affrontare se ci si permettesse di provare qualche sentimento. Meglio non provare nulla del tutto, da qui nasce il bisogno di controllare persone ed eventi, quel senso di sicurezza che genera conduce a una relativa tranquillità perché non ci si aspetta sorprese. E’ inevitabile che i bambini si assumano la responsabilità dei problemi familiari perché con la loro fantasia di onnipotenza credono sia di essere la causa della situazione e sia di avere il potere di cambiarla, in meglio o in peggio. Un comportamento disinteressato, come aiutare sempre gli altri, in realtà potrebbe essere un tentativo di controllare la situazione e non una propensione altruistica, dietro questa “bontà” possono esserci diverse motivazioni. Credere di riuscire a controllare una persona, ad esempio consigliandola o cercando di convincerla di qualcosa, può essere un modo per contare di riuscire a fare lo stesso con i propri sentimenti, quando la propria vita si intreccerà alla sua. Ovviamente, più ci si sforza di controllare e meno ci si riesce, ma non si può smettere e talvolta i meccanismi che si innescano sono simili a quelli della crisi di astinenza.

La negazione alimenta il bisogno di controllare e l’inevitabile insuccesso del controllo alimenta il bisogno di negazione, si cercheranno sempre situazioni che richiedono questo atteggiamento per essere gestite, è una sorta di circolo vizioso.

Quando da bambini non ci si permette di provare emozioni forti, da adulti i sentimenti profondi spaventeranno, negazione e controllo mettono a tacere il sistema di allarme emotivo. I modi in cui i bambini cercano di “salvare” la loro famiglia sono tre: rendersi invisibili, ovvero non chiedere mai nulla e non dare fastidio per non aggiungere altro stress; diventare cattivi, essere i ribelli o i capri espiatori delle sofferenze famigliari così che l’attenzione si sposti su di loro invece che sul problema reale da risolvere ed, infine, essere bravi ovvero dimostrarsi sempre il più perfetti possibile, soprattutto all’esterno, di fronte al pubblico.

La favola della Bella e la Bestia sembra voler confermare che con la forza dell’amore si possa cambiare un uomo, e quindi negazione e contrasto sono degli strumenti che permettono di raggiungere la felicità: Belle, amando ciecamente il mostro (negazione), sembra avere il potere di cambiarlo (controllo). Tale interpretazione appare corretta perché si adatta ai ruoli sessuali che la nostra cultura stabilisce, tuttavia, se questo racconto resiste nei secoli non è perché rinforza gli stereotipi culturali di una determinata epoca, ma perché incarna una legge metafisica di vitale importanza che fa riflettere su come vivere bene e con saggezza. E’ come se la favola contenesse una mappa segreta fatta di simboli che se si è abbastanza svegli da riuscire a leggere, cercherà almeno di spiegarci il segreto per ottenere una serenità interiore. Il suo significato centrale è l’accettazione, cioè antitesi di negazione e controllo. Accettazione è disponibilità a riconoscere la realtà per quello che è e a permetterle di esistere senza bisogno di cambiarla.

Questa è la chiave per una felicità che non viene dalla pretesa di manipolare le cose e le persone che ci circondano ma dalla capacità di sviluppare una pace interiore, anche di fronte alle provocazioni e alle difficoltà.

Nella favola, Belle non aveva alcun bisogno che la Bestia cambiasse, la valutava realisticamente, l’accettava per ciò che era e apprezzava le sue buone qualità.Non aveva cercato di trasformare il mostro in principe, la lezione sta in questo: lasciava libera la Bestia di sviluppare il meglio di se stessa. Per questa sua accettazione, l’essersi ritrovata accanto un principe dimostra simbolicamente che lei aveva ricevuto una grande ricompensa dalla vita. L’accettazione è l’aspetto più profondo dell’amore, alla base del nostro desiderio di voler cambiare l’altro c’è una motivazione egoistica del voler trovare, così, la felicità. Non c’è nulla di male nel desiderio di essere felici, ma mettere la sua realizzazione nelle mani di un’altra persona o di una circostanza esterna a noi significa negare la nostra responsabilità di cambiare in meglio la nostra vita.

Migliorare se stessi, invece, è un lavoro esilarante perché permette di costruirsi una vita soddisfacente per conto proprio, eliminando il risentimento e la frustrazione che si generano quando ci si ostina a non capire che solo l’altro, se vuole, può decidere di cambiare.

Smettere di investire energie nel controllo ed orientarle su se stessi conduce a una reale indipendenza che ci rende capace anche di liberarci di quelle cose della vita che ormai non vanno più[3], non bisogna avere timore ne sentirsi in colpa di lasciar andare qualcosa o qualcuno che, semplicemente, non risuona più con il nostro modo di vivere.

Ogni tanto è bene liberare un po’ di spazio affinché si crei posto per ciò che può farci evolvere interiormente.


Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali

[1] Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista. La prima grande opera del teorico della società liquida, Pgreco Edizioni, Milano, 2017.

[3] R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, 2013.


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