La banalità del mediocre, alcune riflessioni
di Davide Costa
Sono passati diversi anni da quando la filosofa, Hannah Arendt, pubblicò La banalità del male(1) , eppure la forza di alcune sue considerazioni, non ha affatto perso il suo smalto.
<<== dott. Davide Costa Sociologo
Il titolo dell’opera fa, per così dire, da corollario di un vero e proprio paradigma, ossia una lente secondo la quale il male è così connaturato nella società, tanto da essere banale, scontato, ineliminabile, andando ben oltre la mera ipostatizzazione filosofica. Al di là del bene e del male, oggi più di ieri, e forse ancora di più , domani, vi è una nuova(poi non così tanto) forma di banalità, la banalità del mediocre.
Ora la nozione mediocre trova la sua origine, in termini sociologici, nelle cosiddette norme statistiche, ossia strumenti per i quali viene considerato normale ciò che si verifica con una certa frequenza, o più semplicemente, in media. Ciò che è mediamente presente, però, non è necessariamente esaltante e produttivo, eppure è sempre più naturale che tutto sia nella media, al punto tale che il mediocre diventa il genio e il genio viene escluso.
Si tratta di un meccanismo ormai endemico e cronico, che trova il suo locus originario nel concetto di naturalizzazione (2) da parte dell’ordine culturale; la naturalizzazione, così, non solo fa in modo che sia accettabile, ma soprattutto si avvale di un processo, che in realtà è il fondamento dell’accettazione, ossia il nascondimento dell’origine meramente convenzionale della banalità, per farla, invece, inquadrare come normale, naturale.
Così l’ordinario diventa straordinario, e l’eccezionalità scivola in spazi sempre più ristretti, poiché l’ordinario, il mediocre, il rutinario è sempre più obeso. Vi è, però, l’elemento genetico per eccellenza di questa banalizzazione naturalizzata del mediocre, ossia il senso comune, che possiamo definirlo come quel “(…)fondo di evidenze condivise da tutti che assicura, nei limiti di un universo sociale, un consenso primordiale sul senso del mondo, un insieme di luoghi comuni(in senso ampio) tacitamente accettati, che rendono possibili il confronto, il dialogo, la concorrenza, persino il conflitto.”(3) In questo modo, dunque, il mediocre, viene dato per ovvio, per scontato tanto che pur essendo un fatto sociale, ottiene “(…)la stessa ‘naturalità’ del fatto naturale”(4) .
Posta in questi termini la questione diventa annosa, perché? Per via del fatto che la forza del senso comune e del rendere l’ordinario straordinario comporta due conseguenze fondamentali:
1) si riduce sensibilmente l’interesse verso il perseguimento di mete ambiziose, dal momento che i meccanismi imitativi verso la mediocrità sono particolarmente “virulenti”, cioè si trasmettono e replicano molto facilmente;
2) si verifica una sorta di meccanismo, che i sociologi della devianza di matrice integrazionista, definirebbero come l’esclusione dell’eccezione.
Si tratta, a dire il vero, di due problematiche interdipendenti ed interconnesse, poiché entrambe portano al medesimo esito: l’appiattimento presociale, ossia individuale, prima, e poi sociale e dunque collettivo, verso ogni forma di avanzamento o miglioramento.
Potrebbe essere questo il motivo per cui spopolano gli influencer a vantaggio di una buona lezione o lettura di discipline teoretico-riflessive.
La mediocrità è più accessibile, è alla portata di tutti, non richiede sforzi, anzi, è free e light. Heidegger, con la sua filosofia, che ci permettiamo di definire, sociologicamente orientata, ha definito con molta lungimiranza questo topos, parlando del Si(Man) (5), come il luogo in cui “(…) Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è subito dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto per la sua forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale tendenza dell’Esserci(l’individuo): il livellamento di tutte le possibilità di essere”(6) . Il Si heideggeriano è il calderone della medietà e della mediocrità, che porta ad un’ulteriore patologia sociale, ovvero la deresponsabilizzazione (7), e con essa si perde la capacità di percepirsi parte di un noi in un luogo di io.
Così “(…) Ognuno è gli altri e nessuno è se stesso” (8) e ciò che governa ogni azione sono elementi non proprio vantaggiosi: la chiacchiera(gerede), la curiosità(neugier) è l’equivoco(zweideutigkeit) (9) .
• nella chiacchiera si altera il significato primo di ogni concetto e di ogni idea, tanto da rendere completamente diversa la semantica dei termini;
• nella curiosità l’elemento centrale è l’incapacità di riflettere profondamente, una sorta di iperattività basata sul pettegolezzo;
• con l’equivoco ci si convince che tutti possano fare tutto, e ognuno è il migliore, non del soggetto più prossimo di chiunque sia prima e dopo di lui.
Come sfondo a tutto ciò, però, vi è una situazione sociologicamente fondamentale, ovvero il dominio che la mediocrità e/o il Si mediano, rispetto all’eccezione, alla deviazione, al diverso.
Un rapporto di dominio, che in realtà, sottende e mostra, la prevalenza della cultura dominate o d’élite su quella minoritaria o marginale, che ricorre, però, alla cosiddetta violenza simbolica che possiamo definirla come “(…) quella coercizione che si istituisce solo per tramite dell’adesione che il dominato non può mancare di concedere al dominante(quindi al dominio) quando dispone per pensarlo e pensarsi(…) in altri termini quando gli schemi impiegati per percepirsi e valutarsi, o per percepire e valutare i dominanti(…)sono il prodotto delle classificazioni così naturalizzate, di cui il suo essere sociale è il prodotto” (10).
Questa forma di violenza, così, spiega il motivo per cui la mediocrità dilaga, mentre l’eccezionalità è destinata a nascondersi, a fingere di non esserci, per farsi notare di tanto in tanto.
Forse l’invito di Nietzsche per cui sia necessario rifugiarsi nella solitudine (11), potrebbe essere accattivante, ma ciò significherebbe rinunciare al vantaggio che l’eccezione, nonostante gli ostacoli che questa incontra, media: mettere in discussione tutto il sistema della banalità, dell’ordinario, per proporre lo straordinario, per cercare di stimolare l’uomo normale “(…)che non da fastidio a nessuno, che si adegua nelle conversazioni e che è accettato dal suo ambiente medio,(….)-un-individuo psicologicamente mediocre e sociologicamente iper-adattato nella civiltà della banalità,(…), pieno di “maschere mentali” per ogni occasione” (12).
Probabilmente dovremmo prendere esempio dalla nonna, il personaggio principale del film “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek che si definisce “mina vagante” ed avere il coraggio che questo concetto sottende:
“La mina vagante se né andata, così mi chiamavate, pensando che non vi sentissi, ma le mine vaganti servono a portare il disordine a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a sgominare tutto, a cambiare i piani”.
NOTE:
[1] H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1992
[2] M. Benedittis, Sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari, 2013
[3 P. Bourdieu, Mediazioni pascaline, Feltrinelli, Milano, 1998 p. 104
[4] P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza. Fra abitudine e il dubbio, Carocci Editore, Roma, p. 41
[5] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2007
[6] M. Heidegger, op. cit., pp158-159
[7] U. Pagano, L’uomo senza tempo, FrancoAngeli, Milano, 2011
[8] M. Heidegger, op. cit., p.160
[9] M. Heidegger, op. cit.
[10] P. Bourdieu, op. cit., p.179
[11] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Demetra, Firenze, 2017
[12] G. Cicchese e G. Chimirri, Antropologia dei conflitti e relativismo morale, in Elementi di sociologia dei conflitti, a cura di B. M. Bilotta, Cedam, Milano, 2017, p. 209