IL SOCIOLOGO DEVE ESSERE UN “TUTTOLOGO”
di Antonio Sposito
La “tuttologia” e il “tuttologo”
Le tecnologie dell’informazione che consentono a tutti di dissertare su tutto in una dimensione virtuale hanno contribuito a far divenire la “tuttologia” una delle questioni più evidenti della società postmoderna. Il termine “tuttologo” – considerato in accezione negativa – connota un individuo onnisciente, presuntuoso, superficiale, convinto di saper tutto. In esso vi rientrano blogger, opinionisti, politici, i quali in un contesto democratico possono esprimere pareri su qualsiasi argomento anche se con scarse conoscenze e competenze pertinenti.
<<=== Prof. Antonio Sposito
I detrattori della “tuttologia”
Molti detrattori confondono la “tuttologia” superficiale con la “tuttologia” intesa come approccio conoscitivo integrato e critico. Occorre fare chiarezza su questo aspetto. Secondo i negazionisti della “tuttologia” andrebbero considerati tali anche certuni filosofi che, fin dai tempi dell’antica Grecia, hanno tentato di assemblare la molteplicità della realtà in una unità interpretativa fondante, connettendo in un unico quadro conoscitivo la metafisica, i principi morali, politici, scientifici, gnoseologici, religiosi, estetici, persino i sentimenti come l’amore.
Stessa considerazione va fatta sul versante delle scienze fisiche, matematiche e naturalistiche, citando, ad esempio, Albert Einstein e Stephen Hawking (la “teoria del tutto”), i quali hanno cercato di connettere in un unico quadro di riferimento tutti i fenomeni naturali conosciuti. Così come Charles Darwin – che è stato naturalista, antropologo, biologo, geologo – noto per aver formulato la teoria dell’”evoluzione delle specie” per selezione naturale, introducendo la variabilità dei caratteri ereditari in interazione con l’ambiente e il loro differenziarsi attraverso la discendenza da un antenato comune.
Secondo gli antagonisti della “tuttologia” siffatti studiosi erano degli illusi?
La questione è che dalla modernità industriale in poi, per esigenze di “specializzazione”, il sapere originario integrato si è allontanato dalla casa madre unitaria frantumandosi in mille rivoli feticistici, assumendo così una forma funzionale alla “poiesis” (produzione), intesa come “agire strumentale”, settoriale, finalizzato alla creazione di prodotti materiali e immateriali alienati da coloro che li hanno generati. Ciò che è andata persa nel tempo è la “praxis” (prassi) aristotelica, costrutto ripreso poi da Marx e Gramsci, implicante un “agire” disinteressato che inglobi in sé il suo “senso”, coniugata in modo inscindibile con il “theoretikós” (la teoria).
Il vero intellettuale è un “tuttologo”
Il “theoretikós” e la “praxis” rappresentano le stimmate degli “intellettuali tradizionali” non funzionali ai sistemi di potere in cui agiscono.
A tal proposito, in uno dei passi tratti da Quaderni dal carcere, Gramsci illustra l’identità e il ruolo dell’”intellettuale organico” e dell’”intellettuale tradizionale”. Il primo, collegato a gruppi sociali specifici, contribuisce al mantenimento del dominio di una classe egemone o all’emersione di una classe subalterna. Il secondo, può avere in principio relazioni con particolari classi per poi mutare nel tempo in una categoria sociale a se stante: “… che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi indipendentemente dalla lotta dei gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali” (A. Gramsci, Quaderno 11, § 16).
Attualmente nella società postmoderna si sta perdendo il ruolo dell’”intellettuale tradizionale”, il quale, entrando nella storia, sia in grado di esprimere saperi integrati che infrangono i feticismi delle “specializzazioni”.
Il paradosso: tra i detrattori della “tuttologia” vi sono (ahimè) anche alcuni sociologi
Diversi sociologi, anche se non richiesto, si affrettano ansiosamente a chiarire che non sono “tuttologi”.
Questi – affetti probabilmente da “masochismo professionale” esiziale e da “feticismo sociologico” – esibiscono diniego verso l’approccio integrato (qui inteso nelle sue dimensioni macro-meso-micro sociologiche), considerando la Sociologia prevalentemente un sapere tecnico-specialistico.
Perché lo fanno? Per compensare probabilmente un senso di “inferiorità”, forse inconscio, nutrito nei confronti di altre scienze, discipline e professioni da scimmiottare? Perché si illudono di trovare più facilmente lavoro?
A costoro voglio ricordare che il sociologo non è un tecnico, né un praticone, ma è un produttore di conoscenze sociologiche che forniscano una visione di insieme della realtà costruita attraverso le relazioni sociali, le quali conoscenze devono costituire il patrimonio civico e culturale di tutti i cittadini. Questi sociologi detrattori non si rendono conto di negare così l’identità storica ed epistemologica della Sociologia, la sua dimensione pubblica, di abortire se stessi come intellettuali, di rinunciare anche alla responsabilità morale di condurre tale processo educativo, il quale giustifica la funzione sociale e politica degli stessi sociologi.
La Sociologia è la scienza del “tutto” sociale
Sarebbe sufficiente ricordare ancora ai sociologi negazionisti del “tutto” che uno dei costrutti portanti della disciplina sociologica, ossia, il “sistema sociale”, definisce un insieme di parti differenti e interdipendenti che contribuiscono al suo funzionamento proprio come un “tutto”. Tanto è vero che un “fatto sociale” non può essere spiegato soltanto in sé, ma va letto e interpretato in maniera contestualizzata.
Se vi fosse un ulteriore bisogno di chiarimento sulla “vexata quaestio”, la conferma che la Sociologia – e più in generale le Scienze Sociali – è la scienza del “tutto” collettivo, la forniscono anche i Piani di Studio per il conseguimento del diploma di laurea attinente, delineati dai diversi dipartimenti universitari. Non a caso occorre sostenere esami specifici inerenti non solo alle numerose branche della Sociologia ma anche alla psicologia sociale, alla storia contemporanea, all’antropologia culturale, all’economia politica, alla statistica, all’etica e alla bioetica, alle scienze politiche, alla filosofia, alla comunicazione e ai media, ecc.
La Sociologia, o meglio le Scienze sociali, nascono plurime e, al contempo, unificanti.
Il sociologo, dunque, non si distingue a valle per ciò che fa ma a monte per la sua “forma mentis”, per come osserva in modalità connessionale la realtà. Le diverse declinazioni della professionalità del sociologo vanno intese soltanto come variazioni sul tema. Il problema non è, quindi, la “specializzazione” ma sacrificare, in nome di questa le fondanti conoscenze sociologiche di base (il “theoretikós”).
Il paradosso per il sociologo è diventare come alcuni medici di alta e raffinata “specializzazione” che magari hanno dimenticato come si cura un raffreddore, oppure come un matematico che genera equazioni fondamentali ma che non sa più calcolare quanto fa 2+2.
È proprio questo che noi sociologi vogliamo diventare?
Avete mai sentito parlare di pensiero critico?
Proviamo allora da sociologi a fornire ai cittadini, grazie alla “tuttologia” sociologica critica, la capacità di leggere la realtà sociale in modo integrato (il “theoretikós”), concretando, all’interno della vita quotidiana, un “agire sociale” più consapevole (la “praxis”). Magari contribuiremo così a trasfor-mare anche il presente e il futuro di una società schizofrenica, dissociata, feticista, la quale scambiando la parte per il “tutto” autoproduce masochisticamente quel disagio diffuso e multiforme che la investe.