IL “GRANDE BALZO IN AVANTI” VERSO UN’AGILITA’DINAMICA
In questi giorni capita spesso di sentir parlare delle difficoltà riscontrate nel riadattare le prassi lavorative all’attuale situazione creatasi in seguito al continuo avanzare del Coronavirus. Questa situazione di disagio è avvertita da molti individui che costituiscono la struttura organizzativa dei diversi uffici e settori distribuiti nel panorama italiano, i quali non sempre sono tutti d’accordo sul da farsi e, a volte, oppongono resistenza al dover modificare ancora una volta le proprie abitudini.
Con il DPCM 11 marzo 2020 lo Smart Working diventa modalità “ordinaria” di lavoro: fatta eccezione per i settori che svolgono attività essenziali, l’unica cosa utile è restare a casa per non mettere in pericolo se stessi e gli altri.
Prima di iniziare a ragionare in termini organizzativi è opportuno, infatti, ragionare in termini sanitari, in questa condizione di emergenza adottare il lavoro agile è un obbligo giuridico che prescinde dalla volontà di datore di lavoro e dipendenti.
Trovandoci in una situazione più che eccezionale, è necessario stabilire un elenco delle priorità e rimandare tutto ciò che non rientra nella categoria di urgenza poiché l’unico diritto che la Costituzione italiana definisce in maniera chiara è quello alla salute.
Le attività lavorative da svolgere in presenza restano quelle indifferibili e non trasformabili, per le quali potrebbe andar bene la rotazione e il far utilizzare i giorni di ferie o malattia al personale mantenuto in servizio, o ancora ridurre l’orario di lavoro ma sempre tenendo bene a mente questo: il diritto alla vita delle persone prevale su tutto perché il problema è che il contagio del virus non dipende da quante ore si passa lavorando ma dal semplice fatto che si esca di casa. Il lavoro agile come modalità volta a favorire l’articolazione flessibile in termini di tempo e luogo del lavoro subordinato e come strumento per aumentare la competitività aziendale viene definito dalla Legge 81/2017.
Se consideriamo la totalità delle aziende pubbliche e private italiane, passato questo momento critico, lo sforzo che si farà oggi non sarà fine a se stesso ma porterà enormi benefici all’interno del sistema paese, attuando quello che potremmo definire come un vero e proprio salto evolutivo verso un nuovo paradigma organizzativo.
Il DPCM si spiega espressamente e non va regolamentato, è il lavoro che va riorganizzato rimettendo in discussione tutti i vincoli tradizionali relativi agli strumenti, ai tempi e ai luoghi, operazione che sarebbe stato opportuno fare già da molto tempo prima ma che solo adesso si è imposta portando alla luce le diverse criticità. A causa della pandemia in atto in questo momento storico è palese il ritardo nell’aggiornamento professionale, purtroppo il susseguirsi frenetico degli eventi ha fatto trovare impreparato, a volte anche a livello di flessibilità mentale, gran parte del mondo del lavoro, forse in maniera un po’ più accentuata la pubblica amministrazione in generale e molte amministrazioni locali, mettendo alla prova la capacità dirigenziale di saper cogliere lo spirito delle nuove norme nell’esercizio del coordinamento.
In questa riflessione metodologica non si può prescindere dall’interpretazione che la Sociologia da di Organizzazione come entità sociale caratterizzata da un processo di azioni e decisioni intenzionali e con razionalità limitata, che persegue uno o più obiettivi differenziando ed integrando le attività volte a raggiungerli.
All’interno dell’organizzazione è possibile riconoscere ruoli distinti e un sistema di autorità decisionale da essi riconosciuto e in interazione dinamica con l’ambiente esterno, che può influenzarne il comportamento.
Ogni organizzazione ha natura sociale, cioè è costituita da persone in relazione reciproca fra loro ed è un processo in divenire in cui esistono due assetti: uno statico e chiuso rispetto all’ambiente, rappresentato dalle strutture e dalle attività collettive volte a garantire la sopravvivenza e uno dinamico ed aperto all’esterno, costituito dai processi intenzionali di decisione e di azioni volte ad acquisire risorse materiali.
Nell’analizzare un’organizzazione è possibile individuare tre livelli:
1) micro, relativo al comportamento delle persone all’interno del contesto;
2) meso, che si riferisce a strutture e processi come ad esempio la gerarchia o l’autorità;
3) macro, concentrato sul sistema di relazioni con l’esterno.
All’interno di una organizzazione, la divisione del lavoro risulta dalla differenziazione dei compiti in base ai risultati attesi, ad essa si affianca un coordinamento delle persone e delle risorse attraverso regole, programmi operativi ed integrazione reciproca fra le parti. In particolare, il coordinamento è importante per finalizzare i comportamenti verso gli obiettivi in modo da raggiungerli attraverso la cooperazione di tutte le unità organizzative.
Secondo il modello di Henry Mintzberg è possibile individuare 5 tipologie di coordinamento:
1) Supervisione diretta, la più semplice, tipica delle piccole organizzazioni suddivise gerarchicamente, in cui un manager controlla e dirige i subordinati. Quando l’organizzazione inizia a crescere, questa modalità di coordinamento non è più sufficiente e bisogna passare alla seconda tipologia;
2) Standardizzazione dei processi lavorativi, attraverso l’utilizzo di procedure e norme programmate dalla tecnostruttura, cioè da un gruppo di professionisti esterni che definiscono procedure ripetitive. Una linea intermedia, che include uno staff di supporto, collega la tecnostruttura col nucleo operativo. La comunicazione è di tipo verticale e direttamente controllata. Questa modalità è diffusa soprattutto all’interno di piccole realtà che necessitano solo in caso eccezionale di supervisione; 3) Standardizzazione degli output, o divisionale, diffusa nelle grandi organizzazioni in cui la modalità di raggiungimento degli obiettivi è libera e il controllo è esercitato solo sul risultato finale e non sulle singole persone. Come tipologia di organizzazione può essere sovrapposta ad altre, perché presenta molta interdipendenza interna ma poca verso le divisioni esterne;
4) Standardizzazione delle capacità, in cui vengono meno gerarchia e burocrazia e il libero professionista lavora secondo le proprie capacità, in autonomia e mantenendo il controllo delle attività. E’ diffusa dove si opera a diretto contatto col pubblico e in base agli utenti si organizza il lavoro;
5) Mutuo adattamento, o adhocrazia in cui il controllo del lavoro appartiene a chi lo esegue, quindi il coordinamento non è gerarchico e la comunicazione interpersonale è di tipo informale ed orizzontale.
Teoricamente Mintzberg sostiene che la tipologia vada scelta in base alle caratteristiche situazionali organizzative e a quelle ambientali-contingenti, ovviamente in coerenza interna ed esterna con entrambi questi fattori.
Praticamente invece, le organizzazioni essendo nella realtà più complesse, possono presentare più forme di coordinamento.
Progettare lo Smart Working in una situazione di emergenza, e quindi nell’immediato, vuol dire apportare innovazione in continua evoluzione sui livelli tecnologico, logistico e dirigenziale, individuando nuove soluzioni e ripensando le tradizionali pratiche di organizzazione professionale. Attualmente il lavoro agile deve essere facilitato il più possibile e senza alcun tipo di resistenza, con la consapevolezza che ogni cambiamento porta con sé, almeno inizialmente, delle difficoltà. Si potrebbe parlare di organizzazione sostenibile, iniziare ad entrare nell’ottica in cui la fase di sperimentazione non esiste più ed impegnarsi nell’apportare il proprio contributo in maniera differenziata, man mano che si manifestano delle problematicità, accompagnandole per risolverle e collaborando affinché si possano rimuovere tutti gli ostacoli alla sua accettazione come forma normale di lavoro.
Lo smart Working si differenzia dal telelavoro, il quale sposta la sede di lavoro nell’abitazione del dipendente, vincolandolo a una postazione fissa e agli stessi orari d’ufficio. Nel lavoro agile, invece, non si stabilisce una postazione fissa ma la possibilità di svolgere il lavoro in parte all’interno dell’azienda ed in parte all’esterno, da qualsiasi luogo. Su questo punto è possibile notare un cambiamento di paradigma sulla verifica dei risultati perché il rapporto di lavoro non si fonda più sulla diffidenza tra le parti e sul controllo diretto, ma sulla fiducia reciproca e su un controllo basato su autonomia e responsabilizzazione.
La possibilità di mettere in condizione il dipendente di lavorare autonomamente permette di continuare ad evadere la mole di lavoro col presupposto, per chi dirige, di definire preventivamente ruoli, ambiti, compiti ed obiettivi.
Non meno importante l’attivazione di sistemi di comunicazione, reportistica delle attività svolte e monitoraggio, il quale può essere utile per verificare le competenze nascoste dei lavoratori e valorizzarle per svolgere ulteriori attività.
Spostare il luogo di lavoro all’esterno richiede la capacità di ricrearne alcune condizioni e di imparare a fare a meno di altre, ad esempio allestire una postazione lavorativa in casa piuttosto che utilizzare un internet point o una postazione di coworking (impensabile ai tempi del coronavirus!) potrebbe incidere sulla produttività perché ci si può organizzare nella maniera più congeniale per poter lavorare in tranquillità ed autonomia.
Il passaggio da un tipo di comunicazione faccia a faccia a una mediata dalla tecnologia può essere un modo per promuovere lo sviluppo delle conoscenze digitali anche da parte dei lavoratori meno pratici, abbattendo le differenze.
Utilizzando gli strumenti informatici gratuiti come i programmi per videoconferenze o le chat è possibile impegnare anche quei lavoratori che non possono svolgere mansioni ma si trovano lo stesso a casa in corsi di formazione o aggiornamento a distanza. Trasformare la collaborazione svolta in prossimità fisica a quella realizzata attraverso la creazione di gruppi virtuali permette ugualmente di stabilire relazioni profonde perché ci si “vede” più spesso e forse più a lungo di quanto non si faccia in una normale giornata di lavoro in sede, può facilitare la flessibilità organizzativa evidenziando possibilità di collaborazione fra diverse competenze e potrebbe contrastare l’assenteismo. Possiamo notare che lavorando in maniera Smart è possibile ugualmente soddisfare dei requisiti di funzionamento: efficacia, cioè la capacità di realizzare i fini; efficienza come rapporto tra questi ed i mezzi impiegati in termini di produttività per ottenerli; economicità intesa come utilizzo efficiente delle risorse per un raggiungimento efficace dei risultati ed infine qualità, che indica il confronto fra le caratteristiche di una divisione e il risultato atteso.
Si possono anche raggiungere dei risultati di performance: affidabilità come capacità di gestire con continuità ed efficienza le condizioni di lavoro; resilienza come capacità di rispondere a qualsiasi evento critico esterno minimizzando le conseguenze e legittimità sociale come capacità di adattarsi alle pressioni dell’ambiente esterno.
Infine, ci sono delle attività che, proprio perché si sta ragionando in ottica di emergenza, possono essere svolte da casa portandosi fisicamente dietro dei fascicoli laddove sia troppo difficile attrezzarsi con strumenti tecnologici.
L’intelligenza, prima che artificiale è una caratteristica umana e va usata e stimolata soprattutto nei momenti più critici, perché se è vero che possono sorgere dei problemi nello stravolgere l’ambiente di lavoro, è ancora più vero che qualsiasi complicazione possa manifestarsi, è sempre meno grave della possibilità di ritrovarsi in terapia intensiva collegati a un ventilatore. Ed anche in questa sede, non si ripeterà mai abbastanza, noi che possiamo, restiamo a casa (potendo lavorare ci si annoierà di meno!).
Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa specialista
in Organizzazione e Relazioni Sociali.