I FURBETTI DEL CARTELLINO, MATTEO RENZI E IL POST SINDACALISMO ITALIANO

 Latella 19 gennaio 2016 1Gli italiani, loro malgrado, sono costretti ad assistere ad un dibattito stucchevole sul recente provvedimento governativo in materia di pubblica amministrazione e segnatamente all’assenteismo dei dipendenti di questo comparto.   Destra e sinistra si contendono la paternità della norma che prevede, tra l’altro, il licenziamento dei cosiddetti “furbetti del cartellino” e del dirigente che non dovesse assumere questo provvedimento.  Salomonicamente hanno ragione sia Renato Brunetta che Matteo Renzi: il primo per averlo previsto nel Decreto lgs 150/2009 (che modificava il D.L. 165/2001) il secondo per aver fissato paletti talmente stretti da impedire qualsiasi slalom a quanti prima peccano poi pretendono l’applicazione della formula “tengo famiglia”. Insomma, chiedono l’amnistia.Il nostro intervento non riguarda l’assegnazione della palma di chi per primo abbia affrontato il problema, quanto tentare di capire perché le precedenti leggi non abbiano prodotto effetti. L’analisi del sistema burocratico ereditato dall’Italia repubblicana evidenzia, con situazioni diverse rispetto alle aree geografiche della penisola, la presenza di un sistema che ha subordinato il dovere agli interessi di casta e ai benefici personali. La riforma burocratica è stato un cavallo di battaglia dei governi della Prima e Seconda Repubblica. E lo è anche nell’attuale.  Fino ad oggi però i risultati sono stati scarsi o, se vogliamo, fallimentari. Perché?  Perché la burocrazia è stata sempre parte di un sistema in cui politica e sindacato, pur di aumentare o consolidare prestigio e consenso, sono stati dei tenaci guardiani dello stesso.    L’aspirazione del posto fisso, sogno di tutte le generazioni italiane, è stato ben rappresentato da Checco Zalone nel suo film “Quo vado”. Posto fisso che in passato si conquistava attraverso un concorso, per chiamata diretta o come appartenente ad una delle tante categorie protette.

Tra lottizzazioni e raccomandazioni solo poche centinaia di cervelloni riuscivano a far parte del mondo degli statali, dei parastatali, dei dipendenti degli ospedali, delle Asl, degli enti locali o di uno dei tanti carrozzoni gestiti in modo consociativo da politica e sindacato.  Quest’ultimo, nel corso del Novecento, senza ombra di dubbio, è stato lo strumento per la nascita e l’affermarsi dello stato sociale, nonché la guida per le grandi conquiste del mondo del lavoro, ma, al tempo stesso, si è fatto integrare nella gestione del potere e lo ha amministrato non sempre nell’interesse dei lavoratori. Al punto da perdere di vista i cambiamenti della società e del mondo del lavoro. Il sindacato si è trasformato in casta e nel difendere gli interessi consolidati non si è accorto dell’agonia e della fine della società dei produttori e la conseguente nascita di quella dei consumatori.  Tra presunzione e miopia non si è tenuto conto del fatto che la globalizzazione richiedeva nuove strategie operative soprattutto sul fronte della rappresentanza e delle tutele. Niente flessibilità, solo rigidità, abbarbicamento al potere, difeso con l’arma dello sciopero e della mobilitazione. Il sindacato è rimasto così ingessato nello schema marxista della lotta per la conquista del potere ignorando la trasformazione del capitalismo e, soprattutto, la delocalizzazione dei sistemi produttivi. L’eccessiva sindacalizzazione delle fabbriche e il costo della manodopera sono state una delle cause (forse la più importante) della desertificazione industriale che ha costretto anche le nostre storiche multinazionali ad investire in altre aree del pianeta, le cosiddette terre vergini, con manodopera a basso costo, prive di sindacalizzazione e con scarsissime tutele sociali.

Di fronte a questo disegno, le grandi confederazioni si sono limitate ad osservare gli effetti della globalizzazione invece di pensare a diversificate strategie di glocalizzazione (termine tanto caro a Zygmunt Bauman). L’ impotenza del sindacato ha provocato così la perdita di fiducia dei lavoratori: di quelli rimasti in fabbrica, degli espulsi dal sistema produttivo, dei parcheggiati nel bacino degli ammortizzatori sociali e, soprattutto, di quanti non avevano mai avuto un posto di lavoro. Nel caveau del sindacato, con un bilancio da multinazionale, sono rimaste altre azioni privilegiate: i pensionati e il pubblico impiego. Due fronti che sono stati scardinati dalla politica del Governo in carica che ha assunto importanti provvedimenti (dagli ottanta euro a pensionati e dipendenti pubblici al Jobs act: tanto per citarne alcuni) che hanno ulteriormente limitato il potere del sindacato. Le stesse critiche al provvedimento sulla riforma della Pubblica Amministrazione confermano questo senso di debolezza.

Rifiutarsi di capire la grande rivoluzione che sta interessando il mondo del lavoro è come fare harakiri.  I privilegi nel pubblico impiego stanno per finire. Restano i modelli del passato quando sindacato, dirigenti, politici e amministratori, ognuno con motivazioni diverse, hanno garantito certi privilegi a chi lo stipendio non se l’è mai guadagnato.  Attenzione però a non ricadere negli errori che hanno caratterizzato la società industriale italiana.   Perché il privilegio non è solo quello di farsi badgiare il cartellino, ma è anche attestazione della presenza attraverso altri sistemi e con la complicità delle gerarchie interne a uffici e servizi. Azioni benedette dal sistema politico.   Il privilegio, sinonimo di reato penale, è anche quando agli stessi fannulloni o assenteisti viene liquidato straordinario mai fatto; quello delle missioni fittizie, dello stipendio sproporzionato rispetto alla quantità e alla qualità della prestazione.  Dunque, bene ha fatto il Governo a prevedere la corresponsabilità dei dirigenti i quali non hanno più alibi e, finalmente, se lo vogliono, possono affrancarsi dalla tutela dei padrini della politica e dalle pressioni sindacali.  Attendiamo i primi dati per capire se il recente provvedimento produrrà effetti rilevanti, oppure se le ultime norme troveranno posto nel grande cimitero in cui giacciono centinaia di leggi mai interamente applicate.

Antonio Latella – giornalista professionista e sociologo ( Presidente del Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)


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