Formazione e partecipazione nell’industria 4.0
di Patrizio Paolinelli
“Per far funzionare la fabbrica del futuro saranno sufficienti un uomo e un cane. Il cane farà la guardia. E l’uomo? Darà da mangiare al cane”.
<<== Prof. Patrizio Paolinelli
Di certo ad oggi sappiamo che: 1) nella manifattura gli esseri umani non possono essere completamente sostituiti dalle macchine; 2) l’automazione brucia più posti di lavoro di quanti riesca a crearne; 3) la pandemia in corso ha accelerato la digitalizzazione dei processi produttivi. Se lo stato dell’arte è questo si tratta allora di verificare come l’industria 4.0 si sta confrontando con una dimensione produttiva in cui il lavoro tende a separarsi dai lavoratori.
La parola d’ordine di sindacalisti e industriali è: formazione e partecipazione. Prova ne siano una serie di accordi che certificano la comune volontà di affrontare due problemi: quello della riqualificazione del personale per rendere le imprese competitive; quello della disoccupazione tecnologica. Naturalmente c’è ancora molta strada da fare per giungere a un modello di partecipazione del sindacato simile a quello del comparto metalmeccanico tedesco dove in diverse realtà i rappresentanti dei lavoratori siedono nel consiglio di amministrazione dell’azienda. Al momento la strada è stata aperta. Il futuro ci dirà se continuerà a essere percorsa.
Limitandoci a illustrare alcuni dei casi maggiormente significativi, il primo esempio di relazione industriale virtuosa in tema di formazione è senz’altro il Contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici firmato il 26 novembre 2016. Con questo accordo – che coinvolge circa 57mila aziende e quasi un milione e mezzo di lavoratori – si riconosce “la necessità che le imprese e i lavoratori investano nell’aggiornamento delle competenze e conoscenze quale fattore strategico per affrontare i cambiamenti tecnologici, organizzativi e di mercato”. Le stesse associazioni imprenditoriali firmatarie hanno sottolineato come tale intesa con le organizzazioni sindacali rappresenti “una spinta al cambiamento e all’innovazione necessari sia per la crescita e la competitività delle imprese che per favorire l’occupabilità delle persone”.
Mosso dalla medesima esigenza di riqualificare il personale e salvaguardare posti di lavoro è il “Patto della Fabbrica” sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 9 marzo 2018. Con questo accordo “Le Parti condividono la necessità di sviluppare la formazione continua e attivarsi nei confronti del Governo perché, anche attraverso i fondi interprofessionali, si possa avviare un grande piano di formazione, incentivato fiscalmente, per adeguare ed accrescere le competenze di chi è attualmente al lavoro, a partire dai livelli più bassi, per ridurre e anticipare le ricadute che l’innovazione tecnologica può avere sull’occupazione”.
Una novità interessante è il “Contratto di espansione”. Istituito in via sperimentale per due anni col Decreto crescita del 2019, poi convertito dalla legge 58/2019, è destinato alle imprese con più di mille dipendenti. Si tratta di una nuova tipologia di contratto collettivo aziendale (da ratificare poi in sede governativa) riservato alle imprese in fase di riorganizzazione tecnologica e che per questo motivo hanno urgente necessità di operare la riqualificazione del proprio personale. Lo strumento principale su cui tali contratti possono far leva è quello della riconversione professionale del personale attraverso piani formativi a carico dell’azienda e la programmazione di nuove assunzioni. Grazie a un pacchetto di risorse finanziarie pubbliche stanziate ad hoc se occorre gli accordi possono prevedere riduzioni dell’orario per gli addetti in determinati settori della produzione o piani di prepensionamento per le professionalità non riconvertibili. Per il momento le aziende che hanno beneficiato del “Contratto di espansione” sono Tim e Ericsson. Attualmente tale tipo di contratto è a corto di fondi e, se sarà rifinanziato, potrebbe rappresentare un’opportunità anche per la manifattura.
Un’ultima segnalazione sul fronte della formazione. Il 9 luglio scorso le parti firmatarie del CCNL chimico-farmaceutico (Federchimica, Farmindustria, FILCTEM-CGIL, FEMCA-CISL e UILTEC-UIL) hanno sottoscritto l’accordo programmatico “F.O.R. Working (Flessibilità Obiettivi Risultati)” con l’obiettivo di definire attraverso la contrattazione aziendale nuovi strumenti per la gestione dei cambiamenti organizzativi connessi alla trasformazione digitale del lavoro. Tema emerso in tutta la sua portata a causa della pandemia da Covid-19 e che ha reso necessario l’uso su vasta scala del lavoro agile.
Con quest’accordo si prefigura la nascita di una “modalità aggiuntiva ed evoluta di Smart Working: il F.O.R. WORKING”, i cui aspetti innovativi dovranno essere “la flessibilità, la gestione dei tempi e dei luoghi, la definizione e il raggiungimento di obiettivi condivisi e i risultati realizzati garantendo e migliorando l’efficienza organizzativa, i livelli di produttività, la salute e la sicurezza”. A tal fine le parti firmatarie si sono impegnate a definire entro dicembre di quest’anno una serie di linee-guida. Tra le quali spicca quella di “individuare un percorso adeguato di formazione delle competenze, ad esempio sui tool digitali e sulle smart skills, rivolto a manager e collaboratori”.
Nella fabbrica 4.0 i processi produttivi connessi con la robotica, l’intelligenza artificiale e l’Internet delle cose comportano necessariamente nuove modalità di coinvolgimento del sindacato. Va detto che nel settore manifatturiero esistono diversi esempi di sistemi partecipativi ben strutturati grazie ai quali le rappresentanze dei lavoratori hanno la possibilità di andare oltre il semplice momento informativo sulle strategie aziendali, arrivando a condividere con il management alcuni passaggi chiave per orientare le successive scelte gestionali. Valga per tutti il contratto nazionale di lavoro del Gruppo FCA-CNH-Ferrari, firmato l’11 marzo 2019, dove sin dalle premesse si afferma che le parti firmatarie: “individuano il metodo partecipativo quale strumento efficace per trovare soluzioni coerenti con gli obiettivi condivisi di tutela e coinvolgimento dei lavoratori, miglioramento delle loro condizioni e tutela della competitività dell’Azienda”.
Un importante momento di partecipazione è dato dall’istituzione della Commissione Organizzazione e Sistemi di Produzione a livello di stabilimento. Tale Commissione ha fra le sue competenze quella di esaminare le “eventuali problematiche connesse all’avviamento dei nuovi prodotti, con riferimento agli interventi tecnologici e organizzativi, nonché alle iniziative di formazione ad essi collegate”. Inoltre, sempre a livello di stabilimento produttivo (in questo caso con oltre 1.500 dipendenti), la Commissione WCM ed efficienza di plant (WCM sta per World Class Manifacturing e costituisce unametodologia internazionale delle principali aziende manifatturiere per misurare i costi di produzione) dovrà occuparsi, tra l’altro, di analizzare i dati forniti dall’Azienda rispetto agli indicatori WCM e ai suoi riflessi sulla retribuzione di produttività.
Il nuovo contratto collettivo del gruppo FCA prevede che: “per garantire la massima efficacia delle attività della Commissione, l’azienda predisporrà per i componenti della stessa momenti formativi volti a migliorare la conoscenza e la comprensione del sistema di indicatori a vista in uso nel plant”. In altri termini, è l’azienda che si fa carico di spiegare ai propri dipendenti i meccanismi decisionali (gli indicatori WCM sono quasi tutti costruiti intorno ad algoritmi) che stanno dietro all’assetto organizzativo di un determinato stabilimento, per poi affrontare in sede paritetica una loro eventuale revisione.
L’esempio forse più innovativo nella direzione del cambiamento partecipato proviene dal Contratto collettivo nazionale 2019-2022 del settore chimico. Contratto sottoscritto il 19 luglio 2018, coinvolge oltre 2mila imprese e circa 400mila dipendenti. All’art. 51 si prevede nelle aziende che lo applicano l’attivazione periodica di due diversi moduli formativi a carico della parte datoriale: il primo a favore dei rappresentanti sindacali aziendali e dei “manager delle diverse funzioni”, per diffondere la “cultura delle relazioni industriali”; il secondo a favore dei rappresentanti sindacali eletti dai lavoratori, “finalizzato a migliorare il processo di conoscenza delle RSU verso le tematiche aziendali necessarie per l’esercizio del proprio ruolo quali, a titolo indicativo, il business, l’organizzazione e la cultura aziendale”.
Se nei grandi gruppi industriali le relazioni sindacali partecipative registrano evoluzioni positive nella maggior parte delle altre imprese segnano il passo. In un panorama produttivo come quello italiano, formato in misura preponderante da piccole, medie e piccolissime imprese, gli orizzonti dell’era digitale si fermano sulla soglia dei bilanci da chiudere in attivo. D’altra parte, in molti casi le aziende non sono sicure di sopravvivere agli scossoni dei mercati provocati da crisi che si susseguono in media ogni 10-15 anni. Per molte imprese di modeste dimensioni l’automazione è una strategia di corto raggio che ha come principale, se non unico obiettivo, l’abbattimento dei costi di produzione. A cominciare dal costo del lavoro. E spesso gli investimenti in una nuova tecnologia sono possibili solo grazie al sostegno economico dello Stato. Si viene così a creare una situazione paradossale: grazie al contributo pubblico molte aziende sono messe in condizione di acquistare macchine che potenzialmente creano le condizioni per l’espulsione di forza-lavoro dal ciclo produttivo.
Anche per contenere circuiti viziosi come questo è stato varato il “Piano Nazionale Industria 4.0” contenuto nella legge 27 dicembre 2017, n. 205. Tale Piano prevede numerosi incentivi fiscali a favore delle imprese che investono in nuove tecnologie e ha stanziato un credito d’imposta per le aziende “che svolgano attività di formazione per acquisire o consolidare le conoscenze” delle tecnologie stesse. Purtroppo l’esperienza dimostra che l’attività di formazione svolta a livello aziendale spesso non basta a scongiurare il licenziamento di una parte del personale non riconvertibile in altre professionalità.
La formazione dei lavoratori e la partecipazione del sindacato alla gestione della transizione digitale sembrano viaggiare di pari passo. Permangono tuttavia alcuni nodi critici che restano da sciogliere affinché il viaggio continui. Primo nodo critico: l’attuale ritmo di sviluppo della tecno-scienza non rende inverosimile uno scenario secondo il quale in tempi relativamente brevi gran parte della forza-lavoro oggi occupata non sarà più necessaria. Secondo De Masi entro il 2025 “l’effetto congiunto di legge di Moore, riconoscimento vocale, nanotecnologie e robotica, causerà un’ulteriore jobless growth con la perdita del 60% degli attuali posti di lavoro”. Si tratta forse di una stima troppo alta in un periodo così breve, ma la tendenza è questa.
Secondo nodo critico: se al momento la manifattura non può fare a meno di una consistente presenza di lavoratori (seppur parecchio ridotta rispetto al passato), non è detto che prima o poi il sogno di molti imprenditori di possedere una fabbrica completamente automatizzata non si realizzi. Magari con sostanziosi contributi pubblici. E qui si apre il capitolo sul ruolo dello Stato rispetto alla disoccupazione tecnologica e alla disoccupazione tout-court. La ventennale fase di stagnazione economica del nostro Paese, le fallimentari privatizzazioni delle grandi industrie di Stato, la crisi innescata dalla pandemia in corso e l’avanzamento dell’automazione in ogni comparto produttivo indicano che la responsabilità di individuare soluzioni ai problemi di coloro che rischiano di essere espulsi dal mondo del lavoro non può essere affidata al mercato, ma vada assunta sul piano politico lungo una doppia direttrice: in termini di politica industriale e di politica sociale.
Terzo nodo critico: la trasformazione tecnologica non avanza in modo uniforme in tutti i settori, non segue schemi predeterminati né si lascia condizionare da protocolli e linee guida fissati ai tavoli nazionali.Decine di migliaia di imprese (soprattutto di piccole e medie dimensioni) operano al di fuori del perimetro di applicabilità degli accordi firmati dalle grandi associazioni nazionali e tendono a regolarsi in modo del tutto autonomo. In un contesto così sfaccettato l’impatto dell’innovazione tecnologica va affrontato caso per caso.E bisogna farlo direttamente nelle singole realtà produttive, nei luoghi dove il lavoro umano entra in contatto con quello delle macchine intelligenti. Si tratta di una sfida che l’accelerazione tecnologica impone oggi al sindacato in materia di organizzazione del lavoro.
Patrizio Paolinelli Via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 21 ottobre 2020.