DANNI COLLATERALI DEL LINGUAGGIO ANTIMAFIA

copertinaImmaginate un parroco sceriffo o un vescovo pubblico ministero, con il primo che inquisisce e il secondo che sostiene la pubblica accusa.   La metafora è quanto mai attuale, soprattutto dopo che un’associazione antimafia ha scritto al Papa chiedendo al Santo Padre una “verifica sulla condotta di parroci e vescovi” e l’intervista a “Il Fatto Quotdiano” del procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria Nicola Gratteri che ha affrontato, con alcuni esempi,   la posizione della Chiesa calabrese   nei confronti   dei capibastone.   Il procuratore aggiunto non   dice   nulla di nuovo rispetto a quanto sapevamo già. Anzi, sì. Perché in un passaggio della sua intervista esprime   la forte preoccupazione che   la mafia economica,   con i “boss che se potessero fargli uno sgambetto   non esiterebbero”,     possa   diventare un pericolo per il Papa   che “sta smontando centri di potere economico in Vaticano”.

Gratteri conosce bene, per aver sostenuto la pubblica accusa contro boss e gregari in atto in galera ( in regime di 41 bis), la geografia mafiosa internazionale   e le sue preoccupazioni sui rischi che correrebbe il Papa sono certamente fondate, ma occorrono prove, altrimenti il   procuratore aggiunto, nel caso in questione,   più che da magistrato parla   da scrittore. Lo stesso vale anche per le sue considerazioni   sui   rapporti tra ‘ndrangheta e Chiesa, con o senza caffè,   con o senza santini   all’interno dei bunker di latitanti, con o senza preghiera prima che un killer prema ripetutamente il grilletto.   Anche le gerarchie ecclesiastiche sono fatte di uomini e come tali possono, come d’altronde tutti noi, sbagliare. E   per i suoi errori, l’uomo – prete, giornalista o magistrato- è chiamato a rendere   conto alla propria coscienza e   alla legge .

Stimiamo molto il dott. Nicola Gratteri per entrare in polemica con lui. Ma prendiamo le distanze, non in ragione del suo importante lavoro di magistrato, ma   perché   non traccia   una netta demarcazione tra religiosità e religione e lascia la porta aperta al dubbio sulla connivenza tra Chiesa e padrini.

La risposta al magistrato di Gerace, indirettamente,   la dà la stessa intervistatrice, Beatrice Borromeo, che fa ricorso ad una citazione di Leonardo Sciascia: “La Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio”.   La Chiesa siamo tutti noi per aver   fatto professione di fede, ricevuto spontaneamente i sacramenti anche se poi, volontariamente o meno, ci allontaniamo da essa. Nessuno nega la pervasività della ‘ndrangheta, fenomeno criminale   che ha attecchito anche per colpa dello Stato che in passato ha chiuso gli occhi   di fronte all’illegalità diffusa   foraggiata dai partiti di governo per assicurarsi il consenso.   E quando il fenomeno criminale   ha incominciato a fare paura, è stato affrontato con la sola repressione, dimenticando che parte del tessuto sociale   ormai   era stato narcotizzato   dalle “gesta” di delinquenti –   che ancora oggi ci ostiniamo a chiamare “boss” e “don” – romanzate nei rapporti di polizia ed esaltate da quel “giornalismo di trascrizione” (prendiamo in prestito un’espressione di Luciano Violante) sempre più appiattito   sul gossip, sulla   politica,   sulla cronaca nera e giudiziaria.

Anche   nella richiesta di “verifica sulla condotta di parroci e vescovi”, avanzata a Papa Bergoglio da una delle tante associazioni antimafia di Reggio Calabria, non troviamo nulla di nuovo se non   vecchie   insinuazioni, trite e ritrite:   sempre utili quando si vuole attaccare un’istituzione morale come la Chiesa cattolica.

Antimafia è bello: consente di avere   innanzitutto visibilità mediatica.

La Chiesa come guida morale ha il dovere di farsi ascoltare da tutti, anche dai   mafiosi, trovando modi e tempi per un suo autorevole intervento che non è certo autoritario e repressivo, alla stregua della giurisdizione penale, ma   finalizzato al pentimento, al perdono e alla “riabilitazione” delle coscienze     di quanti sono   stati protagonisti   di fatti contro la morale e la legge di uno stato democratico.   Il linguaggio di vescovi e parroci è stato sempre comprensibile sia dal punto di vista socio-antropologico che dogmatico –teologico. Dunque, non banale e arrogante, ma condivisibile e in sintonia con la fede cristiana.

Il semplice sospetto e i teoremi non fanno un buon servizio alla verità e alla giustizia.   Il cittadino ha il dovere di denunciare, non già formulare ipotesi, mentre al   magistrato spetta   l’obbligo   di avviare l’azione penale. Altrimenti   rimaniamo sulla sponda delle nostre   opinioni   personali che, soprattutto se espresse in modo scandalistico per essere amplificate dai mass media,   producono solo danni collaterali devastanti.

Il termine “danno collaterale” appartiene al lessico militare ma bene si presta nell’osservazione dei fenomeni che caratterizzano la società globalizzata.   Le conseguenze del linguaggio   qualunquistico di rappresentanti dello Stato e/o   di segmenti di società civile,   quasi sempre, alimentano   la sfiducia nelle istituzioni e producono lo sfilacciamento   del tessuto sociale, che, in generale, è   la vittima predestinata della cosiddetta modernità liquida.

Il movimento antimafia, assolutamente, non può arrogarsi il diritto di condannare e assolvere, di   fischiare o applaudire, ma svolgere la funzione   di avamposto culturale il cui obiettivo è rigenerare gli anticorpi di piccole o grandi comunità, soprattutto di quelle alle prese con la disgregazione e il sottosviluppo, per   respingere   le tentazioni dell’illegalità diffusa e le lusinghe della criminalità organizzata che spesso, come emerge dalle sentenze dei tribunali, va a braccetto con la politica e con rappresentanti delle istituzioni.   Se al linguaggio, per quanto forbito e dalle nobili intenzioni, non seguono concreti comportamenti, esempi reali e convincenti, tutto rimane nell’alveo della visibilità fine a se stessa.   Osservando il variegato mondo dell’antimafia reggina, sul cui fronte troviamo una cinquantina di associazioni   – incoraggiate e assistite da   pezzi dello Stato, della scuola, della Chiesa   e della magistratura –   non possiamo non chiederci   quanti e   quali sono i risultati raggiunti da questo nobile impegno. E la domanda diventa ancor più attuale nel fare una comparazione   tra i successi   dell’antimafia siciliana   e quelli di omologhe associazioni calabresi, e reggine   in particolare.   Nella maggiore isola del Paese, la mafia, che è sempre un’idra dalle sette teste, è stata ridimensionata, quasi azzerata e grazie ai dirompenti messaggi e all’azione   corale dell’associazionismo laico e cattolico nella coscienza collettiva è cambiato quell’atteggiamento passivo e silente di cui la malavita organizzata traeva forza.

In   Calabria non è assolutamente così.     Se in riva allo Stretto, nella Locride   o nella Piana di Gioia Tauro ( tanto per fare alcuni esempi), nonostante l’azione di magistratura e   forze dell’ordine,   la pedagogia antimafia   non produce, al di là delle parate e delle belle parole,   i frutti sperati, vuol dire che si sbaglia strategia: magari veicolando messaggi che poco o nulla incidono in seno all’universo ricevente, o, cosa ancora più   deprimente,   che l’attività   di sensibilizzazione non va oltre l’estemporaneità. Eppure lo Stato, pur di avere affidabili partner di “scopo”, al movimento antimafia   fornisce   importanti strumenti, come l’assegnazione di beni confiscati e congrui contributi per manifestazioni di vario genere. L’appartenenza all’associazionismo antimafia è quasi uno “status simbol”, reso più marcato dalla presenza di scorte armate, da conversazioni salottiere riprese dalle telecamere, dalla “conquista” delle prime pagine dei giornali. E così   se sei un dirigente o un semplice iscritto ad uno di questi sodalizi non puoi essere contraddetto, hai sempre ragione rispetto alle opinioni degli altri. Addirittura possiedi il dono dell’infallibilità, criticando quelle istituzioni che da oltre due millenni   sono la guida morale per milioni di cristiani e non solo.   Negli ultimi anni, diversamente da quanto avviene in Campania e in Sicilia, l’esercito antimafia ( in cui sono arruolati anche giornalisti, preti e giudici)   si arroga   finanche il diritto   di   dettare alla Chiesa la linea d’azione nella lotta alla   criminalità comune e organizzata.

Siamo di fronte ad un sistema antimafia   che potremmo indentificare, parodiando Zygmunt Baumanm, come la “società dei giardinieri”, il cui protagonista, il giardiniere appunto, ritiene che senza di lui, senza il suo contributo, senza le sue cure e senza il suo lavoro non “ci sarebbe un giardino fiorente ma solo erbacce”.

L’Italia è una Repubblica democratica   e laica, in cui Stato e Chiesa, ciascuno nel proprio ordine, sono indipendenti e sovrani, con la Chiesa   che prosegue   nel suo   secolare   magistero   di evangelizzazione, di formazione delle coscienze e degli uomini, che predica la fratellanza, la solidarietà, la giustizia sociale, il perdono.

E mentre lo Stato è sempre più distante dai bisogni del cittadino, la Chiesa si spende anchenel sociale (dall’istruzione alle opere di carità), aiutando le fasce deboli di una società in cui vecchie e nuove povertà incidono moltissimo sulla condizione umana.   In un momento di disimpegno dei governi nazionali – sottomessi al capitalismo finanziario ed appiattiti alle logiche liberiste   –   nel campo delle politiche di welfare,     l’impegno e la funzione della Chiesa meritano rispetto e non insinuazioni o, ancora peggio, accuse tutt’altro che fondate.


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