Curare,prendendosi cura: riflessione in prospettiva sociologica
di Carmela Cioffi *
Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead, quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra.Ma non fu cosi.
<<== Carmela Cioffi
Mead disse che il primo segno di civilta’ in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiego’ che nel regno animale,se ti rompi una gamba , muori.Non puoi scappare dal pericolo,andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo.Sei come le bestie predatrici che si aggirano intorno a te.Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perche’ l’osso guarisca.
Un femore rotto che e’ guarito e’ la prova che qualcuno si e’ preso il tempo di stare con colui che e’ caduto, né ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi( Curare prendendosi cura).Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà e’ il punto preciso in cui la civiltà inizia . Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili e’ questo”. Non c’e’ più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una societa’ che lascia l’ individuo solo, con il suo senso di smarrimento,la sua paura incoscia, legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani. Il paradgma odierno riconosce nel malato un portatore di disordine sociale e il malato diviene immediatamente “soggetto altro” allontanato dalla comunita’,a cui apparteneva fino a qualche momento prima,viene isolato dalla comunita’,medicalizzato e raramente curato dalla sua famiglia.
Una società che cura la malattia con attenzione prettamente chimica e farmacologica. Se il primo segno di civiltà in una cultura è stato, come fosse indicare Mead, aiutare qualcun altro nelle difficoltà, allora la salvaguardia di questa civiltà’ nella cura della comunità e nella pratica quotidiana della cura dell’individuo in quanto persona, in ogni suo aspetto, nella ricostruzione di legami emotivi e relazionali, al di là se si vive in un villaggio o in una città .E’ in questo momento storico, ora ,diventa necessario avere una visione con dimensione universale e di futuro, una visione che non si riduca a pensieri alla stregua di carità e assistenza. Una solidarietà e condivisione che superi la sfera dell’individuo ,o di gruppi di individui e che si evolva come pilastro .Questa ci aiuterà ad individuare una diversa prospettiva del significato di civiltà ,dove la cura o meglio il prendersi cura assume la funzione di dono e reciprocità. Dove il prendersi cura di se,’ dell’ambiente, degli altri ,del malato diventa una produzione che nessuno può fare a meno.
Vorrei condividere con voi la lettura di un bellissimo saggio ,avendo avuto la fortuna di incontrarlo lungo il mio percorso intrapreso ,essendomi accostata agli studi sociologici. “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, rivolge il suo sguardo ai casi clinici che gli si presentano, trattandoli come se fossero delle storie impregnate da risvolti curiosi e arrivando a romanzare questi dolorosi percorsi di vita. Lo fa, rivolgendo nei confronti di essi uno sguardo carico di umanità e di empatia. Viene evidenziato quel processo di umanizzazione ,che ogni me dico dovrebbe mettere in atto, quel medico che ci sa ascoltare in quanto prima di tutto ha davanti a se’ persone con un bagaglio di emozioni, solitudini, stati emotivi, intelligenze e mondi sommersi e mai raccontatili paziente non è soltanto una sterile, fredda e asettica cartella clinica.
Il medico sognato e mai incontrato,quell’uomo che appartiene insieme alla scienza e alla malattia,mettendo in evidenza il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarieta’ attraverso un processo di convivenza al disagio.La cosa più entusiasmante che in nessun suo caso ho mai avuto la percezione che queste persone “anormali” fossero pazze,ma sempre persone speciali,perche’ speciali sono agli occhi di chi li racconta.
Non ho mai intravisto casi,ma persone e non esistono ostacoli che non possono essere superati se sappiamo vedere oltre la disabilita’ e la malattia,e’ come se in ognuno di noi possa emergere un talento che puo’ farci sentire speciali nonostante la malattia. E ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto,un racconto interiore la cui continuita’,il cui senso e’ la nostra vita,ognuno di noi costruisce e vive un racconto e che questo racconto e’ noi stessi,,la nostra identita‘.
Il mio vissuto né fa da padrone, immergendomi e sommersa in questa realtà ,accudendomi dei miei genitori ,prima di mia madre ,la quale non ce l ha fatta ed oggi di mio padre malato oncologico, sono stati anni in cui ho stratificato in me una crescente, disincantata, amarezza forse anche in relazione alle mie iniziali aspettative , in cui avevo immaginato che il medico, l’infermiere o chiunque svolgesse una professione di aiuto, fosse una sorta di missionario. Persone con una predisposizione particolare, con un indole umanitaria protesa al conforto, che li rendesse in grado di affrontare l’arduo compito di curare, da un punto di vista strettamente strumentale e medico, e nello stesso tempo di accogliere, confortare, in altre parole “prendersi cura”.
Nel mio semplice ruolo, i due concetti del curare o prendersi cura che non sono per me in contrapposizione, ma dovrebbero ‘fondersi’ in una collaborazione continua, in un interscambio dai confini sfumati in cui sia semplice e naturale curare la persona fisica e nello stesso tempo prendersi cura dei suoi aspetti più intimi e profondi.
Premetto che, in base all’esperienza che ho accumulato sul campo, ho scelto di dare voce soprattutto a ciò di cui sono stata testimone e che ruota intorno alla persona malata, mio padre.
Ho sempre immaginato che il medico fosse uno specialista la cui professione ha per oggetto “la cura dell’anima”.
E non può esserci “cura dell’anima” senza “prendersi cura” delle persone. E non un continuo volersi comunque interrogarsi, mettersi in discussione, un voler andare oltre la conoscenza teorica, i dogmi scientifici, il punto di vista dei super sapienti.
In questo arduo confronto, la relazione medico- paziente, MALATO e MALATTIA, è resa ancora più insanabile dai vari operatori del settore che rischiano sempre più di identificarsi con il sapere e saper fare, ma non con il saper essere. E’ in questo contesto che emerge la privatizzazione della sofferenza e un dilagante sentimento di solitudine che non permette all’uomo malato di parlare del proprio dolore, dei propri bisogni e necessità, di fronte al quale penso quanto mai sia urgente riaffermare la “centralità” della persona, soprattutto quella che soffre, ammalata e quindi vulnerabile.
“Pazienti” pronti a subire, accogliere, sopportare (a seconda dei casi e della fortuna), i disagi conseguenti a una vicenda di malattia che riguarda il corpo: il suo guastarsi, il perdere per strada il corretto funzionamento, spesso il suo dolore fisico e’ tangibile. Sono ,invece, esseri umani che vivono intorno all’esperienza del dolore, perplessità, dubbi, preoccupazioni non esprimibili, con un notevole carico di emozioni profonde, sentimenti intensi verso la malattia, di cui nessuno si occupa. Lontani dalla loro abituale condizione sociale e familiare, trapiantati in una situazione, quella ospedaliera, del tutto o quasi indifferente, i malati vivono grandi momenti d’inquietitudine, di ansia, paura e persino panico. Depersonalizzati fin dal primo momento, vivono in balia di eventi sconosciuti che non possono dominare né correggere.
E cosi, sempre piu’, le voci di pazienti smarriti, spaventati, disorientati a fronte di poche persone dell’ambiente sanitario , pre-disposte a colmare la devastante angoscia di vuoto e di morte che la malattia, la solitudine nella malattia, spesso generano. Pazienti abbandonati dalle famiglie, genitori ‘dimenticati’ o ‘parcheggiati’ in ospedale dai propri figli. Pazienti la cui dignità è continuamente lesa, la cui privacy è negata. In un contesto così disumanizzato, il paziente depersonalizzato, sperimenta un ruolo essenzialmente passivo, e’un ‘contenitore da riempire’ e, a conferma dell’immaginario collettivo diventa solo un numero, una patologia. Ciò non toglie che medici e personale sanitario si stanno occupando di loro curandoli, ma di certo non ci si sta prendendo cura di loro.
Ritmi di vita pressanti, preoccupazioni, stanchezza, mancanza di consapevolezza, a volte solo distrazione, rendono capace di curare con efficienza, ma non di prendersi cura con efficacia.
L’empatia è quella capacità, che potremmo dire, ci consente di ‘leggere tra le righe’ di ciò che ci viene raccontato andando oltre quelli che sono i nostri propri schemi di attribuzione di significato. Sapersi calare nell’esperienza emozionale dell’altro, ci consente di provare ciò che l’altro prova, di sentirsi non solo al suo posto ma nella sua pelle.
Solo se chi si occupa della persona malata, riesce ad individuare modalità in cui il paziente si senta coinvolto e partecipe nell’intero processo, il CURARE può trasformarsi in prendersi CURA .
Le capacità empatiche del medico emergono proprio nel riconoscimento di valori e potenzialità, di diritti e doveri, di bisogni e di opportunità, di realtà e di sogni del paziente che, se condivisi ,consentono a chi cura e a chi è curato di non focalizzare l’attenzione solo sulla malattia, ma ampliare il proprio campo visivo ad una visione d’insieme che mette medico e paziente, in grado di incontrarsi ed interagire nella dimensione del rispetto, con il coraggio e l’umiltà del medico di accettare in modo neutrale i modi, tempi, scelte del paziente.
La ‘narrazione’ è una delle metodologie di ricerca qualitativa fra le più adatte. Già da alcuni anni ‘LE STORIE DI CURA” sono strumenti che non solo permettono di guardare con chiarezza nella vita dei malati come gli altri strumenti tecnici permettono di guardare nei loro corpi, ma anche di accogliere e sostenere il legame umano fra paziente e professionista. La raccolta della storia clinica, importantissima ai fini della diagnosi, diventa allora uno strumento di recupero di preziosi frammenti di passato.
Tramite i “contenuti narrati” si cerca di creare idonei ponti relazionali fra il processo di cura e il vissuto della stessa persona malata, affinché conservi l’umanità di tutta la propria esperienza di malattia evitando rassegnazione, illusioni o eccessive aspettative, accanimento o tentazioni di abbandono terapeutico. La persona malata potrà sentirsi unica e non solo un caso clinico se scoprirà che anche per il medico è importante quello che si dice, importantissimo come si dice ma di fondamentale importanza è a chi lo si dice.
In ogni situazione va comunque riconosciuto al malato in quanto persona il VALORE e la DIGNITÀ che sono considerati inerenti all’essere umano e che caratterizzano ognuno di noi quale essere unico e differente, con il dovere e il diritto di affermarsi, e realizzarsi in tutta la sua originale pienezza e completezza. Tuttavia quando una persona è colpita dalla malattia, spesso smarrisce il senso della propria dignità e del proprio valore non sentendosi altro che “un malato”.
Di fronte alla malattia, tutto ciò che costituiva il suo mondo perde bruscamente importanza. La sensazione
*Dott.ssa Carmela Cioffi – sociologa