Crimine e società: tra normalità, limiti e necessità sociale

 

 

Il crimine può essere definito un tratto “normale” o addirittura necessario per una società?

giacomo buoncompagni foto tesseraSecondo quella che Randall Collins definisce “sociologia non ovvia”e seguendo principalmente il pensiero del sociologo Emile Durkheim, la risposta è si.Il crimine e le sue punizioni sono una parte fondamentale dei rituali che sostengono una struttura sociale, addirittura potremmo sostenere che lo scopo sociale di tali punizioni, non sia ottenere un effetto concreto sui criminali, ma rappresentare uno specifico rituale che sia da esempio e vada a beneficio della società.Il rituale crea emozione, credenze, unione ad un gruppo e la società, in questo caso, si unisce contro il criminale, lo riconosce colpevole e ciò provoca un sentimento di disgusto nei suoi confronti e del brutale atto compiuto; tale emozione è partecipata e condivisa dalla maggioranza, si può parlare dunque di comunità.La società ha bisogno del crimine per sopravvivere.Secondo Durkheim, senza crimine “non ci sarebbero rituali di punizione”, scomparirebbero i sentimenti morali, le regole non potrebbero essere interpretate in modo cerimoniale e questo potrebbe spezzare quei legami che tengono insieme un gruppo e l’intera società.Se si considera però la società come “concetto”, scopriamo che i veri attori sono i singoli individui e che l’interesse a punire i criminali è solo una forma simbolica di potere: dopotutto, perché dovremmo preoccuparci di chi viene derubato o ucciso? Principalmente la risposta è legata all’idea di gruppo e alle dinamiche emotive che lo caratterizzano: le persone devono sentire qualche coinvolgimento morale nel gruppo per interessarsi al problema della criminalità e, non è un caso, se sono proprio le persone meno soggette al crimine ad essere le più preoccupate.Crimine, punizione e preoccupazione, per il criminologo americano Collins, sono questioni simboliche-politiche; i crimini violenti sono quelli che hanno maggior effetto partecipativo, in termini emotivi, e che mobilitano la popolazione, rafforzano o  indeboliscono idee e concetti.

Se quindi la struttura sociale crea il crimine, c’è un limite alla quantità di crimine che essa produce? Secondo Collins si, altrimenti la società cadrebbe a pezzi e con l’aiuto delle norme e dell’azione delle forze dell’ordine, possiamo notare come sia lo stesso crimine ad autolimitarsi nella società.Questo processo di autolimitazione inizia proprio quando una determinata organizzazione criminale comincia ad avere parecchio successo e tende ad ingrandirsi, diventando cosi un piccola società con regole e gerarchie.Non potendo lavorare allo scoperto e isolatamente, comincia a tendere verso la regolarità e la normalità: il crimine funziona meglio quando è più organizzato, ma più diventa organizzato e più tende a rispettare le leggi e ad autodisciplinarsi.“Crimine e società oscillano avanti e indietro su questa dialettica di paradossi”, afferma Collins.Dunque, se la vita sociale crea il crimine, il crimine crea una sua antitesi: il crimine scaccia il crimine.

 

Buoncompagni Giacomo

. Dottore  in comunicazione , specializzato in comunicazione pubblica e scienze socio-criminologiche . Ha conseguito diplomi di master universitari di secondo livello in ambito criminologico-forense. Esperto in comunicazione strategica e linguaggio non verbale. Cultore della materia e Collaboratore di Cattedra  in “Sociologia generale e della devianza“ e “Comunicazione e nuovi media”presso l’Università di Macerata. E’Presidente provinciale dell’associazione Aiart di Macerata e autore del libro “Comunicazione Criminologica”( Gruppo editoriale l’Espresso2017).     giacomo.buoncompagni@libero.it

 


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