CORRUZIONE AD ALTA VIRULENZA
In tema di criminalità, secondo un recente studio compiuto da alcune ricercatrici dell’Università di Torino, sembra che il nostro Paese è classificato come fra i primi in Europa a rischio corruzione. Soprattutto per quanto riguarda gli appalti pubblici, dove tale situazione sta creando nuove e prolifere opportunità per gli affari criminali.
Invece, su proporzione mondiale, la posizione italiana non è poi tanto migliore. Difatti, dall’associazione “Transparency International Italia”, che si occupa della lotta alla corruzione in un’ottica internazionale, attraverso un articolo pubblicato da Repubblica il 27 gennaio 2016, in proposito si afferma: «L’Italia ha un serio problema con la corruzione nel suo settore pubblico e, nonostante faccia qualche passo avanti e con il massimo rispetto per tutti, deve ancora guardare da dietro Paesi come Oman, Romania, Grecia, Ghana, Cuba o Kuwait».
Solo per portare un esempio “caldo”, cioè recente, è notizia di alcuni provvedimenti cautelari eseguiti dalla Guardia di Finanza di Roma per ipotesi di reato di corruzione, atto contrario ai doveri d’ufficio, turbata libertà degli incanti, autoriciclaggio, favoreggiamento personale e truffa; nell’inchiesta avviata lo scorso ottobre su mazzette pagate da imprenditori a funzionari della società che gestisce la rete stradale: l’ANAS. E tra gli indagati, manco a dirlo, anche politici.
Ciò premesso: «Il Paese ha sete di giustizia, legalità, efficienza e efficacia della giurisdizione. Chiede che la legge venga applicata in modo uniforme e rapido e che tutti abbiano un uguale trattamento in casi simili o analoghi. Esprime, a ben vedere, il bisogno di una buona nomofilachia» [1]. Queste sono le parole pronunciate lo scorso 28 gennaio dal Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, che ha parlato alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’apertura della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016.
E a proposito di tutto questo, non a caso, torno ancora una volta sul fenomeno della corruzione, dedicando il presente contributo a tutte quelle persone perbene che quotidianamente svolgono il proprio dovere onestamente ma che, per vari motivi, a volte comprensibili anche se scarsamente giustificabili, non riescono a denunciare o prendere le dovute distanze da talune altre persone diversamente oneste.
Su questo ultimo aspetto calza, almeno dal mio punto di vista, quanto emerge dalla Relazione del Procuratore Regionale, dott. Antonio Giuseppone, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Umbria, svoltasi a Perugia il 26 febbraio 2016, secondo il quale: «Significativo, ad esempio, è il dato pari a zero relativo alle denunce pervenute nel 2015 dagli organi di controllo interni». Così come, allo stesso modo: «Altrettanto emblematico, peraltro, è il dato delle denunce aperte a seguito di segnalazioni di privati cittadini, in leggero aumento […] Di tali esposti […] ringrazio pubblicamente i cittadini umbri che, evidentemente, hanno a cuore la corretta gestione delle risorse pubbliche e confidano in un efficace intervento a tutela delle stesse da parte della Procura Regionale».
Prosegue il dott. Giuseppone: «Come già fatto in passato dai miei predecessori, voglio comunque ribadire che l’obbligo di denuncia alla Procura Regionale costituisce, anziché un fastidioso adempimento burocratico, uno strumento di garanzia e tutela per l’Amministrazione danneggiata, che segnala i fatti all’unico soggetto abilitato a perseguire d’ufficio ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale dinanzi al giudice competente».
Il dott. Giuseppone non tralascia il ruolo sociale dei mezzi di comunicazione di massa: «Numerosi sono i fascicoli istruttori aperti a seguito di notizie di stampa che evidenziavano fattispecie suscettibili di configurare un danno erariale. Di tale fondamentale fonte di conoscenza per il Pubblico Ministero contabile, voglio in questa sede ringraziare i rappresentanti della stampa, che non solo segue con estremo interesse ed attenzione l’attività della Procura Regionale ma costituisce un prezioso ausilio per la cognizione di fattispecie altrimenti di difficile emersione».
Ebbene, dovessi dare una mia modesta interpretazione su questi punti appena illustrati, vien da dire che oramai la misura è stracolma a proposito non solo di ruberie ad opera di chi materialmente le compie, ma anche da parte di chi vi si presta allorquando, in veste del proprio ufficio, ha l’obbligo di denunciare fatti illegali ma poi, in realtà, si volta dall’altra parte; lasciando che siano altri, cioè rari cittadini comuni e altrettanto rari organi di stampa a fare ciò.
Sui fenomeni corruttivi si è scritto e detto tanto, e tuttora si scrive, ma sempre o comunque perlopiù quando tale fenomeno riguarda realtà di medio grandi dimensioni. Molto più raramente invece quando il fenomeno riguarda realtà sociali più modeste, poiché, evidentemente, non fa notizia, non fa scoop, non fa audience, e, dunque, non trasmette emozioni come quando invece si legge dell’una o altra massiccia operazione di polizia che smaschera il disonesto di turno.
Eppure, mi permetto di aggiungere, la corruzione amministrativa nelle piccole realtà locali è allo stesso modo presente e dannosa per la collettività intera allo stesso modo che in realtà più grandi. Forse anche in maniera maggiore se si moltiplicassero i fenomeni corruttivi considerati minori per il numero delle realtà sociali in cui essi sono incardinati e si manifestano più o meno platealmente.
Da Nord a Sud della nostra penisola si rincorrono i casi di malaffare e collusione di ogni genere tra politica, pubblica amministrazione, colletti bianchi [2], organizzazioni criminali e cittadini disonesti. Una sorta di sistema bipartisan che non esula nessuna parte in gioco, dove appunto vi è necessariamente bisogno di accordi più o meno espliciti, più o meno subdoli, più o meno noti in partenza; ma certamente accettati da tutti gli attori coinvolti.
Qualche anno fa, durante un seminario a tema, dove ero presente, un noto magistrato, facente parte di una DDA (Direzione Distrettuale Antimafia), ebbe a dire: “Le persone perbene sono meno di quello che si pensi”.
In altre parole, cioè diversamente detto, potrebbe tradursi in un qualcosa del genere, ovvero almeno così mi permetto di interpretare: molte persone delinquono, si macchiano di reati tipici del contesto corruttivo, ma non tutte rimangono imbrigliate nelle maglie della giustizia. Ed è un po’ quello che ha ispirato questo mio modesto contributo, nel senso che, come già accennato, non corrisponde a verità che i fenomeni corruttivi siano prerogativa unica di medio-grandi e ricche realtà sociali, bensì sono ugualmente frequenti e attivi anche in realtà sociali piccole, anzi, spesso molto più presenti perché meno attenzionati dal punto di vista investigativo proprio per la loro apparente ridotta portata e dunque meno risonanti, ovvero più latenti, ma non per questo meno corrosivi di quel preciso tessuto sociale.
Tuttavia, per onore di verità, e per fortuna, aggiungo, in mezzo a tanti disonesti esiste anche chi disonesto non lo è, ma che: vuoi per ingenuità o per paura di rimanere da un giorno all’altro senza un lavoro, oppure etichettato come chi denuncia il vicino di casa, piuttosto che il collega d’ufficio o l’imparentato; sta di fatto che stenta o è incapace a denunciare sia fatti illeciti di cui è venuto a conoscenza, sia di prendere in qualche modo le debite distanze da chi delinque.
Potrei definire questi soggetti una sorta di ibridi, in qualche modo complici col loro silenzio di un sistema criminale, quello corruttivo, oramai insinuatosi e radicalizzatosi in molti ambienti.
Ecco che, dunque, si va dall’abuso d’ufficio alla falsità di ogni genere; da favoritismi all’amico, al parente, all’amante; tangenti in cambio di garantire l’aggiudicazione di appalti a prescindere dalla rilevanza economica dell’appalto stesso; tangenti in cambio di delibere o atti governativi favorevoli nelle più disparate aree di interesse personale; tangenti e voto di scambio per l’aggiudicazione di interessanti incarichi professionali; preventivi gonfiati ad arte per la richiesta di erogazioni di denaro pubblico (in parte poi spartito tra tutti i consociati nel reato, ivi incluso chi si limita solo a tacere di quanto è a conoscenza); dunque tasse, affitti o altro volutamente non riscossi per poi, l’amministratore di turno e l’impiegato disonesto, vedersi riconoscere dal privilegiato importanti somme di danaro. Potrei continuare oltre con l’elenco, ma ci siamo capiti, credo.
Alcune ricerche sociologiche da me compiute in piccole comunità di pochi aventi diritto al voto, hanno dimostrato che è sufficiente favorire un manipolo di imprenditori e professionisti, oppure famiglie, attraverso, per esempio, discutibili concessioni di tipo edilizio o di natura economica per accaparrarsi le simpatie elettorali di tante persone, almeno quante ne bastano per raggiungere la maggioranza elettorale. Sempreché, qualche rompiscatole di turno non riesca a smascherare il malaffare e fare aprire gli occhi a chi, per esempio, vuoi per disaffezione alla politica, vuoi per altro motivo, dapprima non era nemmeno intenzionato a recarsi alle urne per poi, invece e per fortuna, vi si è recato per punire severamente col proprio voto corrotti e corruttori.
In casi del genere, cioè quando il malaffare è scoperto e portato alla luce, vi è tutta quella parte marcia del sistema che non si limita a difendersi nel merito del fatto portato alle cronache, bensì sollecita l’opinione pubblica a dare dell’untore al denunziate. In altre parole, per questi individui, ma soprattutto per chi li ascolta o addirittura li adula, il delinquente non è chi viola la legge, ma chi lo scova.
Un tentativo di isolamento di manzoniana memoria di chi ha denunciato il fatto delittuoso; ma questo richiama anche altrettanta memoria, quella hitleriana, quando nella fase propedeutica alla soluzione finale contro gli ebrei, per giustificare ciò che di lì a poco sarebbe loro occorso, questi ultimi venivano appunto additati come una escrescenza negativa in seno alla società civile germanica.
In alcuni casi, questo tentativo di isolare chi non si piega ai fenomeni corruttivi, ma anzi li denunzia, perpetrato dai lestofanti, è accompagnato da minacce e millanterie di ogni genere nei loro confronti, come per esempio far credere all’opinione pubblica di essere intoccabili per mezzo di conoscenze importanti nei vari ambiti istituzionali.
È evidente come tale agire criminale sia più efficiente quanto il soggetto attenzionato è più debole soprattutto dal punto di vista psicologico. Per tutti gli altri l’effetto si capovolge, ovvero torna indietro come un boomerang. Del resto, scrive Arendt: «La violenza compare dove il potere è scosso» [3].
Orbene, pensando al nostro ordinamento giuridico, ho già avuto modo di scrivere in altre circostanze che una reale efficacia dell’applicazione delle «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», di cui alla Legge 6 novembre 2012, n.190, si potrà ottenere solo attraverso la lettura della suddetta norma in combinato disposto con il Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33, in materia di «Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni». Poiché, appunto, maggiori saranno le informazioni a disposizione dei cittadini, maggiore sarà la difficoltà di porre in essere comportamenti delittuosi senza essere in qualche modo scoperti.
Da più parti la corruzione amministrativa è indicata come una delle cause maggiori dell’inefficienza dei servizi collettivi, del dissesto delle finanze pubbliche e della disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni democratiche [4]. Nonché – ricorda la Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale ONU il 31.10.2003 con risoluzione n. 58/4 – come una piaga corrosiva della società civile e come tale: «mina la democrazia e lo Stato di diritto, conduce a violazioni dei diritti umani, distorce i mercati, erode la qualità della vita e permette la criminalità organizzata, il terrorismo e altre minacce alla sicurezza umana di prosperare».
E dunque, se è vero, come credo sia, che i fenomeni corruttivi permeano con maggior frequenza e facilità dove è assente o anche solo scarsa la trasparenza dell’attività amministrativa pubblica, ma anche dove è assente o anche solo scarsa la preparazione del personale addetto verso la prevenzione di tali fenomeni delittuosi, nonché dove è assente o anche solo scarsa la cultura della legalità e del senso civico, ovvero dove primeggia quella forma di familismo amorale di sociologica memoria, da me richiamato in un precedente contributo dal titolo “La questione morale”, ecco che la vasta possibilità con cui si può percepire il concetto di prevenzione, nel caso in esame delle misure di contrasto alla corruzione, rischia di rendere riduttivo il suo stesso significato; cioè non va inteso come mero insieme di misure generiche che una società è chiamata a darsi per evitare il consumarsi di specifici atti costituenti reato, ma è un qualcosa che va calibrato caso per caso, situazione per situazione, contesto per conteso, e dunque come strumento non solo finalizzato a neutralizzare all’origine un’ipotesi delittuosa, bensì anche ad impedire la reitera da parte di chi potrebbe aver commesso reati specifici, ma che solo per tutta una serie di circostanze e combinazioni, anche fortuite, non è stato mai individuato.
In breve, e concludo, una prevenzione realmente efficiente dipende essenzialmente dalla tipologia di prevenzione adottata, laddove questa miri a prevenire il delitto rendendo impervio l’ambiente dove esso potrebbe concretizzarsi. Un errore perciò da evitare nell’analisi di certi contesti, e sono consapevole di ripetermi, è quello di credere al fatto che in ambienti piccoli la corruzione non esiste, così come non esiste il malaffare. Ribadisco: non è così, anzi, chi sottovaluta o affronta con superficialità questo tema, il più delle volte, in genere, mi si permetta, è in mala fede.
Note e bibliografia
[1] Nomofilachia: vale a dire uno dei compiti essenziali della Corte di Cassazione, cioè vigilare sull’esatta e uniforme interpretazione della legge (Cfr. Dizionari edizioni giuridiche, Napoli, Simone).
[2] Definizione coniata dal criminologo statunitense Edwin Sutherland (1883-1950), noto per aver studiato (1940-49) dettagliatamente quei crimini commessi da persone apparentemente rispettabili, cioè di elevato livello sociale, dove nell’ambito della loro prestigiosa occupazione abusano della fiducia in essi rimessa.
[3] Arendt H. (1969-70) (2013), Sulla violenza, Parma, Guanda.
[4] Merloni F. Vandelli L. (2010) (a cura di) La corruzione amministrativa, Firenze, Passigli.
Dott. Marco LILLI
SociologoCriminologo
www.sociologiacontemporanea.it
Rivista di Sociologia (ISSN 24215872)