In questo articolo prenderemo in considerazione la cultura e la religione nell’ impero romano nel III secolo d.C. La cultura del III secolo d. C. è poco conosciuta . Infatti quasi nessun lavoro letterario è sopravvissuto . Tuttavia un capitolo importante dell’attività intellettuale di quel periodo storico è rappresentato dalla cultura giuridica .
<= Prof, Giovanni Pellegrino
L’età dei Severi è l’età di importanti giuristi quali Paolo Ulpiano e Modestino. Dei contenuti della loro opera ci dà informazioni il “ Tigesto” una compilazione giuridica dell’età di Giustiano. Sappiamo di più sulla letteratura greca di questa età in particolare della filosofia neo platonica rappresentata soprattutto da Plotino e dai suoi seguaci. I neoplatonici continuavano tradizioni filosofiche razionalizzanti con una fede fervente nel politeismo sincretistico cercando di contrastare le religioni misteriche orientali e il cristianesimo.
A scrivere in greco la storia di Roma ci pensarono Cassio Dione ed Erodiano mettendo in mostra l’ormai completa integrazione dei Greci nell’impero romano. In particolare Erodiano definisce l’impero romano con la significativa espressione “ il nostro impero romano “. Dobbiamo mettere in evidenza che i Greci stessi cominciarono a definirsi “ Romani”. Per quanto riguarda le belle arti si osserva una loro decadenza o piuttosto la loro evoluzione verso un mutamento dell’ideale estetico. Venne gradualmente abbandonata la rappresentazione fedele della realtà e della personalità individuale che venne sostituita da uno schematismo di pose e di tratti. Nell’architettura il fenomeno dominante fu la crisi dell’urbanesimo tradizionale sostituita da un’ urbanistica destinata a soddisfare le esigenze della difesa.
Il riutilizzo di vecchi frammenti e di elementi architettonici per nuove costruzioni rivela le difficoltà economiche di quel periodo storico , uno dei più difficili e problematici della lunghissima storia dell’Impero romano. Infatti il III secolo d.C. fu caratterizzato da una evidentissima crisi economica e sociale che colpì tutte le classi sociali e tutti i territori dell’impero romano. Solamente le sontuose ville dei latifondisti continuarono a fare sfoggio di sé insieme al grande tempio che a Roma l’imperatore Aureliano dedicò al dio Sole.
Molto interessante fu anche l’evoluzione della religione in questo periodo storico. I culti tradizionali pur sempre in vigore persero popolarità come anche il culto imperiale. Sebbene lo Stato continuasse a pretendere tale culto e sebbene continuasse a essere celebrato divenne soprattutto una prova di fedeltà politica all’imperatore e una sorta di dovere civico. Nella sempre maggiore “ anomia religiosa” esistente nell’impero le masse cercarono altri dei e altri orizzonti spirituali. Le divinità straniere specialmente quelle orientali rimasero sempre di moda ma se alcune videro aumentare i propri adepti ( vedasi il caso del dio Mitra) altre persero un certo numero di fedeli.
In tale periodo storico i moltiplicarono anche le manifestazioni di superstizione e di occultismo ed inoltre la magia trovò un notevole numero di adepti. Fu proprio per rispondere a questo clima di magia e superstizione che l’imperatore Aureliano cercò di imporre senza successo il culto unitario e unificante del “ Sol Invictus ”. Non deve assolutamente sorprendere il fatto che in tale periodo storico molte persone praticassero la magia e le arti divinatorie. Infatti come tutti i sociologi o gli storici sociali sanno nei periodi di crisi molte persone si rivolgono alla magia e all’astrologia perché cercano in tal modo di assumere il controllo degli eventi e delle altre persone avendo perso la fiducia nelle strategie razionali finalizzate ad assumere il controllo sull’ambiente esterno e sugli altri uomini.
Anche le stesse arti divinatorie a cominciare dall’astrologia nei periodi storici nei quali il futuro diventa incerto e fonte di ansia si cerca di avere informazioni sugli eventi futuri utilizzando le arti divinatorie in generale e l’astrologia in modo particolare. Nel periodo compreso tra la morte di Commodo e gli inizi del regno di Diocleziano il fenomeno spirituale e sociale più rilevante ed importante fu rappresentato dalla crescita del cristianesimo la religione cristiana riuscì in tale periodo storico a fare adepti e a coinvolgere sempre più i componenti di tutti i livelli sociali.
Inoltre il cristianesimo riuscì a conquistare adepti in tutte le province dell’impero romano. Ciò avvenne perché la crisi ideologica morale e spirituale stava ormai investendo tanti strati della società romana. Gli individui reagirono a questo stato di cose angosciante e frustrante in modo diverso : vi fu chi si rivolse allo scetticismo e incredulità che venne attratto dalla magia o dalla mistica dei culti orientali e chi invece trovò nella religione cristiana l’alternativa cercata al clima di crisi imperante. Certamente la grande coerenza dimostrata fino al martirio numerosissimi cristiani ebbe il suo peso nel crescente successo del cristianesimo ma senza dubbio se non fosse esistito tale clima di crisi la religione cristiana avrebbe faticato molto di più a conquistare un numero sempre crescente di adepti
Le comunità cristiane aumentarono si diffusero in tutte le città più importanti dell’impero romano e cominciarono ad avere tra loro stretti contatti . Si strutturarono meglio al loro interno sia dal punto di vista organizzativo sia amministrativo. La direzione delle comunità passò nelle mani di speciali membri a ciò preposti scelti dal resto della comunità: presbiteri diaconi e vescovi. Questi ultimi si riunivano in assemblee come sinodi o concili per prendere decisioni importanti e discutere intorno ai dogmi della fede. Il vescovo più importante era quello di Roma la più grande città dell’impero sede della più grande comunità cristiana .
Il III secolo d. C. annoverò le due più violente persecuzioni scatenate contro i cristiani. Infatti Decio e Valeriano perseguitarono in maniera sistematica i cristiani di tutto l’impero romano. Molti andarono incontro con grande coraggio al martirio ma ci furono anche altri che per evitare il martirio rinnegarono la propria fede. Questi ultimi i cosiddetti Lapsi rinnegarono la loro religione accettando di fare sacrifici all’imperatore. Ma questi sono anche i secoli nei quali nacquero all’interno delle comunità cristiane le prime forme di eresie: il montanismo dal nome del profeta Montano apparve alla fine del II secolo d.C, mentre poco dopo fu la volta del donatismo dal nome del vescovo Donato.
I seguaci del montanismo erano contrari all’universalismo della religione cristiana colpevole a loro dire di aver cercato dei compromessi con lo Stato pagano e di aver cominciato ad accumulare beni e proprietà. Viceversa i seguaci del montanismo esortavano i propri fedeli a rinunciare alle ricchezze terrene e a condurre una vita improntata sullascitismo. Derivazione del montanismo fu il donatismo. Infatti il vescovo Donato in Africa si mise a capo di una corrente di montanisti intransigenti . Essi decisero di rifiutare il perdono a tutti coloro che durante le persecuzioni di Decio e Valeriano avevano rinnegato la religione cristiana. Dobbiamo altresì mettere in evidenza che malgrado le ostilità e le persecuzioni il mondo romano fu l’unico spazio dove la fede in Gesù Cristo poté svilupparsi e progredire alla fine dell’antichità.
Concludiamo tale articolo riguardante la cultura e la religione nel III secolo d.C. mettendo in evidenza che in alcune province dell’impero romano fecero la loro comparsa manifestazioni culturali preromane .
Dubbiosi e scettici, forse irriverenti nei confronti di milioni di persone che celebrano la festa degli innamorati. Tuttavia ci chiediamo se oggi abbia ancora un senso la ricorrenza di San Valentino.
<<<=== Antonio Latella
Lo facciamo con la consapevolezza del rischio di essere costretti a passare sotto le forche Caudine del potente esercito del consumismo che domina il mondo o, cosa molto più insidiosa, finire tra le grinfie dei leoni della tastiera.
Il mondo postmoderno si è rivelato sempre più avaro nel concedere amore e sempre meno disposto a riceverne come se si trovasse in uno spazio franco dove non fioriscono sentimenti. E senza l’amore (inteso come valore universale) continuano a venire meno altri nobili valori: il rispetto degli altri, la solidarietà, la pacifica convivenza, come se l’uomo contemporaneo avesse scelto la cittadinanza su un altro pianeta.
Le nostre radici cristiane (con la massima “amatevi gli uni gli altri”), nel corso dei secoli, si sono talmente sfilacciate al punto da ritrovarci nella cosiddetta società dell’odio, del distinguo, della contrapposizione e, soprattutto, dei legami effimeri e dell’indifferenza.
Ispirarsi alla vita del Patrono di Terni (San Valentino), tradizione che dura da secoli, oggi, appare quasi un non senso: forse un po’ blasfemo, sicuramente impregnato di ipocrisia. L’uomo non si accorge di essere indissolubilmente legato ad un grande padrone: il mercato globale che limita le nostre libertà di scelta, i nostri orientamenti, i nostri gusti, il nostro modo di essere società. Insomma, ci ruba finanche il bello dell’innamoramento. E in un mondo senza amore prevale la seduzione, destinata prima o poi ad appassirsi sotto al sole del deserto della solitudine dove, come tanti predoni, ci affanniamo alla cerca di nuovi “incontri” senza futuro e senza prospettive di vita in comune.
In una pubblicazione del 2013 “Gli usi postmoderni del sesso”, Bauman partendo dalla liberazione sessuale del ’68, evidenzia lo “scollamento” dell’erotismo (desiderio) rispetto al sesso e all’amore. “Sesso, erotismo e amore non possono esistere l’uno senza gli altri, eppure la loro esistenza si consuma in una guerra perenne per l’indipendenza”. Poi tira in ballo i beni di consumo che fanno aumentare il desiderio di possesso: “sopito una volta realizzato per poi accenderlo nei confronti di un nuovo prodotto in una coazione a ripetere all’infinito”.
“Amarsi e rimanere insieme tutta la vita – si legge in “Amore liquido” della collana baumaniana-. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista”. Nessun ricordo del passato: resettato nei tradizionali valori umani, che oggi viaggiano in compagnia di una società virtuale che ci sta definitivamente traghettando nella post umanità. Sempre più indifesi, privi come siamo di anticorpi socio-culturali che hanno scolorito nell’uomo finanche il comune senso del pudore.
“Le nuove generazioni nascono e crescono in un mondo in cui si deve essere connessi, sempre” si legge in “Baciami senza rete” di Paolo Crepet che lo psichiatra, sociologo e giornalista ha pubblicato prendendo lo spunto da una scritta sui muri di Roma “spegnete Facebook e baciatevi”. Una perenne connessione di cui si esalta solo la positività, senza considerare i danni collaterali prodotti “dalla nuova epoca telematica”. E si pone tre interrogativi: “Come sarà da adulto un bambino che ha comunicato sempre e soltanto attraverso un device?”; “Che ne sarà della sua abilità nell’utilizzare il suo apparato sensoriale?”; “Che cambiamenti ci saranno nelle sue relazioni sociali, nel suo modo di vivere i sentimenti, nella sua capacità e empatia?”. *
“Viviamo in un mondo dove ci nascondiamo per fare l’amore, mentre la violenza e l’odio si diffondono alla luce del sole” (J. Lenon)”. Mezzo secolo di metamorfosi antropologica ci dividono dal protagonismo dei Beatles all’esibizionismo di Fedez e Rosa Chemical. Come negli anni ’70 del Secolo breve, anche oggi il mondo è un grande teatro di guerra, di violenza in generale, ma sono cambiati i costumi che ci “autorizzano” a rendere di pubblico dominio la nostra vita privata e con dovizia di particolari: passioni, cambio di partner, tradimenti, crisi di coppia, divorzi, liti per liberarsi o avere assegnati i figli, rivendicazioni patrimoniali come abitazioni, Rolex, pellicce. Fatti che affidiamo ai social e destinati ad un pubblico sempre più bulimico di gossip. Nel secolo dell’individualismo se non appari non conti nulla, non sei nessuno. E maggiori sono i particolari, anche dal punto di vista sessuale, più link contribuiscono ad aumentare il personale consenso virtuale.
Il tutto dimenticando che i social oltre a rubare tempo alla vita reale provoca uno stato di incomunicabilità tra la coppia che poi si estende all’intero nucleo familiare. E come dice il sociologo Francesco Alberoni “l’amore ha bisogno di comunicazione” e quando “lei non parla e lui non chiede” nascono equivoci e liti.
Cosa rimane dell’amore? Forse solo cronaca. In particolare quella di uomini che uccidono mogli, compagne, amanti, fidanzate o che decidono di liberarsi del partner. Donne che non sopportano più le violenze domestiche, i soprusi, le scappatelle del compagno o perché il loro rapporto, diventato ormai routine, rimane “incollato” solo per la presenza dei figli. E con l’amore ormai finito, tra una minaccia e un episodio di stalking, la coppia focalizza obiettivi diametralmente opposti che a lungo andare sfociano in fatti di sangue.
Ed allora chiediamoci se il 14 febbraio può ispirarsi ancora a San Valentino?
Antonio Latella -sociologo, giornalista, presidente Associazione Sociologi Italiani
* le risposte le troverete sulla pubblicazione del prof. Paolo Crepet
Il digitale come un fiume carsico attraversa le nostre vite, inaridisce i nostri sentimenti, affievolisce i nostri valori e provoca forme di mutazione della natura umana.
Antonio Latella ===>>
La società postindustriale, diversamente dalle precedenti, genera gravi forme di intossicazione sociale che spesso inquinano i rapporti interpersonali e di gruppo. Eppure questa tecnologia, dopo l’era Gutenberg, è la più grande innovazione al servizio dell’umanità.Il digitale ci ha resi spettatori e al tempo stesso attori: ruoli che, in pochi attimi, si inseguono, s’intrecciano, si sorpassano fino a provocare confusione, aggressività, perdita di identità, dipendenza. Una situazione che è alla base di quella quotidiana guerra di tutti contro tutti che, nessuno escluso, coinvolge cittadini, politica, istituzioni, società civile, sport e, soprattutto, il mondo della comunicazione. Un sistema che orienta l’opinione pubblica sempre più alla mercé dei manipolatori occulti, dei modelli consumistici, degli influencer, della politica.
L’uomo è ormai costantemente esposto agli effetti delle reti, che – secondo Castells – “costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società”. E “la diffusione della logica della rete modifica sostanzialmente il funzionamento e gli esiti dei processi di produzione, esperienza, potere e cultura”. Da ricordare che la forma di “organizzazione sociale in rete è esistita in altri tempi e spazi”, ed oggi “il nuovo paradigma informativo fornisce la base materiale per la sua espansione pervasiva in tutta la struttura sociale”.
La pervasività di questi strumenti finalizzati allo sviluppo del progresso umano ci ha colti di sorpresa: impreparati culturalmente, innanzitutto, ma anche un po’ spregiudicati nell’uso che se ne fa, al punto da illuderci che le comunità reali possano essere sostituite da quelle virtuali. Questa nuova dimensione è funzionale ai paradigmi della globalizzazione capitalistica, perché ci proietta in un mondo lineare e privo di identità, dove tutto gira intorno alle logiche liberiste che interessano sia le merci che le persone. Identità che diventa informe, senza sembianze e consistenza. Zygmunt Bauman, infatti, riteneva che tramite i social l’identità si fosse trasformata da “liquida in gassosa”.
Il digitale, matrice di tutti i new media, ci costringe a ritmici frenetici di vita: talmente veloci e devastanti che fatichiamo a discernere il vero dal falso (fake news docet!), il reale dal virtuale. E’ questo il “prezzo” che la società-mondo è obbligata a pagare all’attuale sistema di comunicazione globale che, tramite nuove scoperte tecnico-scientifiche, a causa dell’impropria utilizzazione che se ne fa, rischia di diventare, come accennavamo in precedenza, strumento di mutazione antropologica.
Siamo proiettati nel nebuloso e forse arido mondo della post umanità, che trova le sue principali espressioni nell’intelligenza artificiale e, soprattutto, nel metaverso, ecosistema la cui funzione futura viene ritenuta ineludibile. L’uomo contemporaneo ha assunto lo status di cittadino della società del rischio (Beck): e da parte nostra, azzardare un futuro apocalittico rischia di aggiungere ulteriori incertezze a quello che molti autorevoli sociologi hanno definito il “secolo della paura”. Ci asteniamo, per il momento, da riflessioni a sfondo distopico; osserviamo però che questa applicazione del digitale alla vita dell’uomo sta determinando una evoluzione (o involuzione?) sociale.
Forse è mancata in noi la capacità di adattamento al fluire di questo fiume carsico che scorre dentro di noi e periodicamente riaffiora. Probabilmente, dopo l’iniziale curiosità, tutti siamo rimasti affascinati ma passivi dinanzi al “messianico avvento” dell’irruzione del digitale nelle nostre vite, preferendo cavalcare senza limite le nostre nuove emozioni invece che governarle. E oggi la società registra un radicamento nel virtuale che genera impoverimento di linguaggio e accorciamento del pensiero, atrofizza la nostra autocritica e ci spoglia della nostra identità. Nella postmodernità ha messo radici la fede nei social: una religione laica in cui le masse si affidano all’”ultimo Dio” (Internet) che ci porta nel mondo di Aladino: un clic del mouse sulla tastiera del computer, o una “carezza” al touch screen di un dispositivo mobile, et voilà, si entra nel “villaggio globale” profetizzato da Marshall McLuhan.
Una visione che, da un lato, ci consente, almeno potenzialmente, di accrescere i saperi, la partecipazione, conquistare nuove e più affascinanti forme di socializzazione e dall’altro aumenta la nostra bulimia consumistica. Non ci accorgiamo che siamo sotto gli effetti di una forma mistica: rinchiusi come siamo nel recinto dell’individualismo dove l’io prevale sul noi.
Ormai non riusciamo a renderci conto che viviamo in una società sotto assedio: in cui lo strapotere delle nuove élite organizzate, impegnate a difendere le logiche del mercato, hanno contribuito a rompere i legami che la tenevano unita. Un compito agevolato anche dalla crisi dei corpi sociali intermedi, a cominciare dai partiti politici e dal sindacato, nonché dall’autoreferenzialità dell’associazionismo che in passato è stato un vero punto di riferimento del cittadino.
Non ci accorgiamo, infatti, di essere vittime della solitudine, illudendoci di esorcizzarla facendoci sedurre dalla pubblicità, dai modelli televisivi e dagli amici della rete che con una semplice azione di “delete”, improvvisamente, annegano nella liquidità del web. Il digitale con i suoi strumenti ha contaminato anche il mondo dell’informazione, così diverso dal cosiddetto “giornalismo romantico”: quando gli addetti alle redazioni e i corrispondenti si accostavo alle fonti scarpinando con la maglietta madida di sudore e i più fortunati avevano la possibilità di spostarsi in sella alla Vespa di papà.
È vero che nell’era digitale tutti siamo diventati giornalisti, politologi, e, finanche, giudici severi: accusiamo, condanniamo, assolviamo dopo processi mediatici che spesso portano alla distruzione della dignità umana, ma non è così che rendiamo meno violenta l’attuale società. Moderazione dunque, e basta con un giornalismo strillone e partigiano che, dall’alba al tramonto (ma anche la notte), avvelena il clima politico costringendo il telespettatore a scegliere se diventare guelfo o ghibellino. E nel rispetto del sacrosanto diritto di cronaca e critica, diventa improcrastinabile porre al centro del lavoro la dignità delle persone. Le parole, i sussurri provenienti degli ambienti investigativi e le illazioni raccolte in maniera irresponsabile non contribuiscono alla formazione della prova, né davanti ai veri giudici, né dinanzi al “tribunale del popolo” che, da dietro le tastiere, si erge a organo supremo di valutazione dei comportamenti delle persone.
Antonio Latella -giornalista e sociologo (presidente Associazione Sociologi Italiani)
Se sulla sua musica “degustibus non disputandum est”, molto da dire, invece, vi è sul rispetto per le persone e le cose. E non basta un nome d’arte per sentirsi al centro dell’universo al punto da devastare il palcoscenico di Sanremo.
<<== Antonio Latella sociologo e giornalista
Una licenza artistica? Macché! Un’improvvisa rabbia, o mania di protagonismo? La prima non è certo un alibi, mentre il secondo rivela arroganza – ci consenta, Sig. rapper o cantante che sia – violenza, mancanza di riguardo, innanzitutto nei confronti del Capo dello Stato e, finanche, un duro attacco ai nostri valori di civiltà. Valori, ahinoi, sempre più contaminati dal clima di incontinenza verbale e fisica che è una delle caratteristiche dell’attuale società globalizzata.
Sanremo è un avvenimento identitario della nostra cultura musicale che, nonostante una metamorfosi lunga oltre 70 anni, non ha perso il fascino di una kermesse che aggrega milioni di italiani, e non solo di nostri connazionali, i quali restano in messianica attesa fin dall’estate precedente.
Eppure con l’inno di Mameli la serata inaugurale del Festival ci aveva fatto vivere un momento di grande emozione e di spirito patriottico. Proprio per questo, anche se non siamo giudici, non possiamo non osservare che quella scena, quasi isterica, non è passata inosservata a tutti quei bambini, adolescenti e giovani che hanno assistito al Festival davanti al piccolo schermo.
L’espressione popperiana “televisione cattiva maestra” non si riferisce tanto al mezzo, quanto ai messaggi che veicolati dalla fonte influenzano, spesso in modo negativo, milioni di telespettatori, in particolare le fasce di età più esposte al rischio dell’emulazione.
Ci rendiamo conto che è facile ragionare con senno di poi, di cui manzonianamente son piene le fosse, specie quando un episodio del genere si consuma nel corso di uno spettacolo in diretta. Quanti, come chi scrive, si sono ritrovati per anni a dover affrontare il bello (e il brutto) della diretta sanno che esiste una componente di alea con cui bisogna fare i conti. Ma è lecito domandarsi se la poderosa macchina organizzativa del Festival abbia fatto tutto il possibile, per ridurre al minimo il rischio di sortite come quella di martedì sera.
Ci si domanda, dunque, se gli artisti che si avvicendano sul palcoscenico del teatro Ariston siano preventivamente chiamati a sottoscrivere un codice etico o deontologico, visto che si esibiscono davanti a un pubblico di milioni di persone di ogni età; e, ancora, se siano previste delle sanzioni – come una multa o l’esclusione dalla gara – nel caso di comportamenti che possono offendere la sensibilità degli spettatori. Nel passato non sono mancate occasioni in cui, ad esempio, alcuni artisti hanno caratterizzato le loro esibizioni con comportamenti o con usi inappropriati di simboli religiosi, che hanno turbato le coscienze di tante persone.
Possibile che, per uno show che viene preparato nei dodici mesi precedenti, non sia stato trovato ancora un modo per impedire performance sopra le righe? In attesa di una risposta all’opinione pubblica, che probabilmente non arriverà mai, è fondato il sospetto che, tutto sommato, questi episodi servano ad aumentare l’audience, con l’involontario aiuto di quanti abboccano all’esca di simili comportamenti. Proprio come noi, che stiamo qui a scriverne.
In questo libro, i due Autori G.Pellegrino e U.Telarico, prendono in considerazione uno degli elementi caratterizzanti il moderno scenario ufologico, ovvero la nascita di nuovi culti mistico-religiosi derivanti dal fenomeno degli Oggetti Volanti Non Identificati quali manifestazione di entità sovraumane di origine extraterrestre, nel senso più generale del termine.
Alla domanda come nascono tali nuovi culti, gli Autori hanno risposto che si tratta di religioni che hanno come fondatori i cosiddetti “contattatati“, ossia individui che affermano di aver incontrato gli alieni (in genere più volte e di continuare ad avere tali esperienze fisiche e/o telepatiche), e di aver ricevuto da questi la missione prometeica di diffondere un messaggio -in genere di monito sul dissennato stile di vita e comportamento etico umano e/o di natura millenaristica-, e cioè una missione da compiere per loro conto sul nostro pianeta.
La missione di coloro che affermano di essere -al pari dei più noti profeti e santi citati nei testi sacri delle tradizionali tre principali fedi monoteiste diffuse in seno all’umanità quale quella ebraica, quella cristiana e quella musulmana-, consiste nel diffondere tra gli umani miscredenti i messaggi degli alieni in veste di creature angeliche e/o vere e proprie divinità.
Gli storici delle religioni hanno messo in evidenza come, in tali nuovi culti, esistono delle correlazioni teologiche e dottrinali comuni a molte altre religioni tradizionali, in particolare sotto la dimensione soteriologica, quella escatologico-messianica e quella apocalittica. In tali neo-culti religiosi, difatti, la dimensione soteriologica vede le entità aliene -padroni della tecnologia UFO-, come veri e propri salvatori cosmici. Sotto la dimensione escatologica -molti di tali gruppi contattisti- vedono l’arrivo degli alieni come l’inizio degli “ultimi tempi prima di un cambiamento epocale in seno all’umanità, una sorta di transizione verso la perduta “età dell’oro” riferita nella maggior parte dei miti delle antiche civiltà. Sotto la dimensione teologico-messianica, detti gruppi vedono gli alieni come veri e propri “messia cosmici” con tutti gli annessi e connessi del caso. Infine, in alcune di tali religioni ufologiche, è presente anche la dimensione apocalittica ciò in quanto, i gruppi neo-religiosi in questione, sostengono che, essendo le creature aliene degli emissari di Dio, al pari degli angeli descritti nella maggior parte dei testi sacri tradizionali, avrebbero la missione di punire il genere umano scatenando una vera e propria “apocalisse finale o armageddon”.
Secondo molti studiosi e sociologi delle religioni, i “contattati dagli alieni” sarebbero i “nuovi profeti dell’era spaziale“; ciò in quanto -in tali figure guida- sono state individuate molte caratteristiche presenti nel profetismo delle religioni tradizionali. Tali studiosi, difatti, hanno evidenziato come, detti contattati, possono rientrare senza problemi nel “pattern del profetismo” egregiamente descritto dallo studioso tedesco Max Weber. Secondo quest’ultimo, difatti, tali “profeti cosmici” si possono suddividere in due grandi categorie: Quella dell’emissario e quella dell’esemplare. Secondo alcuni sociologi delle religioni, i contattati da entità aliene (ossia coloro i quali, in tutta buona fede e non certo per mero calcolo di tipo economico e/o personale, ritengono di essere stati “scelti” per un tale arduo compito di predicazione messianica), rientrano nella tipologia weberiana dell’emissario in quanto, costoro, sono convinti di essere stati “scelti dagli alieni” in veste di emissari e/o essi stessi divinità provenienti dallo spazio o da altre dimensioni eterico-spirituali.
In tali nuovi culti religioni para-ufologici, la narrazione teologico-dottrinale è una commistione -per lo più confusa e addomesticata a proprio uso e consumo- tra determinati low-motive delle principali religioni tradizionali, gli sviluppi tecno-scientifici tipici dell’era post-industriale e i temi cari alla fantascienza del 21° secolo.
In definitiva, gli Autori del testo in oggetto G.Pellegrino e U.Telarico, mettono in evidenza come, tali neo culti para-ufologici, attribuiscono nuovi significati -adattati ai tempi- della tradizionale dimensione religiosa, ormai chiaramente in declino per vari motivi storici, dottrinali ed etico-comportamentali.
Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead, quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra.Ma non fu cosi.
<<== Carmela Cioffi
Mead disse che il primo segno di civilta’ in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiego’ che nel regno animale,se ti rompi una gamba , muori.Non puoi scappare dal pericolo,andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo.Sei come le bestie predatrici che si aggirano intorno a te.Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perche’ l’osso guarisca.
Un femore rotto che e’ guarito e’ la prova che qualcuno si e’ preso il tempo di stare con colui che e’ caduto, né ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi( Curare prendendosi cura).Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà e’ il punto preciso in cui la civiltà inizia . Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili e’ questo”. Non c’e’ più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una societa’ che lascia l’ individuo solo, con il suo senso di smarrimento,la sua paura incoscia, legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani. Il paradgma odierno riconosce nel malato un portatore di disordine sociale e il malato diviene immediatamente “soggetto altro” allontanato dalla comunita’,a cui apparteneva fino a qualche momento prima,viene isolato dalla comunita’,medicalizzato e raramente curato dalla sua famiglia.
Una società che cura la malattia con attenzione prettamente chimica e farmacologica. Se il primo segno di civiltà in una cultura è stato, come fosse indicare Mead, aiutare qualcun altro nelle difficoltà, allora la salvaguardia di questa civiltà’ nella cura della comunità e nella pratica quotidiana della cura dell’individuo in quanto persona, in ogni suo aspetto, nella ricostruzione di legami emotivi e relazionali, al di là se si vive in un villaggio o in una città .E’ in questo momento storico, ora ,diventa necessario avere una visione con dimensione universale e di futuro, una visione che non si riduca a pensieri alla stregua di carità e assistenza. Una solidarietà e condivisione che superi la sfera dell’individuo ,o di gruppi di individui e che si evolva come pilastro .Questa ci aiuterà ad individuare una diversa prospettiva del significato di civiltà ,dove la cura o meglio il prendersi cura assume la funzione di dono e reciprocità. Dove il prendersi cura di se,’ dell’ambiente, degli altri ,del malato diventa una produzione che nessuno può fare a meno.
Vorrei condividere con voi la lettura di un bellissimo saggio ,avendo avuto la fortuna di incontrarlo lungo il mio percorso intrapreso ,essendomi accostata agli studi sociologici. “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, rivolge il suo sguardo ai casi clinici che gli si presentano, trattandoli come se fossero delle storie impregnate da risvolti curiosi e arrivando a romanzare questi dolorosi percorsi di vita. Lo fa, rivolgendo nei confronti di essi uno sguardo carico di umanità e di empatia. Viene evidenziato quel processo di umanizzazione ,che ogni me dico dovrebbe mettere in atto, quel medico che ci sa ascoltare in quanto prima di tutto ha davanti a se’ persone con un bagaglio di emozioni, solitudini, stati emotivi, intelligenze e mondi sommersi e mai raccontatili paziente non è soltanto una sterile, fredda e asettica cartella clinica.
Il medico sognato e mai incontrato,quell’uomo che appartiene insieme alla scienza e alla malattia,mettendo in evidenza il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarieta’ attraverso un processo di convivenza al disagio.La cosa più entusiasmante che in nessun suo caso ho mai avuto la percezione che queste persone “anormali” fossero pazze,ma sempre persone speciali,perche’ speciali sono agli occhi di chi li racconta.
Non ho mai intravisto casi,ma persone e non esistono ostacoli che non possono essere superati se sappiamo vedere oltre la disabilita’ e la malattia,e’ come se in ognuno di noi possa emergere un talento che puo’ farci sentire speciali nonostante la malattia. E ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto,un racconto interiore la cui continuita’,il cui senso e’ la nostra vita,ognuno di noi costruisce e vive un racconto e che questo racconto e’ noi stessi,,la nostra identita‘.
Il mio vissuto né fa da padrone, immergendomi e sommersa in questa realtà ,accudendomi dei miei genitori ,prima di mia madre ,la quale non ce l ha fatta ed oggi di mio padre malato oncologico, sono stati anni in cui ho stratificato in me una crescente, disincantata, amarezza forse anche in relazione alle mie iniziali aspettative , in cui avevo immaginato che il medico, l’infermiere o chiunque svolgesse una professione di aiuto, fosse una sorta di missionario. Persone con una predisposizione particolare, con un indole umanitaria protesa al conforto, che li rendesse in grado di affrontare l’arduo compito di curare, da un punto di vista strettamente strumentale e medico, e nello stesso tempo di accogliere, confortare, in altre parole “prendersi cura”.
Nel mio semplice ruolo, i due concetti del curare o prendersi cura che non sono per me in contrapposizione, ma dovrebbero ‘fondersi’ in una collaborazione continua, in un interscambio dai confini sfumati in cui sia semplice e naturale curare la persona fisica e nello stesso tempo prendersi cura dei suoi aspetti più intimi e profondi. Premetto che, in base all’esperienza che ho accumulato sul campo, ho scelto di dare voce soprattutto a ciò di cui sono stata testimone e che ruota intorno alla persona malata, mio padre. Ho sempre immaginato che il medico fosse uno specialista la cui professione ha per oggetto “la cura dell’anima”. E non può esserci “cura dell’anima” senza “prendersi cura” delle persone. E non un continuo volersi comunque interrogarsi, mettersi in discussione, un voler andare oltre la conoscenza teorica, i dogmi scientifici, il punto di vista dei super sapienti.
In questo arduo confronto, la relazione medico- paziente, MALATO e MALATTIA, è resa ancora più insanabile dai vari operatori del settore che rischiano sempre più di identificarsi con il sapere e saper fare, ma non con il saper essere. E’ in questo contesto che emerge la privatizzazione della sofferenza e un dilagante sentimento di solitudine che non permette all’uomo malato di parlare del proprio dolore, dei propri bisogni e necessità, di fronte al quale penso quanto mai sia urgente riaffermare la “centralità” della persona, soprattutto quella che soffre, ammalata e quindi vulnerabile.
“Pazienti” pronti a subire, accogliere, sopportare (a seconda dei casi e della fortuna), i disagi conseguenti a una vicenda di malattia che riguarda il corpo: il suo guastarsi, il perdere per strada il corretto funzionamento, spesso il suo dolore fisico e’ tangibile. Sono ,invece, esseri umani che vivono intorno all’esperienza del dolore, perplessità, dubbi, preoccupazioni non esprimibili, con un notevole carico di emozioni profonde, sentimenti intensi verso la malattia, di cui nessuno si occupa. Lontani dalla loro abituale condizione sociale e familiare, trapiantati in una situazione, quella ospedaliera, del tutto o quasi indifferente, i malati vivono grandi momenti d’inquietitudine, di ansia, paura e persino panico. Depersonalizzati fin dal primo momento, vivono in balia di eventi sconosciuti che non possono dominare né correggere.
E cosi, sempre piu’, le voci di pazienti smarriti, spaventati, disorientati a fronte di poche persone dell’ambiente sanitario , pre-disposte a colmare la devastante angoscia di vuoto e di morte che la malattia, la solitudine nella malattia, spesso generano. Pazienti abbandonati dalle famiglie, genitori ‘dimenticati’ o ‘parcheggiati’ in ospedale dai propri figli. Pazienti la cui dignità è continuamente lesa, la cui privacy è negata.In un contesto così disumanizzato, il paziente depersonalizzato, sperimenta un ruolo essenzialmente passivo, e’un ‘contenitore da riempire’ e, a conferma dell’immaginario collettivo diventa solo un numero, una patologia. Ciò non toglie che medici e personale sanitario si stanno occupando di loro curandoli, ma di certo non ci si sta prendendo cura di loro.
Ritmi di vita pressanti, preoccupazioni, stanchezza, mancanza di consapevolezza, a volte solo distrazione, rendono capace di curare con efficienza, ma non di prendersi cura con efficacia. L’empatia è quella capacità, che potremmo dire, ci consente di ‘leggere tra le righe’ di ciò che ci viene raccontato andando oltre quelli che sono i nostri propri schemi di attribuzione di significato. Sapersi calare nell’esperienza emozionale dell’altro, ci consente di provare ciò che l’altro prova, di sentirsi non solo al suo posto ma nella sua pelle.
Solo se chi si occupa della persona malata, riesce ad individuare modalità in cui il paziente si senta coinvolto e partecipe nell’intero processo, il CURARE può trasformarsi in prendersi CURA . Le capacità empatiche del medico emergono proprio nel riconoscimento di valori e potenzialità, di diritti e doveri, di bisogni e di opportunità, di realtà e di sogni del paziente che, se condivisi ,consentono a chi cura e a chi è curato di non focalizzare l’attenzione solo sulla malattia, ma ampliare il proprio campo visivo ad una visione d’insieme che mette medico e paziente, in grado di incontrarsi ed interagire nella dimensione del rispetto, con il coraggio e l’umiltà del medico di accettare in modo neutrale i modi, tempi, scelte del paziente.
La ‘narrazione’ è una delle metodologie di ricerca qualitativa fra le più adatte. Già da alcuni anni ‘LE STORIE DI CURA” sono strumenti che non solo permettono di guardare con chiarezza nella vita dei malati come gli altri strumenti tecnici permettono di guardare nei loro corpi, ma anche di accogliere e sostenere il legame umano fra paziente e professionista. La raccolta della storia clinica, importantissima ai fini della diagnosi, diventa allora uno strumento di recupero di preziosi frammenti di passato. Tramite i “contenuti narrati” si cerca di creare idonei ponti relazionali fra il processo di cura e il vissuto della stessa persona malata, affinché conservi l’umanità di tutta la propria esperienza di malattia evitando rassegnazione, illusioni o eccessive aspettative, accanimento o tentazioni di abbandono terapeutico. La persona malata potrà sentirsi unica e non solo un caso clinico se scoprirà che anche per il medico è importante quello che si dice, importantissimo come si dice ma di fondamentale importanza è a chi lo si dice.
In ogni situazione va comunque riconosciuto al malato in quanto persona il VALORE e la DIGNITÀ che sono considerati inerenti all’essere umano e che caratterizzano ognuno di noi quale essere unico e differente, con il dovere e il diritto di affermarsi, e realizzarsi in tutta la sua originale pienezza e completezza. Tuttavia quando una persona è colpita dalla malattia, spesso smarrisce il senso della propria dignità e del proprio valore non sentendosi altro che “un malato”.
Di fronte alla malattia, tutto ciò che costituiva il suo mondo perde bruscamente importanza. La sensazione
In molti si sono espressi sul ruolo della donna nel passato e di come si sia evoluto nel presente, in molti si sono espressi anche sulle violenze consumate su quest’ultima, a tal proposito, secondo i report della polizia, i femminicidi nel 2021 risultano essere 118, tra cui 70 per mano del partner o dell’ex.
<<== S.Pulizzi
Ricordiamo che anche il 2022 è stato un anno segnato dai femminicidi, purtroppo si parla di 120 donne uccise, dato in leggero aumento rispetto agli anni precedenti (nel 2019 ce ne sono state novantasei e nel 2020 centodue); inoltre nonostante sia appena iniziato da solo un mese, il 2023 ha visto già 5 vittime. Oggi mettiamo da parte le statistiche e invece di soffermarci sui femminicidi in senso stretto, che rappresentano l’apice della violenza, è bene approfondire da dove nasce quest’ultima, come sorge in un uomo il pensiero di poter arrivare a togliere la vita a una donna, che sia una compagna, la propria madre, la sorella o un’amica.
Queste notizie, già nel momento in cui le ascoltiamo in tv o le leggiamo sui giornali, capiamo ci siano arrivate troppo tardi, in quanto sono ormai irrimediabili, non si può tornare indietro, una vita è stata spezzata e non possiamo più far nulla per impedirlo, ciò che possiamo cambiare in via precauzionale però, è la visione della donna dalla prospettiva maschile, il modo di rapportarsi ad essa. Prima dell’escalation della violenza che porta al femminicidio, il quale rappresenta l’apice della violenza di genere, alla base della piramide si trovano tante altre variabili disfunzionali che vanno combattute.
E’ bene analizzare questa “piramide” virtuale, partendo proprio dalla base, dove troviamo un linguaggio e una comunicazione nei confronti della donna offensiva, sono comprese tutte quelle battute sessiste, omofobiche, trans fobiche e la visione della donna oggetto. Salendo la piramide, vi è l’idea di incanalare la donna nei ruoli tradizionali, le discriminazioni sul lavoro e i rigidi stereotipi di genere, salendo ancora troviamo le minacce, l’abuso verbale e le molestie, tutto ciò prepara il campo per l’abuso fisico, emotivo o finanziario, per arrivare poi alla violenza sessuale e in fine all’omicidio. Sono in molti, quelli che ancora non hanno compreso le varie forme di violenza ma che si soffermano solamente su quella fisica, sulle azioni violente, in realtà le donne possono essere vittimizzate sotto più aspetti della propria vita.
Le varie forme di violenza
La violenza femminile si manifesta in vari modi, andiamo ad analizzarla:
La violenza fisica sicuramente è quella che salta maggiormente all’occhio, comprende calci, pugni, schiaffi, bruciature, spinte, una tipologia di violenza che viene presa maggiormente in considerazione e anche quella che ci sconvolge di più poiché rispetto alle altre, lascia segni più evidenti, come lividi, ematomi, cicatrici, proprio per questo ha un impatto visivo più forte su dinoi. Ciò su cui è importante focalizzarsi però e ciò che troppo spesso passa anche in secondo piano, risulta essere la violenza psicologica, che può risultare come qualcosa di futile, inutile o meno grave rispetto ad altre forme di violenza, ma in realtà è la forma più subdola, concerne qualsiasi comportamento volto a ledere l’identità e il rispetto della persona, avviene solitamente tramite l’uso di un linguaggio denigratorio formato da appellativi ed epiteti volti a svalutare il più possibile la donna. La comunicazione verbale e in più un linguaggio del corpo coerente con quello che diciamo può arrivare a penetrare dentro il nostro interlocutore provocando un malessere non indifferente nei confronti delle donne, tutto parte da qui.
Questo è il caso in cui molti uomini prima di arrivare alla violenza tentano in tutti i modi di distruggere psicologicamente le donne che si rendono conto di non poter controllare, perciò procedono facendole sentire sbagliate, dando loro epiteti sgradevoli come definirle delle poco di buono, degli esseri inutili e cercando in tutti i modi di isolarle; purtroppo determinate parole o frasi perpetuate per un lungo periodo di tempo possono avere un effetto deleterio nella mente di una persona, possono devastare l’autostima di una donna e soprattutto perché sentendole pronunciare così spesso determinate parole, quello che accade è che molte volte anche le donne possono convincersi di non valere e di ciò che il loro aguzzino le dice, arrivando a dubitare di loro stesse, cercando di cambiare per compiacere quell’uomo che le richiama “all’ordine”. Un’altra forma di violenza poco indagata e conosciuta riguarda quella economica/finanziaria, in questo caso ci riferiamo al fatto che l’uomo debba avere il controllo e monitoraggio del comportamento di una donna con cui intrattiene rapporti affettivi, in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, esponendola a debiti, o ancora impedendole di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale al fine di limitare la sua indipendenza economica e personale.
Le donne vittime che la subiscono faticano a riconoscerla come vera e propria violenza, a causa di comportamenti che ancora risultano essere culturalmente giustificati, normalizzati e accettati, in particolare quando la vittima è una donna e risulta essere parte di un retaggio culturale il fatto che sia l’uomo a detenere il controllo economico. Degli esempi concreti e lampanti di questa forma di violenza sono: la gestione esclusiva sul conto corrente bancario cointestato,riconosce al partner un compenso periodico rispetto al quale la vittima è tenuta a fornire rendiconti dettagliati delle spese o ancora, negare ad una donna di disporre di una propria carta di credito o bancomat.
La violenza religiosa invece, su cui ci si concentra davvero raramente, consiste nell’impedire alle donne di esprimere la loro religione, di pregare o di frequentare il luogo di culto, questo accade magari all’interno di matrimoni in cui i coniugi appartengono a due orientamenti religiosi diversi. Presente, tra le violenze che una donna può subire, è anche la pratica dello stalking, si tratta di una serie di comportamenti persecutori ripetuti e intrusivi, come minacce, pedinamenti, molestie, telefonate, messaggi o attenzioni indesiderate, tenuti da una persona nei confronti della propria vittima. Questo comportamento mina la libertà della donna che lo sta subendo, in quanto per via dello stato di paura in cui si trova a vivere decide di isolarsi sempre di più, arrivando ad avere il timore anche di uscire di casa, di andare a lavoro, diminuisce al minimo le uscite con amici e parenti, questo la porta inevitabilmente ad all’allontanarsi dall’ambiente sociale e rimanere sola, cosa che in realtà risulta essere l’obiettivo dello stalker. Anche se tutto ciò dovesse terminare nel migliore dei modi quindi con una tutela della donna, allontanando il suo aguzzino, la figura femminile si troverebbe in uno stato di disturbo post-traumatico da stress perché continua ad avere incubi, ansia, attacchi di panico, insonnia, visioni, vive in un continuo stato di paura dato dal luogo periodo in cui è stata sottoposta allo stress del suo stalker.
Il ciclo della violenza
Dall’esterno non si riesce a comprendere come una donna possa rimanere intrappolata in una relazione violenta, molte persone se lo chiedono e le risposte sono molteplici; come abbiamo descritto pocanzi, a volte si rimane insieme ai loro aguzzini anche per bisogni economici, essendo l’uomo il gestore del loro denaro, ma in realtà perché si innesca un circolo vizioso dalla quale è difficile uscire, in letteratura è definito il “ciclo della violenza”, che vede l’alternarsi di tre fasi principali, le quali si susseguono con intervalli sempre più brevi. Inizialmente, l’uomo corteggia la donna, la riempie di attenzioni, gesti amorevoli, si tratta del cosiddetto love bombing, ovvero la messa in atto di comportamenti affettuosi volti a coinvolgere emotivamente per indottrinare, o rendere dipendenti, le persone che si vogliono legare a sé. Questa strategia è molto diffusa si può riscontrare alla base soprattutto anche nei soggetti narcisisti. Passato questo periodo iniziale di idillio, inizia la prima fase di questo ciclo, in cui si instaura un clima di tensione e l’uomo inizia a mostrarsi per quello che è, manifestando un atteggiamento scontroso, iniziano i litigi, inizia il comportamento passivo-aggressivo, i silenzi punitivi dell’uomo, iniziano le umiliazioni e il controllo. La seconda fase del ciclo prevede l’attacco, in cui ha luogo l’escalation della violenza e delle urla, lo stimolo che provoca l’attacco violento è generalmente casuale ma quasi sempre riconducibile a qualche comportamento che viene interpretato dall’uomo come segno di autonomia psicologica della vittima, il timore è quello di perdere il controllo sulla donna e l’attacco è un modo per riconquistare il pieno controllo della situazione.
Successivamente entra in gioco la terza fase, la cosiddetta “luna di miele” caratterizzata dal fatto che il partner di sesso maschile, per paura dell’abbandono, cerca di riconquistare la fiducia della vittima attuando un comportamento premuroso e dolce, lascia perciò spazio a comportamenti di riparazione, seduzione e alle scuse, possono essere presenti anche le minacce di suicidio per scaturire sensi di colpa nei confronti della donna e farsi perdonare, può essere presente inoltre anche lo scarico della responsabilità: spesso si attribuisce la causa della perdita di controllo e quindi di aver usato violenza fisica, psicologica o altre tipologie, a motivi esterni come ad esempio il lavoro, una difficoltà economica, oppure al comportamento stesso della donna. Questa fase è soprannominata lune di miele appunto perché il partner violento cerca di far andare tutto bene proprio come quando si parte per un vero e proprio viaggio di nozze, spesso diventa di nuovo agli occhi della donna l’uomo di cui si è innamorata, mostrandosi desideroso di salvare la relazione. Si tratta di una vera e propria tregua per la donna, in cui si ricomincia a vivere più tranquillamente. Questo tuttavia è un periodo destinato finire, perchè una volta riavuto il controllo della partner, l’uomo tornerà ad assumere di nuovo comportamenti disfunzionali sulla vittima, innescando una nuova fase di tensione e iniziando di nuovo il ciclo. Con il tempo, inoltre, le fasi del ciclo si susseguiranno sempre più velocemente, intensamente e frequentemente
Il ciclo della violenza contempla quindi una continua alternanza di atteggiamenti ostili e violenti con atteggiamenti opposti di cura e affetto; ed è esattamente questa alternanza a rappresentare la prigione da cui può diventare difficile liberarsi: poiché lo stesso uomo procura tanto male tanto quanto il bene che le fa, e questi momenti di tranquillità danno alla donna la forza e la speranza che andrà sempre meglio, perciò invece di troncare una relazione pericolosa, può decidere di dare un’altra opportunità all’uomo, impegnandosi lei stessa per migliorare la situazione. Questo impegno da parte delle donne diventa spesso un rinunciare alle proprie libertà, sottomettersi, fare tutto affinché lui non sia mai scontento, sacrificare spazi personali, restare zitta quando avrebbe invece da ridire, accettare di vivere in una relazione non alla pari. E’ importante prestare attenzioni a tutti i segnali, in particolari i più banali, quelli che minimizziamo in realtà sono proprio quegli indizi, da cui parte tutto; perciò se troppo spesso il linguaggio verbale che ci viene rivolto da parte di un uomo è denigratorio, sessista, aggressivo, denunciare è il primo passo affinché la violenza di genere non i ripercuota per sempre nella nostra vita e sfoci in veri e propri omicidi . Nessuna donna merita di vedere la sua vita nelle mani di un uomo che gliela sta rovinando, anche le parole malvagie vanno denunciate, non solo i gesti, anche il linguaggio è un’arma. L’atteggiamento che può sembrare più banale molto spesso è quello che lascia nel proprio inconscio i segni più dolorosi che una donna si porterà per il resto della vita.
Pregiudizi e stereotipi femminili
Della figura femminile, fin dagli antipodi viene criticata qualsiasi cosa, poiché ci si aspetti che queste corrispondano all’ideale di genere ormai consolidato; viene messo in discussione l’abbigliamento di una donna, il suo modo di rapportarsi agli uomini, il suo lavoro o il lavoro che non ha, questo e tanto altro, a livello psicologico per una donna è dura subire tutto questo, perché mente le ferite fisiche si rimarginano il nostro cervello immagazzina tutto e questo senso di svalutazione continuerà ad attanagliare le donne per tutta la vita. Le nostre azioni sono figlie dei nostri pensieri, se crediamo che qualcosa o qualcuno non valga attueremo dei comportamenti che metteranno in luce quanto per alcuni uomini le donne siano solamente le loro schiave, o l’oggetto di abuso del potere che si sono auto attribuiti. Molto spesso le donne faticano ad uscire da questa situazione anche se non sta loro bene per via della scarsa fiducia e scarso appoggio che viene dato dalle istituzioni, non sentendosi abbastanza protette e supportate. In molti casi di stalking, quando le donne denunciano, ad esempio i pedinamenti subiti o le numerose chiamate telefoniche e minacce, veniva loro detto “raccolga maggiori prove, queste non sono sufficienti” come se le donne oltre a essere vittime debbano anche fare le investigatrici o improvvisarsi agenti di polizia degli stessi reati che subiscono, comprendiamo a questo punto che secondo la loro visione diventi scoraggiante tutto questo, è scoraggiante vedere ogni azione minimizzata, vedere ogni prova essere non sufficiente. Se le istituzioni bloccassero sul nascere tutto questo, il linguaggio, “le battute” , se si prendessero provvedimenti più seri per l’abuso verbale e tutte le altre forme, alla stessa stregua dell’abuso fisico, probabilmente molte donne si sentirebbero più tutelate e protette.
Anche perché in questo modo le vittime subiscono oltre alla vittimizzazione primaria quindi quella causata dal loro aguzzino, anche una vittimizzazione secondaria, dalle istituzioni, dagli agenti di polizia, dai media, da chi non le ascolta e supporta. Ricordiamoci che tutto nasce dalla base della piramide quindi è necessario rieducare ad una cultura di rispetto e sensibilizzazione nei confronti delle donne. Sottolineiamo che è importante per le donne vittime della spirale della violenza psicologica, fisica e non solo, capire che non sono sole, ma che hanno la possibilità di essere accompagnate, ascoltate e sostenute in un percorso di liberazione accedendo al supporto di uno psicologo online, ma anche all’aiuto psicologico, legale e informativo dei centri antiviolenza.
* Dott.ssa Sofia Pulizzi – sociologa e criminologa
La sociologia è una disciplina sottovalutata ancora da molti, da altri poco conosciuta invece. <<<= E. Durkheim
La sociologia è una disciplina sottovalutata ancora da molti, da altri poco conosciuta invece. Si parla di psicologia, si parla di economia, si parla di criminologia ma poche volte viene citata la sociologia e l’importanza che ha e ancora una volta in pochi sanno che quest’ultima si posiziona alla base di tutto. La sociologia infatti è la scienza sociale che studia i fenomeni della società umana, indagando anche il rapporto tra il singolo individuo e il gruppo sociale, in particolar modo si tratta dello studio scientifico della società. A tal proposito, mi soffermerò sulla relazione tra l’individuo e il gruppo sociale. Cosa succede quando un individuo entra a contatto con un gruppo? Con una folla?
Ogni caso è a sè naturalmente, dipende da che tipologia di gruppo si tratti, (un gruppo di delinquenti, un gruppo di scienziati), quello su cui è importante focalizzarsi è il cambiamento che si nasce nel soggetto ogni qualvolta viene a contatto con un qualsiasi gruppo sociale. Se quell’uomo non si fosse trovato in quel ambiente, in quel determinato momento e se non fosse stato assalito dalle suggestioni del gruppo , avrebbe ugualmente assunto quell’atteggiamento o si sarebbe comportato in maniera diversa?
Tutti noi abbiamo comunemente l’idea di cosa sia un gruppo o una folla: l’associazione che la nostra mente fa pensando a questo concetto è riferita ad un gruppo di persone riverse per strada o in un luogo dove ci sia tanto spazio, definiremo la folla o il gruppo come un ammasso di individui insomma. L’anima collettiva della folla non è l’anima dei singoli individui che la compongono ma è una vera e propria neoformazione che si viene a creare, ha una propria fisionomia, una propria estetica, un proprio ideale e più numerosa è la folla più aumenta negli individui il senso di de responsabilità, decresce invece l’autonomia e l’iniziativa personale dei singoli soggetti
Nel passato, molti autori, scrittori, sociologi, psicologi, si sono dibattuti su tale argomento, uno tra questi fu Scipio Sighele, il quale definiva la folla come propensa al male, affermando che da essa non nasce nulla di buono. Secondo la sua teoria, le qualità migliori dei singoli individui all’interno del gruppo si elidono per lasciar spazio all’insorgere di quegli stati primitivi e violenti, per queste ragioni le folle erano considerate un brutale pericolo.
Un altro contributo importante che arriva dal passato è quello di Gabriel Tarde, colui il quale ha messo in evidenza il concetto di IMITAZIONE, è proprio quest’ultima, secondo l’autore, che permette al gruppo di aggregarsi e trasformarsi in un movimento di massa, definendo l’individuo all’interno di un gruppo come “una particella oscillante nei flussi costanti dell’interazione.” Come dargli torto, se pensiamo alla nostra quotidianità ne abbiamo la prova, esempio lampante sono le sale da teatro o le assemblee o ancora le riunioni politiche dove un solo applauso o un solo fischio bastano per influenzare il resto del pubblico che sta vivendo quella situazione, la sta osservando, ne prendo esempio e la mette in atto.
E’ importante mettere in luce però, come l’immersione di un singolo individuo all’interno di un gruppo, non ha solo aspetti negativi, anzi, secondo un giornalista e scrittore statunitense James Surowiecki, il gruppo o la folla può essere anche saggia, intelligente affermando che le nostre capacità di giudizio singolarmente imperfette, se si aggregano nel modo giusto fanno si che l’intelligenza collettiva possa diventare eccezionale. . Al giorno d’oggi, un esempio che rappresenta perfettamente l’applicazione concreta della teoria sopra descritta è la piattaforma Wikipedia, il termine sta a significare “cultura veloce” è uno dei siti come sappiamo più visitati al mondo e dal quale noi attingiamo per saperne di più, una vera e propria enciclopedia moderna potremmo definirla.
Si tratta di una piattaforma gratuita basata sulla libertà di pensiero di tutti coloro i quali ne fanno parte, allo stesso tempo è composta da una community molto rigida che controlla ogni contenuto che viene pubblicato; in quanto è scontato dire che ogni affermazione deve essere corretta e attendibile. Il rischio più grande quindi è quello di scommettere sul sapere comune, di dar fiducia ad un gruppo molto ampio di individui e per la prima volta grazie alle nuove tecnologie viene data importanza all’intelligenza di massa, al fatto che più individui insieme possano fare del bene.
Questo era il concetto di cui parlava James Surowiecki, la saggezza della folla. Un’altra piattaforma internet che incarna perfettamente la teoria dello scrittore statunitense è Yahoo, si differenzia da Wikipedia perché chi decide il valore di un’affermazione, quindi se è vera o falsa, se poter fare affidamento su di essa o meno, é il lettore. Yahoo offre diversi spunti su cui riflettere, permette di venire a conoscenza di una vasta gamma di informazioni ed esperienze altrui. Quello che possiamo esplicare con certezza è che, il periodo storico, le nuove invenzioni, le tecnologie e tanti altri fattori hanno influenzato il pensiero della folla, i connotati che vengono associati ad essa.
. Riguardo questa tematica, sociologia e psicologia sociale si intersecano, quest’ultima disciplina ci espone come i fattori di questi cambiamenti che avvengono nel singolo individuo nel momento in cui entra a contatto con un gruppo, avvengono per il senso di potenza invincibile che si viene a creare per via della numerosità di soggetti che sente al suo fianco, in secondo luogo per la suggestionabilità, ovvero un annullamento della personalità cosciente e un predominio della personalità inconscia. In terzo luogo, ha importanza anche il meccanismo di contagio attraverso il quale gli individui tendono ad uniformarsi gli uni agli altri, meccanismo che potremmo definire influenza pluralistica.
Non si può negare che tutti noi cambiamo i connotati del nostro essere dinnanzi ad un gruppo, ci plasmiamo in base a quello che gli altri vogliono vedere di noi, per essere accettati magari, lo facciamo consapevolmente o senza accorgercene. Più concretamente, conosciamo tutti quella categoria di persone che comunemente definiamo introverse, timide, riservate, impacciate e insicure, questi soggetti, sapendo che esiste un gruppo che condivide le loro paure, ansie, preoccupazioni farà di questo gruppo il veicolo attraverso il quale dar voce ai suoi pensieri, quindi il gruppo, in questo caso, diventa un vero e proprio megafono per chi fino a quel momento aveva vissuto ai margini.
Anche al contrario però, è appurato che da soli faremo cose che dinnanzi ad una folla non ci sentiremo nella condizione di fare, per pudore, riservatezza o privacy. Crediamo di vivere in un mondo che si sta dirigendo sempre più verso un duro individualismo ma in realtà sentiamo il bisogno della condivisione con gli altri, è un bisogno innato, questo perché in realtà certe volte è un sollievo abbandonarsi alle convenzioni sociali e non dover valutare ogni situazione con occhio critico, perché costerebbe troppa fatica e tutti sappiamo che alla gente piacciono le strade più facili.
Ricordiamo sempre che tutto ciò che abbiamo detto ha un valore probabilistico, non si tratta di una verità scientifica assoluta, in quanto gli esseri umani sono così diversi tra loro e quando questi si uniscono tutto diventa così irrazionale e mai scontato. Non possiamo prevedere come reagiranno due individui che interagiscono insieme per un determinato periodo di tempo o i cambiamenti caratteriali che subirà un individuo se lo spostiamo da un gruppo ad un altro, possiamo solamente studiare caso per caso, persona per persona e gruppo per gruppo per avere un’analisi precisa. Quello che possiamo certamente affermare però è che un individuo cambia il suo modo d’essere a seconda del contesto, gruppo, luogo o persona si trovi davanti.
Le cronache dell’arresto di Matteo Messina Denaro riportano che il “mamma santissima” di Campobello di Mazara, nel corso della sua latitanza, leggeva le biografie di Hitler e Putin. Francamente, non sappiamo se per fare una comparazione tra la guerra di mafia e i crimini riconducibili ai due dittatori, o se per un semplice arricchimento culturale.
<<<<== Antonio Latella
In questo l’ex primula rossa si è dimostrato agli antipodi rispetto alla latitanza dei boss della ‘ndrangheta che nei loro covi, prima di tutto, tappezzano le pareti con figure sacre. Al di là di questo non insignificante dettaglio, entrambe le mafie operano con un una struttura piramidale e hanno un grande alleato: l’omertà che taglia trasversalmente i territori criminali di loro competenza.
Con una differenza: le cosche della ‘ndrangheta, in prevalenza, sono caratterizzate dal vincolo di consanguineità e, pertanto, hanno maggiore impermeabilità al pentitismo. Nel caso di cosa nostra siciliana, invece, non è così e questo spiega come da oltre trent’anni il contributo dei collaboratori di giustizia sia stato particolarmente rilevante per la scoperta dei lati più oscuri di questa organizzazione.
Ma proprio in considerazione di ciò, la vicenda dell’arresto di Messina Denaro evidenzia la rete di omertà che potrebbe averlo protetto a Campobello di Mazara. Appare, infatti, inverosimile che in una comunità così piccola, nella quale tutti si conoscono, nessuno avesse idea di chi fosse quell’uomo, cresciuto proprio lì, e che conduceva una vita “normalissima”: andava a curarsi in una clinica privata, dove peraltro si faceva fotografare con il personale sanitario (strano che un anonimo paziente potesse essere compagno di conversazione con medici e paramedici) e, addirittura, si è recato in una concessionaria di automobili acquistando una Giulietta in contanti. Il tutto, con al polso un orologio del valore di 35mila euro.
Anche per questo l’operazione dei carabinieri del Ros assume grande rilevanza investigativa, sommata alla professionalità, la costanza, i sacrifici e, per certi versi, la solitudine degli uomini del generale Pasquale Angelosanto. Un autentico capolavoro di intelligence, seguito dal blitz che ha portato alla liberazione di un vastissimo territorio dalla presenza di un catalizzatore di illegalità che, come un virus, aveva contagiato cittadini di diversa estrazione sociale.
Ma come in tutte le battaglie non sono stati in pochi a salire sul carro del vincitore: dalla politica all’associazionismo antimafia, sempre pronti a suggestionare l’opinione pubblica che scende in piazza saltellante e ballante prima di rientrare nei ranghi della normalità. L’impegno antimafia è qualcosa di diverso rispetto alle coreografie e ai titoli giornalistici: la lotta contro questa specie di leviatano deve partire dalla scuola, con progetti extra curriculari di rigenerazione socio-culturale. Tutti auspichiamo il cambiamento ma non facciamo nulla perché ciò avvenga. E non è un caso che questa storia sia ambientata nella meravigliosa Sicilia, la terra di Tomasi di Lampedusa, che nel suo Gattopardo ci ha lasciato una frase storica: “Perché tutto resti com’è, è necessario che tutto cambi”.
Un possibile modello da integrare, sull’esempio delle altre regioni.
Introduzione
Il Servizio Sanitario della Regione Sardegna è articolato nei seguenti enti di governo: Azienda regionale della salute (ARES), Aziende socio-sanitarie locali (ASL), Azienda di rilievo nazionale ed alta specializzazione (ARNAS), Aziende ospedaliero-universitarie (AOU) di Cagliari e Sassari, Azienda Regionale dell’emergenza e urgenza della Sardegna (AREUS) e Istituto zooprofilattico della Sardegna (IZS). In particolare, in Sardegna vi sono 8 aziende ASL (Sassari, Olbia, Nuoro, Lanusei, Oristano, Sanluri, Carbonia, Cagliari) e un’Azienda Ospedaliera (“Brotzu”) in grado di offrire tre tipologie di assistenza sanitaria: collettiva, distrettuale e ospedaliera.
Per l’assistenza “collettiva”, facciamo riferimento a tutti quegli adempimenti in merito ai contesti di vita e di lavoro, come la profilassi contro le malattie infettive e parassitarie, la prevenzione dei rischi ambientali e infortunistici, le attività di medicina legale, il controllo igienico degli alimenti e l’assistenza veterinaria. Con assistenza “distrettuale”, invece, si fa rimando a tutti quei presidi e professionisti sanitari che sono dispiegati sul territorio regionale e che, attraverso una serie di servizi assistenziali, garantiscono le prestazioni sanitarie di base, quelle farmaceutiche, l’assistenza integrativa alimentare, l’assistenza specialistica ambulatoriale e domiciliare.
Infine, con assistenza “ospedaliera” intendiamo
quell’insieme di attività che vengono erogate attraverso i presidi ospedalieri
gestiti dalle ASL e dalle aziende ospedaliere afferenti, come il pronto
soccorso, i ricoveri in degenza ordinaria, day hospital e day surgery, nonché
interventi ospedalieri a domicilio, prelievi, trapianti, ricoveri per
riabilitazioni e altre prestazioni sanitarie di questo genere.
Per far fronte a un numero così alto di prestazioni
sanitarie equamente divise sul territorio tra assistenza collettiva,
distrettuale e ospedaliera, il Servizio Sanitario della Regione Sardegna deve
aver a disposizione un numero congruo di medici che, stando alle ultime
rilevazioni, viene a mancare, in particolare per le Unità Operative ad alta
specializzazione.
Conseguentemente all’assenza dei medici, si dimezzano, pertanto, anche il numero (e la qualità) di servizi sanitari e assistenziali offerti alla popolazione sarda nei vari territori delle ASL. A volte, ma non esclusivamente, anche per una ragione di razionamento dei costi del servizio sanitario regionale. Al fine di contrastare la carenza di personale e, quindi, garantire al contempo un alto livello e numero delle prestazioni sanitarie come sopra indicato, si è pensato all’avvio di un modello “a pendolo” costituito da equipe itineranti, sull’esempio di quanto fatto da altre regioni italiane. L’ausilio di un modello fondato su equipe di medici itineranti sul territorio, che rivoluzionerebbe il paradigma sanitario sardo finora in vigore, consentirebbe di spostare le equipe di specialisti laddove necessario, garantendo al contempo le coperture territoriali e l’alto livello di professionalità. Tale modello si integrerebbe con il Piano Regionale dei Servizi Sanitari 2022-2024 attualmente in vigore in Sardegna, sull’esempio, peraltro, di quanto fatto da altre regioni italiane.
Le ragioni alla base delle equipe itineranti
In ragione della frammentazione dei territori e, al
contempo, della complessità delle patologie, nonché della presa in carico
“multidisciplinare” delle stesse, all’interno delle tradizionali idee di
modelli sanitari si stanno facendo largo nuove concezioni di assistenza. Per
tale motivo, negli ultimi anni si sono fatti strada, nei sistemi sanitari di
varie regioni italiane, i modelli di unità multidisciplinari ed equipe
itineranti, le cui funzionalità possono integrarsi vicendevolmente anche nel
sistema sardo.
Secondo l’approccio multidisciplinare, un determinato
tipo di problema, in base alla tipologia, deve essere preso in carico dall’ASL
di riferimento secondo un’ottica “di rete”, ovvero da più professionisti che
possano analizzarne il caso sotto ogni punto di vista, al fine di una globale
presa in carico del paziente. Si tratta ovvero di aggregazioni e meccanismi
organizzativi che fanno convergere più specialità e specialisti per la
risoluzione del problema di salute del paziente che, sul piano organizzativo,
comporta il prendere in carico un problema attraverso articolazioni
organizzative funzionali e trasversali di diverse Unità Operative.
Accade, però, che non sempre l’approccio multidisciplinare può essere adottato in tutti i contesti territoriali di un’ASL, come nel caso sardo, proprio perché in determinate circostanze non si dispone di Unità Operative complete e sufficienti di ogni singola specializzazione medica. La prestazione sanitaria, pertanto, non può essere svolta nella dislocazione territoriale dell’ASL, ma rinviata al presidio ospedaliero centralizzato, con conseguenti estensioni delle liste d’attesa. In queste circostanze, il modello delle equipe itineranti rappresenta la giusta soluzione, in quanto consiste nella creazione di meccanismi di movimento delle Unità Operative sanitarie sui diversi nodi della stessa rete ospedaliera e territoriale.
Secondo l’approccio delle equipe itineranti, ovvero, vi è un cambio di approccio rispetto al modello tradizionale di assistenza sanitaria, seppur intesa nei suoi parametri multidisciplinari e trasversali. Una rottura, in altre parole, del legame tra luogo ospedaliero e cura della malattia, con un’equipe di medici che, invece, si integra nel territorio, apportando la propria professionalità laddove richiesta. Il tutto al fine di garantire una risposta sì “multidisciplinare”, ma adeguata, nonché una distribuzione dei servizi a più elevata specializzazione a livello locale. Le equipe itineranti, in definitiva, rappresentano delle soluzioni organizzative differenti e flessibili per ciascuna rete ospedaliera in relazione alle motivazioni alla base dello spostamento dei professionisti, agli obiettivi da conseguire e alle caratteristiche intrinseche dell’assistenza sanitaria.
Gli esempi delle altre regioni
Un esempio lungimirante di modello di equipe itineranti è offerto dal Servizio Sanitario della Regione Emilia Romagna, che da tempo lo ha sviluppato nelle proprie ASL di riferimento. All’interno della Regione Emilia Romagna, infatti, si è sempre promosso il tema della distribuzione e concentrazione dei servizi sanitari attraverso schemi organizzativi sia intra-aziendali sia interaziendali. In tal senso, ad esempio, l’azienda USL della Romagna, nata nel 2014 dalla fusione di 4 aziende USL, è caratterizzata per un’alta ramificazione nel territorio e da un bacino di utenza che supera il milione di unità. La formazione di un modello basato (anche) su equipe itineranti è partita dalla costituzione di Unità Operative trasversali e, in egual modo, dalla creazione di un modello a rete di tipo multidisciplinare, incentivando la collaborazione tra Unità Operative diverse. I nodi di questa rete, che è stata formata nel tempo, sono costituiti proprio da professionisti che si muovono e connettono sul territorio in maniera multidisciplinare e “a rete”, sopperendo all’eventuale carenza di personale e, soprattutto, sviluppando le proprie competenze a vantaggio dei pazienti.
Questo modello si è reso necessario, in Emilia Romagna, per l’aumentata complessità assistenziale che ha richiesto la concentrazione in pochi luoghi fisici di tutti i servizi sanitari di supporto e delle necessarie competenze specialistiche, soprattutto in casi di complesse attività chirurgiche. È stato quindi fatto uno studio della letteratura per consentire la creazione di equipe itineranti in merito a quelle tipologie di assistenza sanitaria per i quali fosse più complicato garantire una continuità assistenziale dislocata nel territorio regionale (come ad esempio le Unità Operative di Ortopedia, Otorinolaringoiatra, Chirurgia specialistica…). Il modello dell’USL della Romagna permette così di raggiungere con efficienza e competenza anche le “periferie” sanitarie, ovvero quei territori, come quelli di montagna o dell’entroterra, in cui alcune competenze professionali non potevano essere garantite. Con l’ausilio di equipe specialistiche itineranti, infatti, i professionisti si muovono nell’ambito della stessa unità operativa (ginecologi, chirurghi, gastroenterologi) che ha più sedi territoriali, nello stesso dipartimento (radiologi, senologi…) o tra dipartimenti diversi. La costituzione di tali equipe itineranti, pertanto, garantisce una buona risposta alle criticità determinate dalla dispersione del territoriale dovuta all’eventuale carenza di medici.
Entrando più nello specifico nel caso della Regione Emilia Romagna, prendiamo ad esempio l’esperienza dell’ASL di Reggio Emilia, che estende la propria area di competenza nell’omonima provincia situata intorno al centro della regione Emilia Romagna, nella quale risiedono circa 500000 abitanti. Il presidio ospedaliero, in particolare, si compone di 5 stabilimenti ospedalieri che svolgono un ruolo di riferimento fondamentale per rispondere ai bisogni di ricovero e assistenza specialistica della popolazione residente nei distretti. All’interno di questi stabilimenti sono integrati servizi ospedalieri e territoriali, in particolare la specialistica ambulatoriale, il centro prelievi e il CUP. Per alcuni servizi sanitari (Oculistica, Urologia, Endoscopia digestiva…) è stato sviluppato un servizio di collaborazione interaziendale in grado di garantire ai professionisti che fanno parte di Unità Operative complesse una sede fissa, ma al contempo di spostarsi tramite i nodi della rete ospedaliera (con relativo rimborso delle spese di trasferimento per gli stessi professionisti), nell’ottica delle equipe itineranti.
Da questo modello sono nati, peraltro, i dipartimenti interaziendali di radiologia e di emergenza-urgenza, che hanno visto migliorare i servizi sanitari territoriali dati ai pazienti, in merito a tempestività e qualità d’intervento. Altro esempio proviene dalla Regione Toscana, dove è stata istituita l’Azienda USL Toscana centro a partire dal gennaio 2016 con un bacino di quasi un milione e mezzo di persone, 13 presidi ospedalieri organizzati secondo il modello dell’intensità di cura e diffusi capillarmente su tutto il territorio dell’azienda, 220 strutture territoriali, 8 zone distretto e 7 società della salute.
La necessità di dotarsi di svariate specializzazioni e di un’equa distribuzione dei servizi nei diversi luoghi della regione Toscana ha reso necessario, per la verità fin dal 2004, un processo di sviluppo non solo della rete del sistema sanitario, ma anche della programmazione delle equipe specialistiche itineranti (con un complessivo riordino del Sistema Sanitario Regionale fino ad allora esistente). Per la parte che ci interessa, in merito al modello itinerante prospettato, la Regione Toscana ha scelto nel tempo di centralizzare soltanto i casi e le patologie più complesse, che necessitano di tecnologie e dotazioni di supporto e, al contempo, di prevedere la possibilità di fare chirurgia anche nei presidi ospedalieri minori, laddove non sia necessario disporre di tecnologie di supporto. In tal modo, i professionisti sanitari, in base alle loro competenze, possono operare nelle sedi periferiche gli interventi di chirurgia generale e meno complessi, nonché operare nelle sedi centralizzate quelli più complessi. Con interventi complessi si intendono quelli che hanno bisogno di una tecnologia strumentale di supporto, mentre quelli meno complessi che non ne hanno bisogno. Quello della Regione Toscana è quindi un servizio sanitario che si basa su un modello misto, con specializzazione dei centri su determinate prestazioni ed equipe itineranti.
Altro esempio da riportare è quello dell’ASST Ovest Milanese, comprendente le strutture ospedaliere e territoriali di Legnano e dell’ASL n. 1 di Milano, costituita da 4 presidi. Le equipe coinvolti nelle attività di “movimento” sono in questo caso numerose, e abbiamo ortopedia, chirurgia generale, chirurgia plastica, chirurgia vascolare, neurologia, nefrologia, gastroenterologia ed endoscopia digestiva. Su queste Unità Operative si basano le collaborazioni interaziendali che, nel tempo, hanno consentito anche una forte condivisione dei progetti tra le equipe delle Unità Operative stesse. Nel caso di discipline specializzate al proprio interno come, ad esempio, neurologia e gastroenterologia ed endoscopia digestiva, il percorso è stato più semplice poiché lo spostamento viene considerato dai professionisti come parte imprescindibile della propria attività di «esperti di patologia». Anche la creazione di Unità Operative trasversali ai diversi ospedali ha aiutato lo sviluppo di queste esperienze, sebbene lo sforzo maggiore sia stato quello della costruzione di un’identità culturale comune all’interno dell’azienda.
Il possibile modello “itinerante” della Sardegna
Sulla base dell’esempio delle altre regioni italiane e della situazione sanitaria attualmente in essere all’interno della regione, anche in Sardegna lo sviluppo di un modello di equipe itineranti può portare notevole giovamento al servizio sanitario regionale. Partendo dal già menzionato Piano Regionale dei Servizi Sanitari 2022-2024, legge regionale 11 settembre 2020, n. 24, art. 32, che prevede una riorganizzazione territoriale e dell’offerta dei servizi, implementando la visione paziente-centrica e ponendo il cittadino al certo del servizio assistenziale, il modello di equipe itineranti può integrarsi alla perfezione con questa visione.
Il Piano, infatti promuove il potenziamento del
distretto sociosanitario quale punto di riferimento per l’assistito rispetto
alla complessità della rete dei servizi e favorisce la presa in carico globale
dell’assistito. Tale presa in carico globale, tuttavia, non può sussistere se
manca il personale che possa garantire, per l’appunto, una presa in carico
“multidisciplinare”, nei canoni che abbiamo detto sopra. La creazione di equipe
itineranti può quindi ridimensionare tale problema, ma non solo.
I passaggi da fare, sull’esempio delle regioni
menzionate sopra, sono chiari. Dapprima, uno studio riguardo le competenze
specialistiche di cui il sistema sanitario regionale sardo difetta, quindi la
costituzione di Unità Operative trasversali e, dunque, la creazione di equipe
itineranti che possano muoversi nel territorio, tra i vari distretti
ospedalieri e sanitari sardi. In tal senso, rifacendoci al Piano Regionale
Sanitario 2022-2024, occorrerebbe distinguere la presa in carico del paziente
con bisogno semplice (PDTA) e quello del paziente con bisogno complesso (PAI).
Laddove siano necessari esami strumentali specifici, occorrerebbe mantenere la
centralizzazione degli interventi presso i presidi ospedalieri. In caso
contrario, le equipe itineranti create si muoverebbero tra i distretti
socio-sanitari e le sue strutture (case della comunità, centrali operative
territoriali, ospedali di comunità…). Si dovrebbero creare ovvero delle linee
guida che permettano alle Unità Operative di acquisire delle competenze
trasversali, nell’ottica futura di sviluppare delle equipe di “movimento”, al
pari di quanto fatto nelle altre regioni italiane analizzate.
Questa nuova riorganizzazione del
sistema sanitario, in merito alle procedure di intervento sanitario più
urgenti, garantirebbe una più fattiva condivisione tra le diverse Unità
Operative di intervento, nonché un cambio di paradigma in merito all’idea di
assistenza sanitaria sarda. Ridimensionerebbe, al contempo, la problematica
dell’assenza di specialisti medici (per le quali Unità Operative carenti
sarebbero formate unità itineranti e trasversali) e, a lungo termine, è
auspicabile possa anche ridimensionare le liste d’attesa, in quanto non più
centralizzate nei presidi ospedalieri, ma delocalizzate nei vari distretti
territoriali distaccati, che sarebbero dunque garantiti dalle equipe itineranti
formate.
Francesco Oggianu Pirari — Sociologo, Dottore in Alimentazione e Nutrizione Umana