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GIOVANI DELUSI, INQUIETI, ASOCIALI, VIOLENTI

di Antonio Latella *

L’attuale fotografia del Paese ci aiuta a mettere a fuoco il presente e immaginare il futuro della nostra società sempre più anziana e alle prese con il fenomeno della violenza giovanile. Una istantanea nitida il cui orizzonte è carico di nuvoloni di rassegnazione, inquietudine, di comportamenti asociali, di violenze.

<<== Antonio Latella *

Ragazzi contro ragazzi, adolescenti contro adolescenti: da Firenze a Trieste, passando per Mantova. Scontri di natura ideologica e accoltellamenti per futili motivi, forse sentimentali. Gli ultimi due episodi hanno come protagoniste ragazzine in possesso di armi bianche. Quasi come i guappi di un tempo, eppure appartengono a famiglie comuni, perbene e senza ombre, il cui status viene offuscato da simili vicende.

In una società che trasuda violenza, fisica e verbale, dai suoi gangli vitali, non si salvano neanche quelle comunità che affondano le radici in antiche civiltà. Per questo appare quasi discriminatorio emettere “sentenze” di  condanna dei territori teatro dei fatti di cronaca.  Anche perché il “virus” si espande così velocemente che non trova anticorpi in grado di frenarne gli effetti deviati per poi far ricorso ad appropriate terapie sociali.

Nella foto, dai contorni nitidi e inequivocabili, notiamo una società individualista e competitiva, contaminata dai comportamenti materialisti del consumismo, in cui ai beni voluttuari riserviamo maggiore importanza delle persone. Insomma, un’omologazione totale ai paradigmi dell’occidentalizzazione in una metamorfosi a tappe: dalla laicizzazione della società al boom economico e alle successive lotte operaie, dal Sessantotto (tappa importante per frantumare i residui di una società arcaica avviando una rivoluzione dei costumi) al neoliberismo, fino alla società post industriale e all’attuale dittatura della globalizzazione digitale.

Cambiamenti epocali, lasciati senza governo, che hanno agevolato la nascita della società liquida e provocato lo sradicamento delle nostre radici umanistiche.

Effetti che nel tempo hanno messo in crisi le due principali agenzie educative: famiglia e scuola, entrambe in profonda difficoltà, al punto di aver perso la grande funzione pedagogica del passato. Famiglia e scuola: la prima che in poco più di un secolo è passata dalla patriarcale alla nucleare per proseguire con un numero di tipologie crescenti (un solo genitore, ricostruita, impersonale, fino a quella di fatto). L’attuale modello, Vittorino Andreoli lo definisce “famiglia digitale”: “…influenzata dal trionfo di internet e dall’uso dello smartphone che è diventato un’appendice del nostro corpo e della nostra mente”. Nel saggio di Andreoli si analizzano gli effetti della trasformazione digitale: si evidenziano i pericoli di un adattamento passivo, il rischio di una società senza famiglia, ma si riconosce anche la capacità del nucleo parentale di ritrovare la forza e le funzioni peculiari che l’hanno caratterizzato in millenni di storia.

Ma non dimentichiamo che i social hanno chiuso tutti noi (giovani, meno giovani e anziani) in un eterno presente: qui e ora, tutto e subito. All’interno delle famiglie non esiste più la comunicazione, ma le connessioni che ci rubano il tempo anche durante i momenti di convivialità, nonostante il nostro corpo rimanga seduto attorno al tavolo con gli altri familiari. Affetti e interessi evadono fuori delle mura domestiche in un nomadismo virtuale che ci illude di approdare in altri mondi, di fare nuove amicizie. E con lo sfaldamento della famiglia, i figli si ritrovano senza punti di riferimento. Questa assenza poi incide sulla loro crescita psico-sociale e causa anche la solitudine degli anziani conviventi.

La disarticolazione del primo nucleo di società consente al virus della violenza giovanile di contagiare nuovi territori della nostra società, sempre più anemica di anticorpi del vivere civile.

Ecco perché il pestaggio dei due studenti sul marciapiede del Liceo Michelangiolo di Firenze e gli accoltellamenti avvenuti in altrettante comunità delle province di Mantova e Trieste – sommate al bullismo, all’azione delinquenziale delle baby gang e a tutti gli altri episodi di violenza giovanile passate alla cronaca – necessitano di un nuovo protagonismo delle famiglie e risposte forti e immediate da parte dello Stato.  L’indignazione, i convegni e i progetti di recupero pagati da Pantalone fino ad oggi hanno prodotto scarsi risultati con un grande spreco di risorse pubbliche. E allora, considerato che non esiste più la funzione pedagogica, “dura lex sed lex”.

Se la famiglia è in crisi non meno gravi sono le condizioni della scuola che si porta dietro il peso di riforme sempre funzionali alla politica dominante che ha governato il Paese per oltre mezzo secolo. In particolare la sinistra che sulla spinta emozionale del movimento studentesco del ’68 ne ha modificato l’autonomia, limitando al minimo sia la gestione, sia il prestigio degli insegnanti. E da quando il portone degli istituti scolastici è stato spalancato, al suo interno è entrata anche la politica che, in parte, ha contratto le scelte dei docenti anche sul fronte didattico. Come se non bastassero gli episodi di violenza giovanile già passate alle cronache, il Paese ha l’urgenza di decodificare altri segnali: pensiamo allo sciopero annunciato dal sindacato nell’immediatezza dell’aggressione di Firenze, probabilmente inopportuno. Ma questo lo capiremo tra qualche tempo.

L’Italia si trova davanti ad un bivio pericoloso, intanto per il clima rovente della contrapposizione politica tra maggioranza e opposizione sulla recente sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso di Alfredo Cospito, anarchico insurrezionalista, che dal 2014 in regime di 41bis sta scontando una pena di poco più di 9 anni per la gambizzazione di un dirigente dell’Ansaldo. Una situazione che potrebbe far scoccare la scintilla di una malaugurata rivolta sociale. Una miscela “esplosiva”, che ha costretto lo Stato ad intensificare la sorveglianza su eventuali obiettivi sensibili

Torniamo agli ultimi episodi di violenza giovanile. Se da una parte è compito esclusivo della giurisdizione penale accertare le responsabilità dei neofascisti e, di conseguenza, irrogare la giusta sanzione, dall’altra riconosciamo all’opinione pubblica, alle istituzioni, alla stessa politica, nonché agli organi scolastici del Liceo fiorentino, il diritto di condanna sociale.

La foto risulterebbe taroccata se non si tenesse conto di due ulteriori particolari: l’intervento del ministro all’Istruzione e al Merito sul caso del Liceo Michelangiolo con una risposta affrettata, forse di parte, alla preside della scuola, che in una circolare aveva difeso i suoi studenti.  Al posto della moderazione il Ministro ha preferito annunciare sanzioni prima di ascoltare e capire certe iniziative. Ascolto e moderazione fanno parte, o meglio dovrebbero far parte, delle virtù della politica, ancor più quando svolge una funzione di governo che attribuisce il “potere di esternazione”, che richiederebbe una componente di prudenza maggiore rispetto al più generalizzato diritto alla libertà di manifestazione del pensiero che spetta a tutti i cittadini.

Su questo aspetto, illuminante è stato recentemente il prof. Michele Ainis.

Sulla vicenda di Firenze, preside e ministro potrebbero aver preferito la visibilità mediatica al più appropriato esercizio dei rispettivi ruoli svolti.  Il dibattito che è seguito ha provocato un forte senso di irritazione e divisione dell’opinione pubblica: scontri dialettici che utilizzano il linguaggio di contrapposte ideologie che hanno caratterizzato il ‘900 e che non aiutano a riportare serenità negli ambienti studenteschi.  Uno spettacolo che, ne siamo certi, neanche gli studenti stessi, futura classe dirigente del Paese, hanno gradito. Cosi come non tutte le classi del Michelangiolo intendono  omologarsi al pensiero della preside in merito ai riferimenti storici contenuti nella lettera a loro inviata. Anche loro hanno idee politiche che a volte non professano (o preferiscono rimanere neutrali) al punto di respingere l’idea che la scuola possa diventare una fucina ideologica in contrapposizione al dettato della nostra Costituzione.

La scuola e i docenti non hanno la funzione di indottrinare i discenti, trasferendo loro simpatie o antipatie nei confronti di qualsiasi parte politica o partitica.  Se ciò dovesse capitare, come in modo larvato potrebbe, si perde la fiducia dello Stato, tradendo così il giuramento di fedeltà fatto al momento dell’assunzione di chi lavora nella pubblica amministrazione. Un dovere rispetto al quale non ci sono deroghe: né per i presidi, né per i docenti, e, ovviamente, neanche per il personale amministrativo.

Le ideologie e le militanze partitiche rientrano nel novero delle libertà individuali, ma sono off-limits prima di varcare i cancelli della scuola pubblica dove la funzione è quella del trasmettere i saperi.

  • Antonio Latella – sociologo, giornalista, presidente
    • Associazione Sociologi Italiani


DAL LOGORIO DELLA VITA PUO’ SALVARCI SOLO FIORELLO

di Antonio Latella

Non siamo più noi stessi e nei rapporti sociali raramente esprimiamo quelle emozioni positive di cui noi italiani andavamo fieri.  Cosa ci succede per essere così spaventati, introversi, irascibili, smarriti?

<<<=== Antonio Latella

Il fatto che per strada, in metro e spesso anche al bar nella pausa caffè rimaniamo tutti a testa bassa, muti e posturalmente inespressivi non può rimanere sempre un problema degli altri. Riguarda tutti: politica, istituzioni, corpi intermedi e semplici cittadini che più degli altri soffrono gli effetti della post modernità. Appare del tutto fuori luogo – almeno in questa circostanza – citare Montesquieu e la sua teoria sul “Clima e il carattere dei Popoli”: nord e sud, almeno su questo versante, non fanno differenza, Napoli compresa, nonostante la proverbiale simpatia dei partenopei riconosciuta anche negli angoli più remoti del nostro pianeta.

Ma neanche possiamo negare una mutazione antropologica riconducibile alla metamorfosi del mondo, trainato dalle scoperte scientifico-tecnologiche che spingono il vascello-terra (per traslare il pensiero di Morin) a navigare così veloce   da non renderci conto quale sarà il destino dell’umanità.  E soprattutto delle prossime generazioni alle quali passeremo il testimone del futuro di un pianeta in grande sofferenza sociale, economica, ambientale e relazionale.

In ogni epoca storica l’uomo ha affrontato un particolare e sempre diverso logorio. E se in passato, grazie alla genuinità dei rapporti individuali e di gruppo, di rispetto e di solidarietà, il Paese è riuscito ad affrontare i problemi ereditati dalla guerra e dalle violenze del regime fascista, oggi abbiamo perso la fiducia soprattutto nelle istituzioni. La dipendenza delle odierne sovrastrutture politiche e culturali dal capitalismo globalizzato ha letteralmente cancellato l’antica funzione di indirizzo e controllo della democrazia e, di conseguenza, ha contribuito ad annullare l’espressione delle emozioni e del pensiero dell’uomo.  Ciò determina non solo una grande sofferenza sociale, ma anche la disaffezione nei confronti del sistema politico e, di conseguenza, il rifiuto alla partecipazione democratica come registrato – ultimo esempio in ordine di tempo – nelle ultime elezioni regionali in Lombardia e Lazio.

Se non c’è empatia ci chiudiamo nel guscio dell’individualismo e, rassegnati come siamo, rischiamo di diventare i pasdaran della società dell’odio.  Il rischio di rivolta sociale, già molto alto per gli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina, trova combustibile nella grave situazione economica in cui si trova l’Italia che si porta dietro gli effetti disastrosi delle politiche populiste di un recente passato. Le nuove povertà che si aggiungono alle pregresse, la quasi completa scomparsa delle classi medie, gli scandali, la corruzione, l’uso politico della magistratura, lo scontro tra e all’intero delle coalizioni politiche sono lo specchio di un Paese che non può più avvitarsi su se stesso nella speranza che sia  sempre l’Europa a correre in suo aiuto.

Far finta di indignarsi se cittadini senza scrupoli hanno ottenuto dalle casse dello Stato risorse per quasi 10 miliardi di euro destinate al bonus 110% sulla ristrutturazione del patrimonio immobiliare (senza averne diritto, dicono da ambienti politico -governativi), rappresenta una delle tante ipocrisie di un Paese che non rispetta i suoi cittadini che vengono munti come vacche padane.

La testa bassa, i musi lunghi, il mutismo fanno parte della comunicazione non verbale ma non si tratta di messaggi di rassegnazione. Un silenzio che diventa assordante anche se nessuno degli interessati pare abbia voglia di ascoltarlo. Ma il cittadino, prima o poi, presenta il conto: rimane lontano dai seggi elettorali. E di fronte alla disaffezione, scatta il festival dell’ipocrisia nel tentativo di spiegare un fenomeno di cui sono note origini e motivazioni.

I musi lunghi degli italiani veicolano altri messaggi per chiedere conto dello stato di salute del Welfare  e se l’Italia sarà in grado di spendere bene e subito le risorse del Pnrr. Fuori dalla retorica dell’appartenenza geografica, pensiamo a come sarà il Mezzogiorno dopo la grande abbuffata di risorse europee e, soprattutto, se questa parte della penisola otterrà l’aiuto per eliminare il gap con le altre regioni che crescono anche grazie ai migliori cervelli costretti a lasciare la loro terra. La rabbia e non già il sole abbrunisce i volti di milioni di “terroni” costretti ad accontentarsi delle mancette elargite dal governo di turno rispetto a vere opportunità occupazionali.

Il mutismo, che a questa latitudine viene etichettato come omertà, fa parte dell’atavica rassegnazione di un popolo saccheggiato dall’imprenditoria d’oltre linea Gotica, scesa al sud creando cattedrali nel deserto, che dopo il saccheggio del territorio ha puntualmente trovato l’alibi per il rientro alla base.

E’ vero, lo sviluppo del Mezzogiorno è stato frenato dalla presenza di grandi fenomeni sociali deviati e negativi (dal brigantaggio alla mafia che oggi contende allo Stato “la sovranità” del territorio), ma la politica nazionale – da Giolitti a quella repubblicana, espressione di decine di governi centrali: monocolore o di coalizione –  allo sviluppo solido e duraturo ha preferito l’assistenzialismo. Per due motivi: per trasformare questa grande area dell’Italia in serbatoio di braccia prima, e oggi di cervelli, da utilizzare al Nord per il suo livellamento con il resto dell’Europa; e per impedire rivolte sociali  come quelle che hanno caratterizzato il passato: dalla riforma agraria con l’occupazione delle terre ai Moti di Reggio del 1970, fino alle grandi manifestazioni operaie  per lo smantellamento delle poche realtà industriali.  Le rivolte sociali non necessitano di preavviso.

E mentre si lavora all’autonomia differenziata  che renderà il nord sempre più ricco e moderno e il Mezzogiorno sempre più emarginato, tra Scilla e Cariddi riappare il cavallo di Troia del Ponte sullo Stretto. Ennesima promessa di sviluppo: beffa che segue gli impegni puntualmente disattesi sull’alta velocità Salerno-Reggio Calabria, con prosecuzione nella dirimpettaia Sicilia. Il problema del Mezzogiorno non è solo dei suoi abitanti, ma dell’intero Paese:  se il primo non cresce il resto rimane con il freno a mano tirato.

A muso lungo ( o corto…) gli italiani, da troppo tempo, aspettano le riforme come quella della Giustizia madre di tutti i cambiamenti. La durata dei processi, innanzitutto. Ma anche una revisione di alcune parti del codice penale che spesso ben si prestano a comprimere al massimo le garanzie di libertà personale e riservatezza nel rispetto della volontà dei Padri costituenti. Una politica pavida che sembra ingessata nella funzione legislativa ha il compito di rinsaldare la divisione dei poteri.  E respingere con gli strumenti previsti dalla Costituzione l’uso politico della magistratura. Il cittadino che sbaglia deve pagare, ma chi, incidentalmente, finisce in un’indagine di polizia giudiziaria e poi finisce in pasto all’opinione pubblica rappresenta un atto di barbarie, con l’aggravante di essere cittadino di un Paese che si definisce patria della cultura giuridica. Lo stesso vale anche per chi dopo un lungo calvario giudiziario viene ritenuto completamente estraneo ai fatti a lui addebitati. Ma come qualsiasi altro indagato è già finito davanti ad una corte mediatica.

Italiani spaventati, introversi, irascibili, smarriti: cittadini di un Paese che, come per il passato, deve tornare ad essere ispiratore di un nuovo Umanesimo nel contesto di un’Europa, senza ideologie e divisioni, e ridare all’attività culturale, sociale e politica la funzione di governare i processi di pace, prosperità e progresso.

Non un pensiero utopistico, ma di speranza.  Altrimenti nessuno riuscirà a salvarci dal cannibalismo, neanche la satira di Fiorello che al risveglio con le sue gag   fortifica la nostra resilienza messa a dura prova dal caos prodotto dalla cattiva maestra e dai suoi nipotini.

Antonio Latella – sociologo, giornalista e presidente dell’Associazione Sociologi Italiani


Il tempo e l’azione della politica

di Domenico Stragapede

I tempi passano ma il sistema politico sembra essere sempre lo stesso. I politici si riducono, ma la proposta elettorale sembra non cambiare. L’importante è avere la maggioranza nella composizione degli schieramenti. Ma la società contemporanea non chiede la quantità. I valori del passato non sono più il collante per attrarre l’attenzione e la fiducia dell’elettore.

<<== Domenico Stragapede —

Ebbene sì, il cittadino chiede risposte, azioni, processi e programmazione per realizzare innovazione e sviluppo.

La militanza era lo strumento di attenzione per formare il carattere funzionale della risorsa collaborativa, oggi l’ambiente sociale ha cambiato le abitudini nel percepire le variabili dello spazio e del tempo. Il vivere quotidiano viaggia ad una velocità che la politica del consenso di breve periodo non è più in grado di concepire. Il sistema governativo della chiamata alla responsabilità ha un nuovo elemento di propulsione, la “programmazione”, quel processo che richiede preparazione e analisi di lungo termine per definire la visione e gli obbiettivi per creare lo spazio delle possibilità.

L’epoca dello spot e delle informazioni variopinte non sono più il risultato di uno spettacolo teatrale, ben visto da chi esprime il proprio consenso per eleggere la propria rappresentanza. La qualità e la sostanza sono elementi richiesti all’ambiente politico, il saper cavalcare l’onda della promozione pubblicitaria si addice ad una realtà degli anni 60, gli anni del benessere. La complessità a sostituito lo scenario semplice, dove ogni semplice parole, da sola rappresentava un proclama al cambiamento.

Oggi la svolta risiede nel saper non solo trasmettere emozioni, reclutando attraverso l’ammirazione personale. La capacità di analisi, programmazione ed esecuzione dei processi innovativi, ecco il fulcro della politica qualitativa.

La politica oggi ha fallito perché è vista da molti come la strada per migliorare la propria individualità attraverso il potere, prestigio e posizione. Ma non bisogna dimenticare che non stiamo parlando di un lavoro, ma di uno strumento che serve per realizzare le politiche di crescita e sviluppo della società nella sua complessità.

Il saper comprendere e realizzare il cambiamento è la sostanza concreta della politica, quell’azione di governo che stabilizza le dinamiche previste nel presente, utili a eseguire i processi futuri di un territorio che possa essere una città, provincia, regione e/o stato.

La politica dovrà creare fiducia partecipativa, realizzare soluzioni, concretizzare il pensiero dinamico della comunità, dovrà adattare i propri tempi alla plurale scala di problemi nella ricerca sempre maggiore di  benessere, cercando il valore nella capacità individuale/collettiva e qualità funzionale.

Dott. Domenico Sgragapede – Sociologo ASI


IL RITORNO DEL LEVIATANO E LA CRISI DEL MOVIMENTO PACIFISTA

di Antonio Latella

La guerra non è una fiction. Papa Francesco la definisce la “mistica della distruzione”. Sì, distruzione, morte che non risparmia nessuno: bambini, donne, anziani e tanti altri esseri umani costretti a subire le forme mistiche dell’autocrazia. <<== Antonio Latella –

La fine della “guerra fredda”, la caduta del muro di Berlino, il tramonto delle ideologie, la dissoluzione dell’Urss avevano fatto credere all’Europa di aver sconfitto il leviatano del Secolo breve.  Ma nella sua metamorfosi, il mostro biblico – che Thomas Hobbes utilizzò per indicare il sovrano che esercitava il potere assoluto – ha assunto le sembianze del cavallo di Troia traendo in inganno politici, governi, associazionismo, movimenti pacifisti e semplici cittadini.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, con intere città rase al suolo, sembra non interessarci più di tanto, nonostante le immagini drammatiche e inumane entrino quotidianamente nelle nostre case attraverso la televisione.

La guerra, rispetto ad analoghi episodi del passato, non ha registrato il protagonismo del movimento pacifista. Difficile individuarne le motivazioni a meno che non si voglia parlare di crisi esistenziale. Qualcuno assumendo la difesa potrebbe attribuire la colpa ai social, cosa che in parte è possibile. Ma la mancata presenza nelle piazze dei giovani e degli studenti, sempre pronti alla protesta quando si tratta di imperialismo americano, solleva più di un dubbio.  Forse siamo alle prese con una sorta di “conversione” di massa per redimerci dai vecchi rancori ideologici, abiurare allo stile di vita occidentale e ricostruire così un nuovo modello di società.

E tra nostalgici e nuovi proseliti, sempre alle prese con contraddizioni e distinguo a prescindere, l’Ue continua a correre il serio rischio di profonde lacerazioni tra gli Stati che la compongono. A ciò si aggiunge il cerchiobottismo Usa, che condensiamo nel disegno teso all’allargamento del G7.

E come se non bastasse, alcuni politici nostrani di vecchia militanza si affidano alla retorica pur di guadagnare consensi. Cosa che la Premier Giorgia Meloni continua a non accettare, stoppando ogni tentativo di polemica prima che diventi virale sui social. Le nostre perplessità poggiano sul dato oggettivo che in guerra chi  muore da una parte e dall’altra  sono esseri umani: giovani in prevalenza.

Il nostro pianeta attualmente è alle prese con una cinquantina di conflitti armati – non tutti riconducibili ai disegni delle potenze globali – a cui si aggiungono i demoni della paura che minacciano l’utilizzo delle armi atomiche. Per i tanti teatri bellici sparsi in quasi tutti continenti, ma anche per i crimini di guerra (recenti e passati), non mancano i quotidiani appelli del Pontefice alla pace: carichi di preoccupazione per gli effetti umanitari e i danni collaterali che– come non si stanca di ripetere Papa Bergoglio – causa questa “terza guerra mondiale a pezzetti”.

Agli appelli di pace e del cessate il fuoco, soprattutto in Ucraina, fa da contraltare l’impotenza dell’ONU, ostaggio del “diritto di veto” da parte di uno dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia). Al punto da dimostrare l’inutilità di una organizzazione incapace di difendere il mondo e di garantirne gli equilibri. La sua impotenza è pari a quella della vecchia Società delle Nazioni.

Anche se in “sonno” il leviatano non ha mai smesso di essere l’ispiratore dell’imperialismo che spesso, col mendace proposito della difesa della democrazia, si macchia di crimini che nessuno mai riuscirà a sanzionare. Mostrare i muscoli per destabilizzare è sempre presente nella logica geopolitica di Stati Uniti, Russia e Cina.

Gli Stati, intanto, corrono verso un riarmo senza precedenti dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale: l’industria bellica lavora a pieno regime e i governi continuano a stanziare tante di quelle risorse finanziarie che potrebbero essere utilizzate contro la fame nel mondo e per avviare quella bonifica ambientale del nostro pianeta, il cui stato di salute è giunto al punto di non ritorno.

Dietro ogni guerra ci sono grandi interessi: prima per distruggere, dopo per ricostruire, gestire le risorse naturali, energetiche innanzitutto. Interessi che hanno ben poco a che fare con la difesa della democrazia: il più delle volte sono riconducibili alla logica del capitalisismo finanziario (che utilizza il “braccio armato” della globalizzazione per accumulare grandi risorse che solo in minima percentuale vengono redistribuite a beneficio di territori e cittadini), molto più vorace e inumano delle variazioni storiche assunte dalla rivoluzione industriale al fordismo.

 E se in passato i corpi intermedi, in particolare il sindacato, rappresentavano un argine a difesa dei lavoratori e la politica, bene o male, riusciva a mediare sulle scelte in materia di lavoro e occupazione, oggi il capitale sceglie aree vergini sparse per il mondo, con bassi salari, senza sindacalizzazione, senza tutele sociali. Tutto questo fa aumentare le diseguaglianze, le povertà, gli egoismi che ne trae vantaggio quel 10% della popolazione mondiale che detiene circa l’80% della ricchezza complessiva.

Torniamo al massacro della popolazione ucraina. Le scene di distruzione e di morte che giornalmente i media introducono nelle  nostre abitazioni non  sbloccano i colloqui di pace da parte delle diplomazie che si sono assunte tale difficile campito. Nessun passo in avanti, nemmeno dopo la devastazione causata da un missile di una tonnellata sganciato da un aereo russo che ha distrutto un insediamento abitativo a Dnipro.

E mentre aerei e navi russe sarebbero state dotate di armi nucleari, non possiamo restare passivi in attesa della paventata fine del mondo, ma abbiamo il dovere di reagire e condannare: ognuno per la funzione sociale che svolge. A volte la storia si ripete e lo fa improvvisamente e a nostra insaputa.

Antonio Latella – giornalista, sociologo e presidente dei sociologi ASI


La cultura e la religione nell’impero romano nel III secolo d.C.

di Giovanni Pellegrino

In questo articolo prenderemo in considerazione la cultura e la religione nell’ impero romano nel III secolo d.C. La cultura del III secolo d. C. è poco conosciuta . Infatti quasi nessun lavoro letterario è sopravvissuto . Tuttavia un capitolo importante dell’attività intellettuale di quel periodo storico è rappresentato dalla cultura giuridica .

<= Prof, Giovanni Pellegrino

L’età dei Severi è l’età di importanti giuristi quali Paolo Ulpiano e Modestino. Dei contenuti della loro opera ci dà informazioni il “ Tigesto” una compilazione giuridica dell’età di Giustiano. Sappiamo di più sulla letteratura greca di questa età in particolare della filosofia neo platonica rappresentata soprattutto da Plotino e dai suoi seguaci. I neoplatonici continuavano tradizioni filosofiche razionalizzanti con una fede fervente nel politeismo sincretistico cercando di contrastare le religioni misteriche orientali e il cristianesimo.

A scrivere in greco la storia di Roma ci pensarono Cassio Dione ed Erodiano mettendo in mostra l’ormai completa integrazione dei Greci nell’impero romano. In particolare Erodiano definisce l’impero romano con la significativa espressione “ il nostro impero romano “. Dobbiamo mettere in evidenza che i Greci stessi cominciarono a definirsi “ Romani”. Per quanto riguarda le belle arti si osserva una loro decadenza o piuttosto la loro evoluzione verso un mutamento dell’ideale estetico. Venne gradualmente abbandonata la rappresentazione fedele della realtà e della personalità individuale che venne sostituita da uno schematismo di pose e di tratti. Nell’architettura il fenomeno dominante fu la crisi dell’urbanesimo tradizionale sostituita da un’ urbanistica destinata a soddisfare le esigenze della difesa.

Il riutilizzo di vecchi frammenti e di elementi architettonici per nuove costruzioni rivela le difficoltà economiche di quel periodo storico , uno dei più difficili e problematici della lunghissima storia dell’Impero romano. Infatti il III secolo d.C. fu caratterizzato da una evidentissima crisi economica e sociale che colpì tutte le classi sociali e tutti i territori dell’impero romano. Solamente le sontuose ville dei latifondisti continuarono a fare sfoggio di sé insieme al grande tempio che a Roma l’imperatore Aureliano dedicò al dio Sole.

Molto interessante fu anche l’evoluzione della religione in questo periodo storico. I culti tradizionali pur sempre in vigore persero popolarità come anche il culto imperiale. Sebbene lo Stato continuasse a pretendere tale culto e sebbene continuasse a essere celebrato divenne soprattutto una prova di fedeltà politica all’imperatore e una sorta di dovere civico. Nella sempre maggiore “ anomia religiosa” esistente nell’impero le masse cercarono altri dei e altri orizzonti spirituali. Le divinità straniere specialmente quelle orientali rimasero sempre di moda ma se alcune videro aumentare i propri adepti ( vedasi il caso del dio Mitra) altre persero un certo numero di fedeli.

In tale periodo storico i moltiplicarono anche le manifestazioni di superstizione e di occultismo ed inoltre la magia trovò un notevole numero di adepti. Fu proprio per rispondere a questo clima di magia e superstizione che l’imperatore Aureliano cercò di imporre senza successo il culto unitario e unificante del “ Sol Invictus ”. Non deve assolutamente sorprendere il fatto che in tale periodo storico molte persone praticassero la magia e le arti divinatorie. Infatti come tutti i sociologi o gli storici sociali sanno nei periodi di crisi molte persone si rivolgono alla magia e all’astrologia perché cercano in tal modo di assumere il controllo degli eventi e delle altre persone avendo perso la fiducia nelle strategie razionali finalizzate ad assumere il controllo sull’ambiente esterno e sugli altri uomini.

Anche le stesse arti divinatorie a cominciare dall’astrologia nei periodi storici nei quali il futuro diventa incerto e fonte di ansia si cerca di avere informazioni sugli eventi futuri utilizzando le arti divinatorie in generale e l’astrologia in modo particolare. Nel periodo compreso tra la morte di Commodo e gli inizi del regno di Diocleziano il fenomeno spirituale e sociale più rilevante ed importante fu rappresentato dalla crescita del cristianesimo la religione cristiana riuscì in tale periodo storico a fare adepti e a coinvolgere sempre più i componenti di tutti i livelli sociali.

Inoltre il cristianesimo riuscì a conquistare adepti in tutte le province dell’impero romano. Ciò avvenne perché la crisi ideologica morale e spirituale stava ormai investendo tanti strati della società romana. Gli individui reagirono a questo stato di cose angosciante e frustrante in modo diverso : vi fu chi si rivolse allo  scetticismo e incredulità che venne attratto dalla magia o dalla mistica dei culti orientali e chi invece trovò nella religione cristiana l’alternativa cercata al clima di crisi imperante. Certamente la grande coerenza dimostrata  fino al martirio numerosissimi cristiani ebbe il suo peso nel crescente successo del cristianesimo ma senza dubbio se non fosse esistito tale clima di crisi la religione cristiana avrebbe faticato molto di più a conquistare un numero sempre crescente di adepti

Le comunità cristiane aumentarono si diffusero in tutte le città più importanti dell’impero romano e cominciarono ad avere tra loro stretti contatti . Si strutturarono meglio al loro interno sia dal punto di vista organizzativo sia amministrativo. La direzione delle comunità passò nelle mani di speciali membri a ciò preposti scelti dal resto della comunità: presbiteri diaconi e vescovi. Questi ultimi si riunivano in assemblee come sinodi o concili per prendere decisioni importanti e discutere intorno ai dogmi della fede. Il vescovo più importante era quello di Roma la più grande città dell’impero sede della più grande comunità cristiana .

Il III secolo d. C. annoverò le due più violente persecuzioni scatenate contro i cristiani. Infatti Decio e Valeriano perseguitarono in maniera sistematica i cristiani di tutto l’impero romano. Molti andarono incontro con grande coraggio al martirio ma ci furono anche altri che per evitare il martirio rinnegarono la propria fede. Questi ultimi i cosiddetti  Lapsi rinnegarono la loro religione accettando di fare sacrifici all’imperatore. Ma questi sono anche i secoli nei quali nacquero all’interno delle comunità cristiane le prime forme di eresie: il montanismo dal nome del profeta Montano apparve alla fine del II secolo d.C, mentre poco dopo fu la volta del donatismo dal nome del vescovo Donato.

I seguaci del montanismo erano contrari all’universalismo della religione cristiana colpevole a loro dire di aver cercato dei compromessi con lo Stato pagano e di aver cominciato ad accumulare beni e proprietà. Viceversa i seguaci del montanismo esortavano i propri fedeli a rinunciare alle ricchezze terrene e a condurre una vita improntata sullascitismo. Derivazione del montanismo fu il donatismo. Infatti il vescovo Donato in Africa si mise a capo di una corrente di montanisti intransigenti . Essi decisero di rifiutare il perdono a tutti coloro che durante le persecuzioni di Decio e Valeriano avevano rinnegato la religione cristiana. Dobbiamo altresì mettere in evidenza che malgrado le ostilità e le persecuzioni il mondo romano fu l’unico spazio dove la fede in Gesù Cristo poté svilupparsi e progredire alla fine dell’antichità.

Concludiamo tale articolo riguardante la cultura e la religione nel III secolo d.C. mettendo in evidenza che in alcune province dell’impero romano fecero la loro comparsa manifestazioni culturali preromane  .


HA ANCORA UN SENSO LA “FESTA” DI SAN VALENTINO?

di Antonio Latella –

Dubbiosi e scettici, forse irriverenti nei confronti di milioni di persone che celebrano la festa degli innamorati. Tuttavia ci chiediamo se oggi abbia ancora un senso la ricorrenza di San Valentino.

<<<=== Antonio Latella

Lo facciamo con la consapevolezza del rischio di essere costretti a passare sotto le forche Caudine del potente esercito del consumismo che domina il mondo o, cosa molto più insidiosa, finire tra le grinfie dei leoni della tastiera.  

Il mondo postmoderno si è rivelato sempre più avaro nel concedere amore e sempre meno disposto a riceverne come se si trovasse in uno spazio franco dove non fioriscono sentimenti.  E senza l’amore (inteso come valore universale) continuano a venire meno altri nobili valori: il rispetto degli altri, la solidarietà, la pacifica convivenza, come se l’uomo contemporaneo avesse scelto la cittadinanza su un altro pianeta.

Le nostre radici cristiane (con la massima “amatevi gli uni gli altri”), nel corso dei secoli, si sono talmente sfilacciate al punto da ritrovarci nella cosiddetta società dell’odio, del distinguo, della contrapposizione e, soprattutto, dei legami effimeri e dell’indifferenza.

 Ispirarsi alla vita del Patrono di Terni (San Valentino), tradizione che dura da secoli, oggi, appare quasi un non senso: forse un po’ blasfemo, sicuramente impregnato di ipocrisia. L’uomo non si accorge di essere indissolubilmente legato ad un grande padrone: il mercato globale che limita le nostre libertà di scelta, i nostri orientamenti, i nostri gusti, il nostro modo di essere società. Insomma, ci ruba finanche il bello dell’innamoramento.  E in un mondo senza amore prevale la seduzione, destinata prima o poi ad appassirsi sotto al sole del deserto della solitudine dove, come tanti predoni, ci affanniamo alla cerca di nuovi “incontri” senza futuro e senza prospettive di vita in comune.

In una pubblicazione del 2013 “Gli usi postmoderni del sesso”, Bauman partendo dalla liberazione sessuale del ’68, evidenzia lo “scollamento” dell’erotismo (desiderio) rispetto al sesso e all’amore.  “Sesso, erotismo e amore non possono esistere l’uno senza gli altri, eppure la loro esistenza si consuma in una guerra perenne per l’indipendenza”. Poi tira in ballo i beni di consumo che fanno aumentare il desiderio di possesso: “sopito una volta realizzato per poi accenderlo nei confronti di un nuovo prodotto in una coazione a ripetere all’infinito”.

“Amarsi e rimanere insieme tutta la vita – si legge in “Amore liquido” della collana baumaniana-. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista”.   Nessun ricordo del passato: resettato nei tradizionali valori umani, che oggi viaggiano in compagnia di una società virtuale che ci sta definitivamente traghettando nella post umanità. Sempre più indifesi, privi come siamo di anticorpi socio-culturali che hanno scolorito nell’uomo finanche il comune senso del pudore.

“Le nuove generazioni nascono e crescono in un mondo in cui si deve essere connessi, sempre” si legge in “Baciami senza rete” di Paolo Crepet che lo psichiatra, sociologo e giornalista ha pubblicato prendendo lo spunto da una scritta sui muri di Roma “spegnete Facebook e baciatevi”. Una perenne connessione di cui si esalta solo la positività, senza considerare i danni collaterali prodotti “dalla nuova epoca telematica”. E si pone tre interrogativi: “Come sarà da adulto un bambino che ha comunicato sempre e soltanto attraverso un device?”; “Che ne sarà della sua abilità nell’utilizzare il suo apparato sensoriale?”; “Che cambiamenti ci saranno nelle sue relazioni  sociali, nel suo modo di vivere i sentimenti, nella sua capacità e empatia?”. *  

“Viviamo in un mondo dove ci nascondiamo per fare l’amore, mentre la violenza e l’odio si diffondono alla luce del sole” (J. Lenon)”. Mezzo secolo di metamorfosi antropologica ci dividono dal protagonismo dei Beatles all’esibizionismo di Fedez e Rosa Chemical.  Come negli anni ’70 del Secolo breve, anche oggi il mondo è un grande teatro di guerra, di violenza in generale, ma sono cambiati i costumi che ci “autorizzano” a rendere di pubblico dominio la nostra vita privata e con dovizia di particolari: passioni, cambio di partner, tradimenti, crisi di coppia, divorzi, liti per liberarsi o avere assegnati i figli, rivendicazioni patrimoniali come abitazioni, Rolex, pellicce. Fatti che affidiamo ai social e destinati ad un pubblico sempre più bulimico di gossip. Nel secolo dell’individualismo se non appari non conti nulla, non sei nessuno. E maggiori sono i particolari, anche dal punto di vista sessuale, più link contribuiscono ad aumentare il personale consenso virtuale.

Il tutto dimenticando che i social oltre a rubare tempo alla vita reale provoca uno stato di incomunicabilità tra la coppia che poi si estende all’intero nucleo familiare. E come dice il sociologo Francesco Alberoni “l’amore ha bisogno di comunicazione” e quando “lei non parla e lui non chiede” nascono equivoci e liti.

Cosa rimane dell’amore?  Forse solo cronaca. In particolare quella di uomini che uccidono mogli, compagne, amanti, fidanzate o che decidono di liberarsi del partner. Donne che non sopportano più le violenze domestiche, i soprusi, le scappatelle del compagno o perché il loro rapporto, diventato ormai routine, rimane “incollato” solo per la presenza dei figli. E con l’amore ormai finito, tra una minaccia e un episodio di stalking,  la coppia focalizza obiettivi diametralmente opposti che a lungo andare sfociano in fatti di sangue.

Ed allora chiediamoci se il 14 febbraio può ispirarsi ancora a San Valentino?

Antonio Latella -sociologo, giornalista, presidente Associazione Sociologi Italiani

* le risposte le troverete sulla pubblicazione del prof. Paolo Crepet


UN FIUME CARSICO ATTRAVERSA UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ ARIDA

di Antonio Latella

Il digitale come un fiume carsico attraversa le nostre vite, inaridisce i nostri sentimenti, affievolisce i nostri valori e provoca forme di mutazione della natura umana.

Antonio Latella ===>>

La società postindustriale, diversamente dalle precedenti, genera gravi forme di intossicazione sociale che spesso inquinano i rapporti interpersonali e di gruppo. Eppure questa tecnologia, dopo l’era Gutenberg, è la più grande innovazione al servizio dell’umanità.Il digitale ci ha resi spettatori e al tempo stesso attori: ruoli che, in pochi attimi, si inseguono, s’intrecciano, si sorpassano fino a provocare confusione, aggressività, perdita di identità, dipendenza. Una situazione che è alla base di quella quotidiana guerra di tutti contro tutti che, nessuno escluso, coinvolge cittadini, politica, istituzioni, società civile, sport e, soprattutto, il mondo della comunicazione.  Un sistema che orienta l’opinione pubblica sempre più alla mercé dei manipolatori occulti, dei modelli consumistici, degli influencer, della politica.

L’uomo è ormai costantemente esposto agli effetti delle reti, che – secondo Castells – “costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società”. E “la diffusione della logica della rete modifica sostanzialmente il funzionamento e gli esiti dei processi di produzione, esperienza, potere e cultura”. Da ricordare che la forma di “organizzazione sociale in rete è esistita in altri tempi e spazi”, ed oggi “il nuovo paradigma informativo fornisce la base materiale per la sua espansione pervasiva in tutta la struttura sociale”.

La pervasività di questi strumenti finalizzati allo sviluppo del progresso umano ci ha colti di sorpresa: impreparati culturalmente, innanzitutto, ma anche un po’ spregiudicati nell’uso che se ne fa, al punto da illuderci che le comunità reali possano essere sostituite da quelle virtuali. Questa nuova dimensione è funzionale ai paradigmi della globalizzazione capitalistica, perché ci proietta in un mondo lineare e privo di identità, dove tutto gira intorno alle logiche liberiste che interessano sia le merci che le persone. Identità che diventa informe, senza sembianze e consistenza. Zygmunt Bauman, infatti, riteneva che tramite i social l’identità si fosse trasformata da “liquida in gassosa”.

Il digitale, matrice di tutti i new media, ci costringe a ritmici frenetici di vita: talmente veloci e devastanti che fatichiamo a discernere il vero dal falso (fake news docet!), il reale dal virtuale.  E’ questo il “prezzo” che la società-mondo è obbligata a pagare all’attuale sistema di comunicazione globale che, tramite nuove scoperte tecnico-scientifiche, a causa dell’impropria utilizzazione che se ne fa, rischia di diventare, come accennavamo in precedenza, strumento di mutazione antropologica.

Siamo proiettati nel nebuloso e forse arido mondo della post umanità, che trova le sue principali espressioni nell’intelligenza artificiale e, soprattutto, nel metaverso, ecosistema la cui funzione futura viene ritenuta ineludibile. L’uomo contemporaneo ha assunto lo status di cittadino della società del rischio (Beck): e da parte nostra, azzardare un futuro apocalittico rischia di aggiungere ulteriori incertezze a quello che molti autorevoli sociologi hanno definito il “secolo della paura”. Ci asteniamo, per il momento, da riflessioni a sfondo distopico; osserviamo però che questa applicazione del digitale alla vita dell’uomo sta determinando una evoluzione (o involuzione?) sociale.

Forse è mancata in noi la capacità di adattamento al fluire di questo fiume carsico che scorre dentro di noi e periodicamente riaffiora. Probabilmente, dopo l’iniziale curiosità, tutti siamo rimasti affascinati ma passivi dinanzi al “messianico avvento” dell’irruzione del digitale nelle nostre vite, preferendo cavalcare senza limite le nostre nuove emozioni invece che governarle. E oggi la società registra un radicamento nel virtuale che genera impoverimento di linguaggio e accorciamento del pensiero, atrofizza la nostra autocritica e ci spoglia della nostra identità. Nella postmodernità ha messo radici la fede nei social: una religione laica in cui le masse si affidano all’”ultimo Dio” (Internet) che ci porta nel mondo di Aladino: un clic del mouse sulla tastiera del computer, o una “carezza” al touch screen di un dispositivo mobile, et voilà, si entra nel “villaggio globale” profetizzato da Marshall McLuhan.

Una visione che, da un lato, ci consente, almeno potenzialmente, di accrescere i saperi, la partecipazione, conquistare nuove e più affascinanti forme di socializzazione e dall’altro aumenta la nostra bulimia consumistica. Non ci accorgiamo che siamo sotto gli effetti di una forma mistica: rinchiusi  come siamo nel recinto dell’individualismo dove l’io prevale sul noi.   

Ormai non riusciamo a renderci conto che viviamo in una società sotto assedio: in cui lo strapotere delle nuove élite organizzate, impegnate a difendere le logiche del mercato, hanno contribuito a rompere i legami che la tenevano unita. Un compito agevolato anche dalla crisi dei corpi sociali intermedi, a cominciare dai partiti politici e dal sindacato, nonché dall’autoreferenzialità dell’associazionismo che in passato è stato un vero punto di riferimento del cittadino.

Non ci accorgiamo, infatti, di essere vittime della solitudine, illudendoci di esorcizzarla facendoci sedurre dalla pubblicità, dai modelli televisivi e  dagli amici della rete che con una semplice azione di “delete”, improvvisamente, annegano nella liquidità del web. Il digitale con i suoi strumenti ha contaminato anche il mondo dell’informazione, così diverso dal cosiddetto “giornalismo romantico”: quando gli addetti alle redazioni e i corrispondenti si accostavo alle fonti scarpinando con la maglietta madida di sudore e i più fortunati avevano la possibilità di spostarsi in sella alla Vespa di papà.

È vero che nell’era digitale tutti siamo diventati giornalisti, politologi, e, finanche, giudici severi: accusiamo, condanniamo, assolviamo dopo processi mediatici che spesso portano alla distruzione della dignità umana, ma non è così che rendiamo meno violenta l’attuale società. Moderazione dunque, e basta con un giornalismo strillone e partigiano che, dall’alba al tramonto (ma anche la notte), avvelena il clima politico costringendo il telespettatore a scegliere se diventare guelfo o ghibellino.  E nel rispetto del sacrosanto diritto di cronaca e critica, diventa improcrastinabile porre al centro del lavoro la dignità delle persone. Le parole, i sussurri provenienti degli ambienti investigativi e le illazioni raccolte in maniera irresponsabile non contribuiscono alla formazione della prova, né davanti ai veri giudici, né dinanzi al “tribunale del popolo” che, da dietro le tastiere, si erge a organo supremo di valutazione dei comportamenti delle persone.

Antonio Latella -giornalista e sociologo (presidente Associazione Sociologi Italiani)


SANREMO, IL FESTIVAL DEI FIORI PRESI A CALCI

di Antonio Latella

Se sulla sua musica “degustibus non disputandum est”, molto da dire, invece, vi è sul rispetto per le persone e le cose. E non basta un nome d’arte per sentirsi al centro dell’universo al punto da devastare il palcoscenico di Sanremo.

<<== Antonio Latella sociologo e giornalista

Una licenza artistica? Macché! Un’improvvisa rabbia, o mania di protagonismo? La prima non è certo un alibi, mentre il secondo rivela arroganza – ci consenta, Sig. rapper o cantante che sia – violenza, mancanza di riguardo, innanzitutto nei confronti del Capo dello Stato e, finanche, un duro attacco ai nostri valori di civiltà. Valori, ahinoi, sempre più contaminati dal clima di incontinenza verbale e fisica che è una delle caratteristiche dell’attuale società globalizzata.

Sanremo è un avvenimento identitario della nostra cultura musicale che, nonostante una metamorfosi lunga oltre 70 anni, non ha perso il fascino di una kermesse che aggrega milioni di italiani, e non solo di nostri connazionali, i quali restano in messianica attesa fin dall’estate precedente.

Eppure con l’inno di Mameli la serata inaugurale del Festival ci aveva fatto vivere un momento di grande emozione e di spirito patriottico. Proprio per questo, anche se non siamo giudici, non possiamo non osservare che quella scena, quasi isterica, non è passata inosservata a tutti quei bambini, adolescenti e giovani che hanno assistito al Festival davanti al piccolo schermo.

 L’espressione popperiana “televisione cattiva maestra” non si riferisce tanto al mezzo, quanto ai messaggi che veicolati dalla fonte influenzano, spesso in modo negativo, milioni di telespettatori, in particolare le fasce di età più esposte al rischio dell’emulazione.

Ci rendiamo conto che è facile ragionare con senno di poi, di cui manzonianamente son piene le fosse, specie quando un episodio del genere si consuma nel corso di uno spettacolo in diretta. Quanti, come chi scrive, si sono ritrovati per anni a dover affrontare il bello (e il brutto) della diretta sanno che esiste una componente di alea con cui bisogna fare i conti. Ma è lecito domandarsi se la poderosa macchina organizzativa del Festival abbia fatto tutto il possibile, per ridurre al minimo il rischio di sortite come quella di martedì sera.

Ci si domanda, dunque, se gli artisti che si avvicendano sul palcoscenico del teatro Ariston siano preventivamente chiamati a sottoscrivere un codice etico o deontologico, visto che si esibiscono davanti a un pubblico di milioni di persone di ogni età; e, ancora, se siano previste delle sanzioni – come una multa o l’esclusione dalla gara – nel caso di comportamenti che possono offendere la sensibilità degli spettatori. Nel passato non sono mancate occasioni in cui, ad esempio, alcuni artisti hanno caratterizzato le loro esibizioni con comportamenti o con usi inappropriati di simboli religiosi, che hanno turbato le coscienze di tante persone.

Possibile che, per uno show che viene preparato nei dodici mesi precedenti, non sia stato trovato ancora un modo per impedire performance sopra le righe? In attesa di una risposta all’opinione pubblica, che probabilmente non arriverà mai, è fondato il sospetto che, tutto sommato, questi episodi servano ad aumentare l’audience, con l’involontario aiuto di quanti abboccano all’esca di simili comportamenti. Proprio come noi, che stiamo qui a scriverne.


Recensione del libro ‘Le Nuove Religioni Ufologiche’ di Giovanni Pellegrino e Umberto Telarico

copertina dell’opera

In questo libro, i due Autori G.Pellegrino e U.Telarico, prendono in considerazione uno degli elementi caratterizzanti  il moderno scenario ufologico, ovvero la nascita di nuovi culti mistico-religiosi derivanti dal fenomeno degli Oggetti Volanti Non Identificati quali manifestazione di entità sovraumane di origine extraterrestre, nel senso più generale del termine.

Alla domanda come nascono tali nuovi culti, gli Autori hanno risposto che si tratta di religioni che hanno come fondatori i cosiddetti “contattatati“, ossia individui che affermano di aver incontrato gli alieni (in genere più volte e di continuare ad avere tali esperienze fisiche e/o telepatiche), e di aver ricevuto da questi la missione prometeica di diffondere un messaggio -in genere di monito sul dissennato stile di vita e comportamento etico umano e/o di natura millenaristica-, e cioè una missione da compiere per loro conto sul nostro pianeta.

La missione di coloro che affermano di essere -al pari dei più noti profeti e santi citati nei testi sacri delle tradizionali tre principali fedi monoteiste diffuse in seno all’umanità quale quella ebraica, quella cristiana e quella musulmana-, consiste nel diffondere tra gli umani miscredenti i messaggi degli alieni in veste di creature angeliche e/o vere e proprie divinità.

Gli storici delle religioni hanno messo in evidenza come, in tali nuovi culti, esistono delle correlazioni teologiche e dottrinali comuni a molte altre religioni tradizionali, in particolare sotto la dimensione soteriologica, quella escatologico-messianica e quella apocalittica. In tali neo-culti religiosi, difatti, la dimensione soteriologica vede le entità aliene -padroni della tecnologia UFO-, come veri e propri salvatori cosmici. Sotto la dimensione escatologica -molti di tali gruppi contattisti- vedono l’arrivo degli alieni come l’inizio degli “ultimi tempi prima di un cambiamento epocale in seno all’umanità, una sorta di transizione verso la perduta “età dell’oro” riferita nella maggior parte dei miti delle antiche civiltà. Sotto la dimensione teologico-messianica, detti gruppi vedono gli alieni come veri e propri “messia cosmici” con tutti gli annessi e connessi del caso. Infine, in alcune di tali religioni ufologiche, è presente anche la dimensione apocalittica ciò in quanto, i gruppi neo-religiosi in questione, sostengono che, essendo le creature aliene degli emissari di Dio, al pari degli angeli descritti nella maggior parte dei testi sacri tradizionali, avrebbero la missione di punire il genere umano scatenando una vera e propria “apocalisse finale o armageddon”.

Secondo molti studiosi e sociologi delle religioni, i “contattati dagli alieni” sarebbero i “nuovi profeti dell’era spaziale“; ciò in quanto -in tali figure guida- sono state individuate molte caratteristiche presenti nel profetismo delle religioni tradizionali. Tali studiosi, difatti, hanno evidenziato come, detti contattati, possono rientrare senza problemi nel “pattern del profetismo” egregiamente descritto dallo studioso tedesco Max Weber. Secondo quest’ultimo, difatti, tali “profeti cosmici” si possono suddividere in due grandi categorie: Quella dell’emissario e quella dell’esemplare. Secondo alcuni sociologi delle religioni, i contattati da entità aliene (ossia coloro i quali, in tutta buona fede e non certo per mero calcolo di tipo economico e/o personale, ritengono di essere stati “scelti” per un tale arduo compito di predicazione messianica), rientrano nella tipologia weberiana dell’emissario in quanto, costoro, sono convinti di essere stati “scelti dagli alieni” in veste di emissari e/o essi stessi divinità provenienti dallo spazio o da altre dimensioni eterico-spirituali. 

In tali nuovi culti religioni para-ufologici, la narrazione teologico-dottrinale è una commistione -per lo più confusa e addomesticata a proprio uso e consumo- tra determinati low-motive delle principali religioni tradizionali, gli sviluppi tecno-scientifici tipici dell’era post-industriale e i temi cari alla fantascienza del 21° secolo.

In definitiva, gli Autori del testo in oggetto G.Pellegrino e U.Telarico, mettono in evidenza come, tali neo culti para-ufologici, attribuiscono nuovi significati -adattati ai tempi- della tradizionale dimensione religiosa, ormai chiaramente in declino per vari motivi storici, dottrinali ed etico-comportamentali.

sociologiaonweb


Curare,prendendosi cura: riflessione in prospettiva sociologica

di Carmela Cioffi *

Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead, quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra.Ma non fu cosi.

<<== Carmela Cioffi

Mead disse che il primo segno di civilta’ in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiego’ che nel regno animale,se ti rompi una gamba , muori.Non puoi scappare dal pericolo,andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo.Sei come le bestie predatrici che si aggirano intorno a te.Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perche’ l’osso  guarisca.

Un femore rotto che e’ guarito e’ la prova che qualcuno  si e’ preso il tempo di stare con colui che e’ caduto, né ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi( Curare prendendosi cura).Mead disse che aiutare qualcun altro  nelle difficoltà e’ il punto preciso  in cui la civiltà inizia . Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili e’ questo”. Non c’e’ più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una societa’ che lascia l’ individuo solo, con il suo senso di smarrimento,la sua paura incoscia, legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani. Il paradgma odierno riconosce nel malato un portatore di disordine sociale e il malato diviene immediatamente “soggetto altro” allontanato dalla comunita’,a cui apparteneva fino a qualche momento prima,viene isolato dalla comunita’,medicalizzato e raramente curato dalla sua famiglia.

Una società  che cura la malattia con attenzione prettamente chimica e farmacologica. Se il primo segno di civiltà in una cultura  è stato, come fosse indicare Mead, aiutare qualcun altro nelle difficoltà, allora la salvaguardia di questa civiltà’ nella cura della comunità e nella pratica quotidiana della cura dell’individuo in quanto persona, in ogni suo aspetto, nella ricostruzione di legami emotivi e relazionali, al di là se si vive in un villaggio o in una città .E’ in questo momento storico, ora ,diventa necessario  avere una visione  con dimensione universale e di futuro, una visione che non si riduca a pensieri alla stregua di carità e assistenza. Una solidarietà e condivisione che superi la sfera dell’individuo ,o di gruppi di individui e che si evolva come pilastro .Questa ci aiuterà ad individuare una diversa prospettiva del significato di civiltà ,dove la cura o meglio il prendersi cura assume la funzione di dono e reciprocità. Dove  il prendersi cura di se,’ dell’ambiente, degli altri ,del malato diventa una produzione che nessuno può fare a meno.

Vorrei condividere con voi la lettura di un bellissimo saggio ,avendo avuto la fortuna di incontrarlo lungo il mio percorso intrapreso ,essendomi accostata agli studi sociologici. “L’uomo  che scambiò sua moglie per un cappello” di Oliver Sacks, rivolge il suo sguardo ai casi clinici che gli si presentano, trattandoli come se fossero delle storie impregnate da risvolti curiosi e arrivando a romanzare questi dolorosi percorsi di vita. Lo fa, rivolgendo  nei confronti di essi uno sguardo carico di umanità e di empatia. Viene evidenziato quel processo di umanizzazione ,che ogni me dico dovrebbe mettere in atto, quel medico  che ci sa ascoltare in quanto prima di tutto ha davanti a se’ persone con un bagaglio di emozioni, solitudini, stati emotivi, intelligenze e mondi sommersi e mai raccontatili paziente non è soltanto una sterile, fredda e asettica cartella clinica.

Il medico sognato e mai incontrato,quell’uomo che appartiene insieme alla scienza e alla malattia,mettendo in evidenza il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarieta’ attraverso un processo di convivenza al disagio.La cosa più entusiasmante  che in nessun suo caso ho mai avuto la percezione che queste persone “anormali” fossero pazze,ma  sempre persone speciali,perche’ speciali sono agli occhi di chi li racconta.

Non ho mai intravisto casi,ma persone  e non esistono ostacoli che non possono essere superati se sappiamo vedere oltre la disabilita’ e la malattia,e’ come se  in ognuno di noi possa emergere un talento che puo’ farci sentire speciali nonostante la malattia. E ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto,un racconto interiore  la cui continuita’,il cui senso e’ la nostra vita,ognuno di noi costruisce  e vive un racconto  e che questo racconto e’ noi stessi,,la nostra identita‘.

Il mio vissuto né fa da padrone, immergendomi e sommersa in questa realtà ,accudendomi dei miei genitori ,prima di mia madre ,la quale non ce l ha fatta  ed oggi di mio padre malato oncologico, sono stati anni in cui ho stratificato in me una crescente, disincantata, amarezza forse anche in relazione alle mie iniziali aspettative ,  in cui avevo immaginato che il medico, l’infermiere o chiunque svolgesse una professione di aiuto, fosse una sorta di missionario. Persone con una predisposizione particolare, con un indole umanitaria protesa al conforto, che li rendesse in grado di affrontare l’arduo compito di curare, da un punto di vista strettamente strumentale e medico, e nello stesso tempo di accogliere, confortare, in altre parole “prendersi cura”.

Nel  mio semplice ruolo,  i due concetti del curare o prendersi cura che non sono per me in contrapposizione, ma dovrebbero ‘fondersi’ in una collaborazione continua, in un interscambio dai confini sfumati in cui sia semplice e naturale curare la persona fisica e nello stesso tempo prendersi cura dei suoi aspetti più intimi e profondi.
Premetto che, in base all’esperienza che ho accumulato sul campo, ho scelto di dare voce soprattutto a ciò di cui sono stata testimone e che ruota intorno alla persona malata, mio padre.
Ho sempre immaginato che il medico fosse uno specialista la cui professione ha per oggetto “la cura dell’anima”.
E non può esserci “cura dell’anima” senza “prendersi cura” delle persone. E non un continuo volersi comunque interrogarsi, mettersi in discussione, un voler andare oltre la conoscenza teorica, i dogmi scientifici, il punto di vista dei super sapienti.


In questo arduo confronto, la relazione medico- paziente, MALATO e MALATTIA, è resa ancora più insanabile dai vari operatori del settore che rischiano sempre più di identificarsi con il sapere e saper fare, ma non con il saper essere. E’ in questo contesto  che emerge la privatizzazione della sofferenza e un dilagante sentimento di solitudine che non permette all’uomo malato di parlare del proprio dolore, dei propri bisogni e necessità, di fronte al quale penso  quanto mai sia urgente riaffermare la “centralità” della persona, soprattutto quella che soffre, ammalata  e quindi vulnerabile.

 “Pazienti” pronti a subire, accogliere, sopportare (a seconda dei casi e della fortuna), i disagi conseguenti a una vicenda di malattia che riguarda il corpo: il suo guastarsi, il perdere per strada il corretto funzionamento, spesso il suo dolore fisico e’ tangibile. Sono ,invece, esseri umani che vivono intorno all’esperienza del dolore, perplessità, dubbi, preoccupazioni non esprimibili, con un notevole carico di emozioni profonde, sentimenti intensi verso la malattia, di cui nessuno si occupa. Lontani dalla loro abituale condizione sociale e familiare, trapiantati in una situazione, quella ospedaliera, del tutto o quasi indifferente, i malati vivono grandi momenti d’inquietitudine, di ansia, paura e persino panico. Depersonalizzati fin dal primo momento, vivono in balia di eventi sconosciuti che non possono  dominare né correggere.

E cosi, sempre piu’, le voci di pazienti smarriti, spaventati, disorientati a fronte di poche persone dell’ambiente sanitario , pre-disposte a colmare la devastante angoscia di vuoto e di morte che la malattia, la solitudine nella malattia, spesso generano. Pazienti abbandonati dalle famiglie, genitori ‘dimenticati’ o ‘parcheggiati’ in ospedale dai propri figli.  Pazienti la cui dignità è  continuamente lesa, la cui privacy è negata. In un contesto così disumanizzato, il paziente depersonalizzato, sperimenta un ruolo essenzialmente passivo, e’un ‘contenitore da riempire’ e, a conferma dell’immaginario collettivo diventa solo un numero, una patologia. Ciò non toglie che medici e personale sanitario si stanno occupando di loro curandoli, ma di certo non ci si sta prendendo cura di loro.

Ritmi di vita pressanti, preoccupazioni, stanchezza, mancanza di consapevolezza, a volte solo distrazione, rendono capace di curare con efficienza, ma non di prendersi cura con efficacia.
L’empatia è quella capacità, che potremmo dire, ci consente di ‘leggere tra le righe’ di ciò che ci viene raccontato andando oltre quelli che sono i nostri propri schemi di attribuzione di significato. Sapersi calare nell’esperienza emozionale dell’altro, ci consente di provare ciò che l’altro prova, di sentirsi non solo al suo posto ma nella sua pelle.

 Solo se chi si occupa della persona malata, riesce ad individuare modalità in cui il paziente si senta coinvolto e partecipe nell’intero processo, il CURARE può trasformarsi in prendersi CURA .
 Le capacità empatiche del medico emergono proprio nel riconoscimento di valori e potenzialità, di diritti e doveri, di bisogni e di opportunità, di realtà e di sogni del paziente che, se condivisi ,consentono a chi cura e a chi è curato di non focalizzare l’attenzione solo sulla malattia, ma ampliare il proprio campo visivo ad una visione d’insieme che mette medico e paziente, in grado di incontrarsi ed interagire nella dimensione del rispetto, con il coraggio e l’umiltà del medico di accettare in modo neutrale i modi, tempi, scelte del paziente.

 La ‘narrazione’ è una delle metodologie di ricerca qualitativa fra le più adatte. Già da alcuni anni ‘LE STORIE DI CURA” sono strumenti che non solo permettono di guardare con chiarezza nella vita dei malati come gli altri strumenti tecnici permettono di guardare nei loro corpi, ma anche di accogliere e sostenere il legame umano fra paziente e professionista.  La raccolta della storia clinica, importantissima ai fini della diagnosi, diventa allora uno strumento di recupero di preziosi frammenti di passato.
Tramite i “contenuti narrati” si cerca di creare idonei ponti relazionali fra il processo di cura e il vissuto della stessa persona malata, affinché conservi l’umanità di tutta la propria esperienza di malattia evitando rassegnazione, illusioni o eccessive aspettative, accanimento o tentazioni di abbandono terapeutico. La persona malata potrà sentirsi unica e non solo un caso clinico se scoprirà che anche per il medico è importante quello che si dice, importantissimo come si dice ma di fondamentale importanza è a chi lo si dice.


In ogni situazione va comunque riconosciuto al malato in quanto persona il VALORE e la DIGNITÀ che sono considerati inerenti all’essere umano e che caratterizzano ognuno di noi quale essere unico e differente, con il dovere e il diritto di affermarsi, e realizzarsi in tutta la sua originale pienezza e completezza. Tuttavia quando una persona è colpita dalla malattia, spesso smarrisce il senso della propria dignità e del proprio valore non sentendosi altro che “un malato”.

Di fronte alla malattia, tutto ciò che costituiva il suo  mondo perde bruscamente importanza. La sensazione


*Dott.ssa Carmela Cioffi – sociologa


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