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Economia politica della paura

di Patrizio Paolinelli

Tempo di pandemia tempo di paura. Da qualche mese il mondo intero è minacciato da un virus contro il quale per il momento non c’è cura. L’unico modo per evitare che ci colpisca è contenerlo attraverso misure precauzionali come la quarantena, il mantenimento della distanza di sicurezza tra persone, l’uso di guanti e mascherine. In attesa del vaccino viviamo tutti nella paura. Un’occasione, seppur molto triste, per riflettere su come quest’emozione è vissuta nella nostra società.

La prima cosa da dire è che la paura accompagna da sempre l’esistenza degli esseri umani. Ora, dinanzi a affermazioni di questo tipo si corre il rischio di eternizzare il presente come accade quando si sente affermare che la guerra è sempre esistita, la disuguaglianza pure e in tal modo si giustificano le guerre e le disuguaglianze esistenti. Per non fare un uso astorico della storia è sufficiente considerare che le paure non sono le stesse per tutti, non sono provate dalle persone allo stesso modo e cambiano nel corso del tempo. Si prendano quattro paure tipiche del medioevo europeo: la fame, la peste, la guerra e l’inferno.

La fame attanagliava soprattutto i contadini, costretti a lottare ogni giorno contro le inclemenze della natura e lo sfruttamento di feudatari, vassalli e principi. La peste invece non guardava in faccia nessuno, ma i nobili avevano più opportunità per difendersi isolandosi nei loro palazzi e nelle residenze lontane dai focolai d’infezione. La guerra era un fenomeno endemico che sconvolgeva di continuo la vita sociale. All’inferno poteva finirci ogni peccatore. Ma non tutti i peccatori erano uguali e assai più dei villani le classi dominanti riuscivano a farla franca grazie a vari espedienti e alle indulgenze.

Nell’Europa d’oggi le paure medioevali sono quasi del tutto azzerate. La fame è praticamente sconfitta; colpisce una minoranza marginale della popolazione a cui però presta soccorso l’assistenza sociale, il volontariato laico e quello religioso. Con la Pax Americana da oltre settant’anni l’Europa non conosce guerre combattute sul proprio territorio ad eccezione dei conflitti in Jugoslavia, in Serbia e nel Donbass. In quanto alla possibilità di finire all’inferno il processo di secolarizzazione ha fatto il suo corso e si può dire che oggi non si tratta più di una paura collettiva. Resta la peste. In questo caso occorre riconoscere che il coronavirus ha riportato a galla una paura simile a quella che vivevano gli individui del Medioevo. Con alcune decisive differenze che separano il passato dal presente: 1) oggi nessuno o quasi crede che le epidemie siano un castigo divino; 2) la scienza, la medicina e il sistema sanitario permettono di difenderci efficacemente; 3) c’è allarme per il contagio, ma non in misura tale da seminare il panico tra la popolazione.

Se in Europa la fine del Medioevo coincide col netto declino delle sue paure, con la modernità ecco nascerne di nuove. Come dire, a ogni epoca il suo regime di angosce. Qual è il nostro? Possiamo dividerlo in due sistemi strettamente connessi che l’attuale pandemia sta destabilizzando: le paure strutturali, che investono il mondo del lavoro e quelle sovrastrutturali, che investono il mondo del consumo. Delle prime ne indichiamo tre: la paura di perdere il lavoro o di non trovarlo affatto, la paura dello straniero, la paura dell’indigenza.

La disoccupazione ha una ricaduta importante sui rapporti sociali di produzione: permette al capitale di esercitare il proprio comando sul lavoro. Più c’è penuria di posti di lavoro più la manodopera, manuale o intellettuale che sia, diventa docile e si accontenta di minori retribuzioni. Pertanto il potere economico ha tutto l’interesse a alimentare questo tipo di paura. Dal canto loro i migranti abbassano il costo del lavoro, mettono i lavoratori gli uni contro gli altri e scatenano guerre tra poveri per accaparrarsi le risorse del welfare. Non ci vuole molta immaginazione per capire chi si avvantaggia da una situazione del genere. La paura dell’indigenza è trasversale perché a ondate di dieci-quindici anni arriva una crisi economica. Questa peste delle società sviluppate investe lavoratori con bassi e alti titoli di studio, fa vivere nell’ansia il piccolo commerciante minacciato sia dalla contrazione dei consumi che dalla grande distribuzione on-line e off-line, mette a repentaglio i redditi dei ceti professionali, i profitti dei piccoli imprenditori e sposta sempre più la ricchezza al vertice della piramide sociale.

In questi mesi di pandemia abbiamo sentito ripeterci fino alla nausea che niente sarà più come prima. Cosa significhi in concreto non è chiaro. Di certo sappiamo che nel mondo il blocco delle attività produttive ha già causato milioni di nuovi disoccupati, la caduta del Pil di diversi Paesi e si prevede l’arrivo di una nuova grande recessione. Su questa base si possono ipotizzare due scenari per il mondo del lavoro. Primo scenario, se l’economia continuerà a essere gestita con criteri neoliberali è fin troppo facile prevedere che la paura della disoccupazione, dello straniero e dell’indigenza cresceranno ancora. Ma fino a che punto senza mettere in crisi la stabilità sociale con esiti troppo incerti anche per il potere economico? Da questa domanda scaturisce il secondo scenario, ossia un ammorbidimento delle politiche neoliberali. Ma come gestire un abbassamento del grado di paura facendo in modo che non si consolidi? Domande che al momento restano senza risposta. Perciò passiamo alle paure sovrastrutturali.

Tali paure sono gestite dal complesso che integra le industrie del tempo libero, della cultura e dell’informazione. Prendendo in considerazione solo il mercato del tempo libero la lunga serie di beni e servizi che offre risulta d’importanza vitale anche per i consumatori con scarso reddito. Un parziale elenco: vacanze, abbigliamento alla moda, attrezzature sportive, cosmetica, ristorazione, partecipazione a svaghi di massa come concerti, notti bianche, movida, eventi sportivi, manifestazioni e festival culturali.

Trovarsi ai margini di questo mercato, ossia fruire in misura minima dei suoi servizi, delle sue opportunità e delle sue merci comporta una socializzazione inconclusa, mutilata, di scarso successo. A causa di pensioni mediamente basse gli anziani costituiscono la categoria sociale maggiormente colpita da questo processo di esclusione, parziale o totale che sia.  Da qui l’origine di una delle più insidiose paure del nostro mondo: la paura della solitudine. C’è poco da discutere: chi non partecipa al banchetto dei consumi resta fuori dalla porta. Magari in gran compagnia, ma di individui frustrati dalla tensione irrisolta tra le infinite offerte dell’industria del tempo libero e il magro conto in banca. Accade così che nella nostra società un gran numero di persone conduca un’esistenza satellitare rispetto al pianeta della felicità consumista. E molti di quelli che lo abitano rischiano di finirne espulsi per la perenne instabilità dell’economia. Oggi si guarda con terrore al dopo-coronavirus. Ancor più di ieri dovremo rinunciare ai piaceri dell’edonismo? Dove, cosa tagliare? Gli abiti firmati o le serate al pub? Le vacanze o l’iscrizione alla palestra? Domande che annunciano il probabile incremento del tasso di solitudine. O forse no. Trovato il vaccino tutto tornerà come prima e la quarantena sarà solo un brutto ricordo. Ma si avranno gli stessi soldi in tasca?

Connesso al tempo libero un altro potente fattore che alimenta la paura della solitudine è ravvisabile nella sistematica distruzione della famiglia ad opera delle politiche economiche neoliberiste. La famiglia: un’istituzione sicuramente imperfetta ma senza la quale la società vacilla. Man mano che la famiglia si indebolisce si realizza il sogno di Margaret Thatcher: un mondo di consumatori in concorrenza gli uni con gli altri e il mercato a arbitrare l’esistenza di ognuno. Eccolo il mondo dell’economia politica liberale: composto da single nevrotici, depressi e psicopatici che cambiano di continuo merci e persone nell’indifferenza per le une e per le altre. Stiamo per passare dalla società liquida alla società liquidata? Un termometro per capirlo è la diffusione della paura della solitudine. Più cresce più il fantasma di Margaret ci ammonisce: “La società non esiste”.

Le paure sovrastrutturali occupano molteplici territori. Uno di questi è la paura della morte. Nel Medioevo era una presenza tangibile nei bambini che morivano in tenera età, negli anziani che si spegnevano tra le mura domestiche, negli animali che venivano macellati nel cortile di casa, nelle esecuzioni pubbliche, nei roghi in piazza degli eretici e delle streghe, nelle rivolte contadine, nell’incessante susseguirsi di guerre. Per così dire, la morte era vissuta. Con la modernizzazione e poi con l’avvento della società opulenta tutto cambia. La morte scompare dalla scena pubblica. È relegata nelle quinte della vita associata: ospedali, carceri, ospizi, mattatoi. Luoghi lontani dallo sguardo o che lo sguardo rifiuta di vedere catturato com’è da un nuovo ordine visivo al cui centro si è installato il corpo.

Evaporata la paura dell’inferno il corpo non è più la gabbia da cui l’anima un giorno si libererà e rivendica il diritto al piacere su questa terra: piacere della carne, della vista, della scoperta. Banalmente questo è il messaggio: dalla vita non si esce vivi e allora godiamocela. Il corpo si carica così di un nuovo senso sociale e col definitivo tramonto del mondo rurale l’organizzazione commerciale del piacere non conoscerà più limiti fino a arrivare al corpo estetizzato, erotizzato, spettacolarizzato dei nostri giorni. Corpo che genera i suoi contrari: la paura di ingrassare e quella di invecchiare. Su queste due paure, è noto, prosperano industrie dai fatturati stratosferici.

La paura di ingrassare venera la bilancia in quanto divinità della giustizia calorica: divinità dalle sentenze esatte, imparziali e inappellabili: quasi sempre si esce condannati. La paura di invecchiare è talmente paradossale che le si è dovuto cucire addosso un’etica su misura: l’etica giovanilista. Nasce negli anni ’50 del Novecento con l’invenzione dei teenager da parte dell’industria statunitense e la sua divinità è lo specchio. L’immagine che rimanda conferma o smentisce l’aderenza al corpo ideale, quello californiano: seducente, atletico e abbronzato. E ora? Ora la quarantena impedisce di fuggire la morte correndo all’aria aperta. L’estate è in arrivo e ci saranno difficoltà per andare al mare a sottoporre il corpo all’ammirazione, all’invidia e al giudizio della giuria popolare che si forma in ogni spiaggia. Come dimostrare che si è belli, in forma e in salute? Per fortuna c’è Instagram. Ma basterà? E se le cose non dovessero più tornare come prima? L’industria non è pronta a fabbricare nuove paure. Panico tra i manager.

La paura di invecchiare non è l’unico colpo che il mercato ha inflitto all’angoscia della morte. La si sconfigge anche in altri modi: sfidandola nei film d’azione e negli sport estremi. Nei primi il sangue scorre a fiumi e l’eroe di turno non muore mai nonostante gli sparino addosso migliaia di colpi. Nei secondi il rischio di morire c’è davvero. Ma proprio qui sta il bello: nel brivido, nella vertigine, nel dare scacco alla morte. Col coronavirus la pretesa d’immortalità torna a fare i conti con la realtà. Il corpo si scopre debole, in balia di un nemico invisibile. Il contagio si può contrarre ovunque e la morte non può essere sfidata. Ogni cosa si appiattisce. Fine dell’apericena, fine delle passerelle per le vie del centro, fine della movida. Niente più baci e niente più abbracci. Fine della comunità dei felici fatta di sorrisi, seduzione e corpi scolpiti proprio come nella pubblicità. La quale anche in quarantena esorta a comprare.

Qual è il futuro delle paure collettive? È ipotizzabile che quelle strutturali muteranno più rapidamente di quelle sovrastrutturali. Le quali, richiedono un lavoro culturale più lungo per essere modificate. Potrebbe persino accadere che il coronavirus lasci un segno duraturo nelle nostre società e si torni a valorizzare gli anziani, il cui tributo di sangue durante l’epidemia è stato terribile. E ci potrebbe persino essere un ritorno in grande stile del welfare state vista la débâcle della sanità privata, la necessità di riorganizzare il mondo dell’istruzione su basi tecnologicamente più avanzate, il probabile aumento dell’incertezza occupazionale e della marginalità sociale. Lo Stato allora tornerebbe a prendersi cura dei cittadini e diverse paure collettive sarebbero mitigate. Molto, se non tutto, dipenderà dalle decisioni del potere economico. Ma questa è storia di domani.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 25 aprile 2020.


Il caso Silvia Romano

” Non arrabbiatevi per me” …..

di Elisabetta Festa

Si chiama Silvia Romano  è milanese ed ha 24 anni,  ha conseguito nel 2018 poco prima della sua partenza, la laurea in Mediazione Linguistica per la Sicurezza e Difesa Sociale al Ciels (Centro di Intermediazione Linguistica Europea). Collaborava con una onlus  chiamata “Africa Milele,” una piccola organizzazione del marchigiano che opera a Chakama in Kenia per progetti di sostegno all’infanzia. Era partita come volontaria con l’unico  intento di dare una mano. E’ stata rapita nel novembre del 2018, nell’ufficio di questa organizzazione, durante un attacco armato guidato da otto persone successivamente poi venduta da questi  ai terroristi somali di Al Shabaab.

Al-Shabaab in lingua somala, in arabo: الشباب‎, al-Shabāb; in italiano “i Giovani”, dall’arabo Ḥizb al-Shabāb, ovvero “Partito dei Giovani”), anche  indicato come «Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle Due Migrazioni» (MRP), è un gruppo terroristico jihadista sunnita di matrice islamista attivo in Somalia, nato intorno al 2006.

Il gruppo si è creato a seguito della sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) a opera del Governo Federale di Transizione (GFT) e dei suoi sostenitori, in primo luogo i militari dell’Etiopia, durante la guerra civile in Somalia. È la cellula somala di al-Qāida, formalmente riconosciuta nel 2012. Da numerosi governi e servizi di sicurezza occidentali è considerata un’organizzazione terroristica. Nel giugno 2012 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha posto taglie su numerosi capi del gruppo. Questa formazione islamista è presente nelle regioni del sud della Somalia e mantiene vari campi di addestramento nei pressi di Chisimaio. Alcuni finanziamenti per al-Shabaab provengono dalle attività dei pirati somali. ( Wikipedia.)

Terroristi somali di Al-Sh abaab

Il suo rapimento è durato ben 18 mesi, e si è concluso il 10 maggio di quest’anno. La sua liberazione dopo lunghe trattative è avvenuta a Mogadiscio. Al suo rientro ha affermato di essere sempre stata trattata bene dai suoi rapitori e di essersi convertita liberamente e spontaneamente all’Islam dopo metà della sua prigionia  leggendo il Corano.

Scende dall’areo di Ciampino vestita con lo jilbab, abito tradizionale indossato dalle donne in Kenya ed in Somalia a riceverla i suoi familiari e esponenti dell’attuale governo. Fin qui sembra una storia a lieto fine, ma diventa in realtà per la giovane donna, l’inizio di un secondo incubo. Viene infatti attaccata sui social, sui giornali e  addirittura in parlamento da un deputato; la accusano di essere una terrorista, una traditrice che merita la morte e le accuse si spostano in men che non si dica anche al governo che avrebbe pagato un riscatto, quindi utilizzato soldi pubblici, per far rientrare in patria l’infedele. Non volendo approfondire la sterile argomentazione dello scontro politico, tra le forze di opposizione e quelle governative, è bene fare invece una riflessione generale sulla risposta sociale di questo accadimento.

La prima stortura è la mancata risposta univoca sulla vicenda, ci si aspettava infatti un sentimento collettivo di pura gioia per la fine della reclusione di Silvia, una ragazza mossa da buoni sentimenti, da spirito umanitario, che fa della cura dell’altro la sua ragione di vita, in un mondo in cui spesso, specie le nuove generazioni, si è spinti da bel altri sentimenti e condotte di vita più tranquille e spensierate. Ebbene  una persona così, che riesce ad uscire indenne, sana e salva da un incubo del genere, meriterebbe una medaglia al valore e non  una seconda crocifissione a cui invece è stata ignobilmente sottoposta. 

Da questa prima stortura se ne ricava un’altra, che ci rivela una fetta di  società superficiale e decisamente priva di ogni componente empatica. Persone incapaci di immedesimarsi, nel suo buio quotidiano, nel suo convivere in solitudine, senza un appiglio, senza nessun punto di riferimento, e non per pochi giorni, ma per ben 18 mesi, come già detto,  a contatto solo con i suoi rapitori ( uomini sconosciuti armati col volto coperto, questo ci racconta) per cui le uccisioni sono, non solo all’ordine del giorno, ma normali. Con il terrore di essere struprata, torturata, seviziata, e come non parlarne bene, al suo rientro nonostante tutto,  se ciò non avviene.

Sindrome di Stoccolma? Sarebbe più che giustificata…sfido qualsiasi persona in una situazione del genere a non ringraziare il proprio carnefice per avergli salvato la vita.. A non assecondare ogni minima richiesta, a non accettare ogni imposizione, pur di aver salva la vita.

Il sentimento dominante è paura, solo paura…..sacrosanta paura….!!!! Ma come si fa a non capire questo. Come la si può criticare invece, per la veste che indossa, mentre abbraccia finalmente i suoi cari.

C’è una parte del nostro Paese, che ha perso di vista coscienza e buon senso, bisogna ritrovarle invece, specie, ma non solo,  in periodi come quello che stiamo vivendo. Le tante morti, da Covid19, dovevano pacificare gli animi non renderci più cinici, ma a quanto pare purtroppo le cose non stanno così.

Ci sono momenti che richiedono silenzio, pudore, rispetto, unità. E la sua conversione vera o presunta, non dovrebbe essere oggetto di discussione, né sottoposta a tifoserie di basso grado. Ricordiamo inoltre che siamo un paese laico, che difende la libertà di religione, come sancito dall’art.19 della nostra Costituzione. Il caso Romano ci svela una deriva intellettiva e un odio sociale che regnano indisturbati, così come sono facili gli stigmi, gli stereotipi e i semplicistici e riduttivi pensieri dicotomici: occidente contro oriente, bianco contro nero, destra contro sinistra, nord contro sud…..ecc.ecc. Dovrebbe invece, essere per chiaro che convertirsi all’ islam non significa essere terrorista. Il culto è cosa ben diversa dall’azione criminale, anche se in nome di Allah, l’Isis ha commesso atroci crimini questa resta una stortura della loro mente criminale. Ricordiamo poi, solo per memoria storica,  che anche in nome  della religione cattolica, o di quella ortodossa, o di quella celtica ecc.,  si sono commessi orrendi crimini contro l’umanità.

  Il caso della Romano ci impone una attenta riflessione. Bisogna abbattere questo depauperamento ed “anomia” civici,  sostituendoli con pratiche di alta moralità ed eticità a partire dalle istituzioni.

Silvia  anche nel rispondere con affetto ai suoi sostenitori, dimostra grande intelligenza: ” Non arrabbiatevi per me” ….. non degnandosi di  citare in questo commento giustamente, i suoi stupidi persecutori italiani…..Silvia ha un cuore grande, un coraggio da leone, e farà della sua vita cosa riterrà più giusto fare….dal canto nostro, non possiamo che dirle :

BEN TORNATA !!!

Dott.ssa Elisabetta Festa – sociologa


I SOCIOLOGI? ULTIMA CATEGORIA DI INVISIBILI

Nei prossimi giorni, l’Associazione Sociologi Italiani, attraverso il sistema di Web Meeting, si renderà disponibile ad ascoltare gruppi di laureati in sociologia per varare la strategia di lotta per un diverso riconoscimento legale della professione del sociologo. Gli interessati possono prenotarsi inoltrando la propria e-mail a: sociologi.italiani@gmail.com

Gli invisibili del settore agricolo, le badanti ed altre categorie di lavoratori stagionali, da oggi, dispongono di nuove tutele per affrancarsi dall’antica condizione di schiavitù in cui vengono sottoposti da datori di lavoro senza scrupoli, dal caporalato e dalla malavita organizzata.

 Il provvedimento governativo, finalizzato a far ripartire il Paese dopo il disastro socio-economico del Covid-19, sulla carta, apre nuovi orizzonti di libertà per quei cittadini, italiani e/o immigrati, che svolgono lavori in settori carenti di manodopera. La nuova norma rappresenta un nuovo avamposto di libertà, teso ad impedire forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e ridare così dignità a tanti lavoratori del settore agricolo e dei servizi alle persone.

Le lacrime della ministra Teresa Bellanova hanno profondamente toccato i sentimenti di solidarietà e di giustizia sociale di milioni di italiani. Le norme, al pari di altre varate in precedenza, non possono rimanere sulla carta, ma vanno applicate: costi quel che costi. La vigilanza spetta agli apparati statali ai quali è eticamente vietato “mettersi in sonno”.

E se a queste categorie di “invisibili” vengono rafforzate le possibilità di emersione, lo stesso non può dirsi per i prestatori d’opera, soprattutto intellettuale, ostaggi di un sistema baronale che, di fatto, impedisce il diritto al lavoro e, dunque, crea discriminazioni nell’ambito di una stessa professione.

 Le lacrime dell’on. Bellanova hanno provocato in noi sentimenti contrastanti: soddisfazione e delusione. Quest’ultima, integrata con un pizzico di rabbia, continua a caratterizzare il grande bacino dei laureati in sociologia. Sono loro una delle ultime categorie di “invisibili” che si batte per ottenere gli stessi diritti che lo Stato riconosce ad altre professioni, ad altri laureati e, in prospettiva, anche a quanti sono in possesso del semplice diploma di scuola media superiore.

Nessuno si accorge del loro dramma, delle mortificazioni, delle discriminazioni che sono costretti a sopportare giornalmente. In Parlamento non hanno eletti in grado di tutelarli: neanche quanti, come loro, hanno fatto lo stesso percorso di studi. Onorevoli che non rispondono alle mail di aiuto, ma che poi trovano il tempo di interessarsi di problemi di altre categorie professionali. Insensibili ed egoisti: gente che ben si presta ad esplorare spazi vergini, illudere i cittadini per poi abbandonarli nelle discariche sociali. Siamo in grado di pubblicare i loro nomi e cognomi, l’appartenenza a gruppi politici, le università dove hanno conseguito la laurea in sociologia e quali interessi accademici tutelano, nella speranza di potersi inserire non appena il popolo toglierà loro il privilegio di sedere sugli scranni di una delle due Camere. Le vendette non ci interessano, ma… da sempre ci ergiamo a strenui difensori del diritto di cronaca e di critica.

Da quando il presidente del Consiglio, Prof. Giuseppe Conte, in conferenza stampa, ha legittimato il lavoro del sociologo, ci sembra di trovarci di fronte ad una competizione per la conquista di posizioni privilegiate, di occasioni per fare business, di operazioni tese al   consolidamento di un sistema che include pochi ed esclude centinaia di migliaia di cittadini con la laurea in sociologia e, purtroppo, senza santi in Paradiso.

Negli ultimi due mesi si assiste al dilagante malcontento di migliaia di sociologi ( (inoccupati, disoccupati, precari da una vita) che chiedono un’interlocuzione con la politica, con il Governo, con il Parlamento. Niente: nessuna risposta, nessun segnale di disponibilità. Eppure si tratta di cittadini, non di fantasmi.

Adesso siamo noi a dire basta a quanti fanno finta di non sentire. Vuol dire che cambieremo strategia. Dai post, dai like, dai cinguettii passeremo a nuove e più incisive forme di lotta: in modo civile e democratico, ma con grande determinazione e tenacia. È vero, per lo Stato e per la politica siamo degli “invisibili” ma lo status di cittadini nessuno può negarcelo. Il mondo, prima o poi, avrà la meglio sull’attuale nemico. E con il ritorno alla normalità tra il resto dell’Italia e Roma scompariranno tutte le barriere e la nostra protesta assumerà un carattere fisico. Intanto ci chiediamo: c’è qualcuno disposto a chiarire perché una società di certificazione ha pubblicato un testo diverso della norma UNI 11695? Attendiamo risposte.

Antonio Latella -giornalista e sociologo


L’Italia in due parole al tempo della pandemia

Com’è strana e cattiva, quest’Italia.

Muore un poliziotto nell’esercizio delle sue funzioni, lascia una famiglia. Al funerale solo i familiari come previsto dalle restrizioni, i colleghi, il presidente della Giunta della Regione Campania ed il Sindaco di Napoli.Nessun corteo. Nessuna folla. Silenzio. Nessun applauso.

Rientra una cooperante per la quale è stato pagato un riscatto, danaro pubblico….ressa all’aeroporto, ministri pavoneggianti, militari, fotografi…e poi sotto casa..applausi, abbracci, folla nel quartiere,fotografi impazziti…

Dove sono le restrizioni?

La CIG è attesa da marzo dall’80% degli aventi diritto al pari dei bonus promessi. Ma Conte nomina altri 11 elementi per le task forces inutili e costose. Altro danaro pubblico distratto e speso.

Tutto tace…anche le dirette alle quali il PdCM ci aveva preso gusto. Ora siamo nella fase 2…rimuovere la memoria, cancellarla e dare nuove immagini, nuovi bisogni, nuovi preoccupazioni.

Calcio, mare, bonus turismo (a spese degli albergatori, ovviamente), via le autocertificazioni e giù l’importo delle sanzioni.

Le persone si riversano indisciplinati per strada? Fa nulla, ora la responsabilità è loro.

Il virus è ancora presente e non c’è vaccino e cura ufficiale? Fa nulla…

Non è polemica, non è politica, non è religione, non è scontro tra chi pro e chi contro. Non mi interessa tutto ciò.

Ma è avvilente, umiliante, mortificante, vile opportunismo elettorale.

Prof. Michele Miccoli


MEDIA E CRIMINE

Come i media influenzano l’opinione pubblica.

Lo spiega il sociologo Marino D’Amore nel suo libro “Media e Crimine”

Il libro di D’Amore nel titolo palesa le sue finalità, ponendo come filo conduttore logico il forte connubio tra comunicazione e criminologia. Infatti l’intento interpretativo-analitico è quello di dimostrare come la comunicazione, prima giornalistica e poi televisiva, influenzi la ricezione interpretativa di un caso di cronaca e, conseguentemente, la sua trattazione.

L’analisi, all’interno del testo, procede da un punto di vista oggettivo, ossia riferendosi ad ogni singolo caso in modo il più possibile esaustivo, ma anche diacronico, generazionale, osservando come la trattazione mediatica di questi casi è mutata nel corso del tempo e all’interno del contesto storico-culturale di appartenenza.

L’iter analitico che tale lavoro ha portato avanti si è basato sullo studio degli articoli dei quotidiani e più tardi sul potere icastico del mezzo televisivo nel trattare determinate tematiche, nel tipo di comunicazione utilizzata attraverso l’uso degli strumenti semantico-linguistici che la caratterizzano.

I casi trattati, dal Processo Fadda a Sara Scazzi, dimostrano come un titolo, un aggettivo, una proposizione, un’immagine, può mistificare il reale svolgimento di un fatto, una verità, addirittura mitigare la sanzione sociale nei confronti dell’autore di un reato che assurge al ruolo di personaggio pubblico non per merito ma per nomina di audience dai connotati voyeuristici. Pubblici che in molti casi non hanno gli strumenti cognitivo- interpretativi adeguati per comprendere determinate notizie, connotandole di significati erronei. L’opinione pubblica inoltre, in quanto portatrice di un pensiero comune e condiviso, influenza, insieme alla cosiddetta gogna mediatica, anche il giudizio di una certa letteratura giurisprudenziale, che ovviamente prima del suo ruolo giudiziario nonché pubblico e quindi inevitabilmente soggetto a questo tipo d’influenza mediatica.

SociologiaOnWeb


IL CONCETTO DI DEVIANZA

di Italo Caruso

Diversi sono i sociologi che si sono interessati al fenomeno della devianza sociale, a partire da Emil Durkheim che spiega come la devianza sia indotta dall’anomia, fino agli studiosi e filosofi contemporanei, i quali teorizzano che il concetto di devianza è da circoscrivere nella violazione delle norme, delle regole sociali all’interno di un determinato sistema sociale

 Per alcuni sociologi la devianza non è la infrazione di una regola, in quanto tutte le società hanno dei limiti di tollerabilità, Olanda e Svezia ad es.  più trasgressive, ma più permissive; oppure paesi più restrittivi, dove il mancato rispetto della norma è punito severamente.

Quindi possiamo dire che la devianza è un concetto relativo che può variare da una società all’altra, con il periodo storico e con i mutamenti delle norme sociali, per cui, quello che è considerato deviante per una società, risulta normale per un’altra.

Partendo da questo concetto di devianza, concetto labile e opinabile, nel giudicare un atto trasgressivo, e quindi punibile con la limitazione della libertà fisica dell’individuo, rimane qualche volta il dubbio se alcune restrizioni coercitive siano effettivamente adeguate al problema.

La devianza parte da lontano, il carcere è il culmine di un processo criminale adolescenziale. Per fare un esempio pratico potremmo dire che la devianza è tangibile nei ragazzi già dall’inizio della scuola media, anche prima, e spesso il compagno di banco, se non l’intera scolaresca, è solidale con il deviante. Non si può far gravare tale problematica sul capo dell’istituto già oberato da mille rivoli burocratici, oppure sperare in un docente eroe, o peggio lasciare che se ne facciano carico esclusivamente le famiglie che vivono tale dramma. Occorre prevenire tale comportamento deviante che può diventare per qualcuno una trappola che si chiama carcere. Di tale problema non si può far carico la scuola, che ha ben altri compiti culturali e istituzionali, né si può demandare tutto agli organi di polizia. Come laboratorio Focus Carcere di Rende mi rivolgo alla Ministra Lucia Azzolina, professionista di indubbia capacità, cosciente che il mondo scolastico esprime l’intellighenzia per antonomasia, e mi auguro che la Ministra Azzolina possa ascoltare tale messaggio e farne ricchezza.

Il sociologo sentinella sarebbe un valore aggiunto, ma di questo ne parleremo più avanti.

Rinchiudere il deviante, il delinquente, il criminale è rassicurante, ma non risolve il problema, serve solo a dare soddisfazione al popolino e a punire il reo per il reato commesso, assicurandolo alla Giustizia.

Restrizioni che molto spesso puntano alla punibilità del reato, ma non al recupero della persona. Una concezione arcaica, giustizialista in base alla quale solo con il male si può ripagare il male arrecato.Il modello carcere così inteso diventa un punto di raccolta di persone che hanno commesso dei reati e che le raggruppa ed etichetta come criminali, quindi un modello punitivo che genera criminali, invece di un modello di carcere rieducativo che punta alla riabilitazione, alla prevenzione, un modello che può solo aumentare la sicurezza nella collettività.

A proposito di devianza e riabilitazione ci viene in aiuto l’ordinamento penitenziario, la legge Gozzini del 1986 che ha introdotto misure alternative alla carcerazione, quali affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, regime di semilibertà, liberazione anticipata.

Un ruolo fondamentale nell’attuale quadro normativo è ricoperto dall’Ufficio UEPE (Ufficio Esecuzioni Penali Esterne), che è chiamato a rispondere alle prescrizioni e modalità dettate dal giudice di sorveglianza imposte al beneficiario delle pene alternative. Detto ufficio è composto prevalentemente da assistenti sociali, che svolgono un enorme lavoro con funzione anche risocializzante e rieducativa, con a capo un dirigente nominato dal Ministero della Giustizia, che a sua volta trasferisce la documentazione prodotta al Tribunale di Sorveglianza, per sancire la fine della pena, oppure la revoca del beneficio.

Ma è proprio in questa fase, a mio modesto parere, che manca un fascicolo importante al completamento della documentazione prodotta dall’ UEPE, un documento non previsto dall’ordinamento giuridico ma a mio avviso fondamentale ai fini della buona riuscita di tutto il percorso detentivo della persona appena liberata, ovverosia manca la relazione del sociologo per il reinserimento sociale.

Dott. Italo Caruso – Direttore ASI-Lab Sociologia “FOCUS CARCERE”


CORONAVIRUS, LA SALUTE PRIMA DI TUTTO

Inequivocabili i risultati del questionario ASI sulla dicotomia tra salute e ripresa economica: i cittadini preferirebbero inoltre misure uniformi che non acuiscano confusione e incertezza.

Non emergono dubbi sui risultati del secondo questionario proposto dall’ASI, Associazione Sociologi Italiani, Deputazione Calabria, in merito alla “reale o falsa dicotomia tra tutela della salute e ripresa economica”. Un’indagine implementata per cercare di valutare l’impatto sociale effettivo di alcune difformità normative, tra Governo centrale e Governi regionali, registrate durante l’emergenza coronavirus e precisamente a cavallo dell’inizio della seconda fase di lockdown.

Nel questionario si è dovuto fare riferimento specifico in particolare a due ordinanze, quella della Regione Calabria (n.37 del 29 aprile 2020), che dispone, tra l’altro, la ripresa delle attività di ristorazione e dei mercati all’aperto di generi alimentari, fiori e piante, e quella della Regione Sardegna (n.21 del 3 maggio 2020) che consente le messe e anticipa la riapertura dei servizi alla persona. Due ordinanze che, volenti o nolenti, sono oggettivamente difformi dalle misure adottate dal Governo nazionale attraverso il DPCM del 26 aprile, tanto da provocare la diffida della ordinanza della Calabria da parte del Ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia e, successivamente, con sentenza del 9 maggio, l’annullamento da parte del TAR della Calabria, ma anche reazioni contrarie da parte di tanti sindaci calabresi cha hanno deciso di non applicarla.

Questi i fatti oggettivi, interpretabili anche sotto l’occhio della polemica politica, ma che non possono essere oggetto di un’indagine sociologica, a fini esclusivamente scientifici. L’ASI, Deputazione Calabria prende quindi le distanze da ogni qualsivoglia interpretazione dei dati che non sia esplicitamente collegabile allo studio scientifico dell’impatto sociale che queste difformità normative hanno generato sulla popolazione.

Il questionario telematico, strutturato con modalità di risposta chiusa e pre-codificata, è stato sottoposto alla popolazione tramite Facebook, mediante modulo Google Drive, e al quale hanno risposto, spontaneamente, esattamente 621 cittadini maggiorenni, da tutte le regioni d’Italia. Un campione soddisfacente, con un intervallo di confidenza del 95% e una variazione in più o in meno (errore massimo tollerabile) del 4,0% rispetto al valore stimato, che ne garantisce la rappresentatività.

Nello specifico il 73% delle risposte sono arrivate dalla Calabria, regione da cui è partita l’indagine, e questo ci fa capire che il questionario è stato interpretato come una “questione” calabrese e non nazionale, benché venisse specificato più volte che ad essere presa in esame fosse la difformità tra una qualsiasi ordinanza regionale (ad esempio anche quella della Regione Sardegna palesatasi quattro giorni dopo o della provincia autonoma di Bolzano del 7 di maggio) ed il DPCM del Governo centrale.

Le altre risposte altre sono giunte in maniera relativamente più consistente dal Lazio (8%), Lombardia (4%), Campania (4%), Sardegna, altra Regione che ha presentato un’ordinanza difforme dal DPCM 26 aprile (4%), Piemonte (2%), Marche (1,5%) e via via tutte le altre con percentuali pari od inferiori all1% e 185 comuni coinvolti.

Percentuali per regione

Preponderante, anche questa volta, la partecipazione delle donne (66%), anche se gli uomini hanno partecipato di più rispetto alla precedente indagine (34% + 6%); così come l’interesse si è registrato tra i cittadini con grado di istruzione più elevato (61% con laurea e 35% con diploma); maggiore anche la partecipazione di impiegati e liberi professionisti, ma risposte sono arrivate anche da commercianti e casalinghe, il che rende il campione più rappresentativo.

Le risposte, come anticipato, sono inequivocabili, assolutamente uniformi nel giudizio (si registra la medesima opinione almeno nel 70% dei casi, con picchi dell’87%) e coerenti tra loro nell’85% dei casi. I rispondenti si dichiarano palesemente contrari alla metodica posta in essere dai Governi regionali, ritenuta assolutamente strumentale allo scontro politico (87%) ed in ogni caso non funzionale alla salvaguardia della salute dei cittadini. Giudizio evidentemente condizionato dal forte stato d’ansia ed insicurezza che ancora l’emergenza coronavirus infonde, anzi, che con il passare dei giorni aumenta, confermato dall’altissima percentuale di cittadini che ritengono ancora insicure le attività di ristorazione, gli stabilimenti balneari e addirittura le scuole, che verranno riaperte solo a settembre. Così come parrebbe diminuire sempre più la capacità di mediare e mantenere a lungo la medesima disciplina a fronte delle restrizioni “imposte”, confermando una scarsa resilienza al fenomeno, come d’altronde emerso nella precedente indagine (82%). In sostanza i cittadini non tollererebbero ulteriori restrizioni soprattutto se causate da quelli che, nell’immaginario collettivo, vengono ritenuti veri e propri errori della gestione dell’emergenza. Nella fattispecie emerge con chiarezza che:

PRIMA LA SALUTE, l’85% dei rispondenti intravede nel DPCM del 26 aprile un più funzionale ricorso alla tutela della salute, non ritenendo lesi i principi della libertà individuale, ed allo stesso modo il 75% ritiene che ordinanze regionali che favoriscano una riapertura anticipata possano pregiudicare la salute dei cittadini più che favorire la ripresa economica. Per tale ultimo motivo ritengono anche tali ordinanze imprudenti nel 53%. Il dato assume ancor più valore se si tiene in considerazione che dall’incrocio dei dati emerge che ben il 68% dei commercianti è d’accordo con il primo assunto e il 52% con il secondo. Da sottolineare come il dato rimanga costante nel tempo, visto che il questionario è stato aperto il 30 aprile ed ancora oggi arrivino risposte omogenee con il trend iniziale. In sostanza i calabresi, sardi, laziali, campani, lombardi, etc, sembrerebbero auspicare una cauta ripresa, ma soprattutto invocare provvedimenti uniformi per evitare disorientamento, confusione ed incertezza. Nel caos istituzionale e mediatico non si sa chi ascoltare e come comportarsi, le persone non sviluppano comportamenti omogenei con l’effetto di rendere assai più complessa la gestione dell’emergenza.

INSICUREZZA LATENTE, nonostante tutte le misure di tutela intraprese (distanziamento sociale, uso di dispositivi di protezione individuale, etc..) i rispondenti si sentono ancora in pericolo e nel 71% dei casi non ritengono sicuro frequentare attività di ristorazione, nel 56% gli stabilimenti balneari e nel 69% le scuole. Le percentuali diminuiscono quando a rispondere sono i commercianti, rispettivamente (47%), (42%) e (31%) anche se con cospicue percentuali di rispondenti che non sa rispondere.

DISORIENTAMENTO, ben il 78% degli interpellati si ritiene disorientato dalla difformità delle misure, non sa chi ascoltare, è incapace di comprendere cosa gli sta accadendo intorno e di conseguenza giudica tali ordinanze inopportune nel 38% dei casi, in riferimento alla metodica utilizzata e probabilmente anche ai tempi di emanazione, il che unito ad un 53% che le giudica anche imprudenti, ci fornisce il quadro di un giudizio fortemente negativo (91%). 

SCONTRO POLITICO, secondo l’87% dei rispondenti, infine, i provvedimenti sarebbero permeati da ideologismo. Al di là delle finalità dei provvedimenti viene attribuito ad essi un valore strumentale, in quanto emessi per un secondo fine ed interesse non dichiarato che è quello politico. Tale assunto viene confermato anche dal fatto che le stesse ordinanze vengono ritenute destabilizzanti, nell’accezione di turbativa al sistema socio-politico del Paese.  

da sx: Francesco Boccia ( Ministro Affari regionali) e i presidenti di Calabria e Sardegna, Jole Santelli e Christian Solinas

APPROFONDIMENTI: Questi i temi di portata generale mentre per chi volesse approfondire la tematica oggetto dello studio dei sociologi, coordinati dal dott. Davide Franceschiello: Giuseppe Bianco, Catia Cosenza, Francesca Santostefano, Davide Costa, il gruppo della Deputazione Calabria dell’ASI e il supporto del presidente nazionale Antonio Latella,sarà disponibile nei prossimi giorni, sul sito dell’ASI https://www.asi-sociology.com/, la vera e propria analisi sociologica con la totalità dei dati espressi dall’indagine.


Inno alla Sociologia

di Giuseppe Bianco

L’arte di guardare alla realtà, in modo profondo e sistemico

E’ di qualche giorno addietro, la notizia (ancora non chiara e di conseguenza meritevole di dibattito ed approfondimento) che per l’ennesima volta, in modalità tipicamente “italiota” perentoriamente, attraverso un escamotage, si voglia, ridimensionare il ruolo importante della sociologia, in questo Paese. Rilasciare attraverso una modalità faziosa, l’accreditamento dell’identità sociologica a chi, con lauree non legate all’approccio specifico o ai diplomati con presunta esperienza, a seguito di una profusione di denaro e di un’apparente esame sostenuto per mostrare eventuale competenza nell’ambito specifico.

Così sembra. Di sicuro mi sbaglierò e voglio credere di sbagliarmi.

E’ di qualche giorno addietro, l’ennesima notizia protesa a umiliare, ridicolizzare, un titolo accademico, conseguito, sudato, maturato con tanti sacrifici nell’ambito delle lauree ad indirizzo sociologico

Un riconoscimento, sempre e comunque univoco. Tra il silenzio di parlamentari, racchiusi quasi completamente in due o tre caste professionali. Un riconoscimento apparentemente genuino, leggero, quasi conseguente, rilasciato per rinforzare ulteriormente i privilegi, già abbondantemente profusi delle poche dimensioni professionali che in Italia hanno diritto d’essere e di esistere.

Peccato però, che questo tipo di manovre non valgano al contrario. Peccato che nel nostro Paese, l’apertura ad una relazione di aiuto, sia lasciata oltre a chi di dovere, anche a chi, ha sorbito anni di preparazione accademica di tipo esclusivamente organicista. Peccato che, in anni di percorso, la loro preparazione non abbia mai acquisito competenze di lettura sistemica dei processi sociali e di conseguenza relazionali.

Peccato anche che nell’analisi dei bisogni territoriali e sociali, mai o quasi, venga presa in considerazione la scienza in grado di leggere ciò che “si avvicina ad essere reale” e di conseguenza “cassonetti” intere di fondi, vengano indirizzati a casaccio, senza tenere conto davvero, delle esigenze reali della base.

Peccato che migliaia di giovani studenti, molto spesso ignari (sociologia, scienze politiche e sociali, discipline economiche e sociali etc.), appassionati ed infuocati dai loro complessi studi, alle volte, a causa di un mondo accademico sordo al futuro ( non orientato a far valere i diritti di quei giovani studenti) e concentrato molto spesso anche in buona fede, soltanto sull’avvio dei corsi di laurea e non sul futuro di quelle giovani vite, solo in Italia, vengano costantemente sminuiti da altre professioni                  (rinvigorite da caste professionali, oziosamente tese a deformare la realtà ed a stare sedute, in ambiti e contesti, oggettivamente non appartenenti alla propria storia accademica).

Peccato. Peccato, si!! Peccato che molte delle menti che mondialmente hanno stimolato i cambiamenti sociali della modernità, dei processi culturali e comunicativi, dei servizi sociali e della profusione dei diritti sociali e delle libertà, appartengano proprio a chi, fece percorsi accademici, nell’ambito sociologico.

E’ un grande e madornale peccato, essere drogati ed orientati da un ottundimento di coscienza anche ora, che a causa della storica “pandemia”, nel giro di pochi mesi, si siano visti resettare anni ed anni di delirio onnipotente, intriso di società liquida e relativa.

Decenni impregnati da una scarsa ed approfondita lettura di chi si trovava e continua a trovarsi nella “stanza del comando” ed orientata soltanto (serve anche quella, ma non basta….) ad una fredda e mercificata scrittura del futuro, sulla base di modelli economici, freddi e legati all’efficienza ed all’efficacia, al PIL, inteso come “prodotto di infelicità lorda”.

Peccato che per decenni, non si sia compreso, nel mondo burroso e grasso dell’Occidente, che alla base e non solo nell’ambito della teoria, servissero figure accademicamente preparate per monitorare i cambiamenti, i disagi e le sofferenze, nei territori e nei contesti più piccoli. Che servissero figure, in grado realmente, di fare da cassa di risonanza scientifica sui gridi degli “ultimi e dei diseredati”.

Peccato che il vento dello sviluppo, sia arenato da decenni nel nostro mondo e che si sia confuso l’ultimo modello di I-Pad con l’evoluzione sociale ed umana e peccato che in molti casi, si sia ottusamente guardato solo al malessere del singolo (serve anche quello e personalmente, ritengo fondamentale l’approfondimento della propria storia e delle proprie dinamiche!) che impregnato da paradigmi sociali e culturali consumistici e regressivi, piano piano, lentamente, si orientava ad entrare e permanere in un malessere sordo e muto ( sociale) che poco o nulla c’entrava con la sua storia ed il suo funzionamento psichico e molto invece dipendeva, da chi, freddamente ed a tavolino, non essendo in grado di leggere i reali bisogni umani, lo costringeva ad essere macchina di consumo e di produzione.

Peccato “abominevole”, commesso dalle istituzioni, in tutti questi anni, a non aver saputo valorizzare una sociologia di strada, “prossima”, che facesse da sentinella e da suggeritrice saggia, sulle possibilità e sulle innovazioni non soltanto tecnocratiche, ma orientate ad un futuro più evoluto e giusto per la popolazione.

E peccato, peccato, perché molta dell’esperienza, delle capacità di visionare in modo più profondo la realtà, sia stata molto spesso, quasi esclusivamente assoldata ed assoggettata al sistema consumistico ed al marketing (del tutto legittimo, ma la funzione della sociologia non può essere ricondotta soltanto a questo).

Il mondo attuale ha bisogno di essere letto, analizzato e spinto verso modalità più giuste ed umane. Ha bisogno di vera sociologia (e di studi universitari nell’ambito sociologico, in grado di formare davvero la mente ad una visione sistemica) di prossimità.

Se non adesso, quando? Abbiamo visto le macerie, i limiti e l’enorme aumento di malessere del singolo (dopo la pandemia, è previsto che circa il 40 % dei cittadini, avranno bisogno di cure psichiatriche e psicologiche e molti altri, saranno orientati a rivolgersi ai “ servizi sociali”).

Nessuno o quasi, si rende conto del bisogno di riscrivere, reinterpretare il mondo che verrà. Nessuno o quasi, si rende conto della ribellione cieca della natura, dell’inconscio collettivo, dei poveri, dei diseredati e delle caste attualmente al comando che come in una sorta di trance o di annientamento dell’anima, nemmeno dopo l’emergenza “Covid”, sembra si stiano rendendo conto che non possono bastare le solite ricette, il voler permanere in schemi oramai obsoleti e stanchi, disfatti e vuoti, orientati all’economia.

Nessuno o quasi, sembra rendersi conto che la coscienza collettiva, non potrà accettare per tanto tempo, questo disagio, che l’era pandemica ha soltanto enfatizzato e che c’è bisogno di revisionare molto del passato, leggendo attentamente le macerie presenti, riscrivendo, in modo lucido e creativo il futuro.

Leggere sapientemente l’adesso, per aprire nuove narrazioni del futuro.

Spero che ci si renda conto che la politica, l’economia etc., non sono più in grado di governare la complessità del reale, senza una visione prospettica e sociologica delle “cose”, molto spesso usata, solo per giustificare e garantire, il mantenimento dello status quo.

Credo profondamente, ad un moto d’orgoglio identitario che parta dal basso e che animi, tutte le specificità personali e professionali, caratterizzate da studi prettamente sociologici.

Se non adesso, quando? E’ urgente riaprire un discorso serio, mirato alla tutela ed alla valorizzazione dei laureati nell’ambito sociologico. Il nostro Paese ed il mondo stesso, tra qualche mese, dovrà essere ricostruito “quasi” di sana pianta.

Non lasciamo spegnere, attraverso la banalizzazione, le “fiammelle sacre” che proprio perché dotate di una capacità sistemica e profonda di lettura del “reale” gioiscono ( in alcuni casi) e soffrono ( in molti altri) in modo amplificato per l’attuale realtà, basata su “slogan” dettati dall’ultima tendenza (svuotata di visione ed a breve termine) del momento, che hanno la capacità di guardare ai fenomeni sociali ed in qualche caso di suggerirne il possibile divenire, in senso evoluto e non regressivo.

Comte, Weber, Simmel, Marcuse, Bauman ed innumerevoli schiere di scienziati sociali liberi e di “prossimità” del passato, se dovesse esistere un alterità spazio temporale e trascendente, ci saranno grati, per aver reso vivo e concreto il loro lavoro e la loro dignità.

E la gente, finalmente, si vedrà guardata con rispetto, in modo totale e non soltanto relativo. C’è bisogno, c’è sete di più scienza sociologica nel mondo attuale e nel mondo che prossimamente sarà.

Concludo con l’auspicio, per la nostra generazione, di essere aiutata ad osservarsi bene fuori ed a guardarsi, in modo consapevole dentro. Uscire dal torpore della passività, facendosi aiutare da chi ha gli strumenti per leggere sistemicamente le cose.

Come direbbe il caro “nonno” Bauman: “Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine… quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato”.

Soltanto così, partendo da una visione profonda del singolo e del sociale, potremo avviare una possibilità nuova, per ricostruire un mondo futuro, dotato di senso.

dott. Giuseppe Bianco – Sociologo e Life coach


RESILIENTI O INCOSCIENTI? LA VITA DEGLI ADOLESCENTI AI TEMPI DELLA PANDEMIA

di Maria Libera Falzarano e Daniela Petrone

COVID -19 PERCEZIONE ED EMOZIONI DEGLI ADOLESCENTI

L’adolescenza è una fase evolutiva delicata caratterizzata da cambiamenti fisici e psicologici. È l’età, per antonomasia, dell’instabilità ma anche dell’esplorazione, delle esperienze e della socialità.  Le misure restrittive hanno, di fatto, repentinamente interrotto la quotidianità racchiudendola in una bolla sospesa. Il confinamento obbligato ha modificato, all’improvviso, molti aspetti della vita rendendo necessaria una riorganizzazione della routine e quindi di una nuova quotidianità in una dimensione di tempo enormemente dilatata. Per gli adolescenti, il lockdown, i cambiamenti improvvisi, la necessità di distanziamento sociale, potrebbero avere un forte impatto sul loro benessere psicologico. La nostra indagine ha voluto indagare la quotidianità degli adolescenti, come la quarantena ha cambiato il modo di gestire il tempo, il loro vissuto emotivo e la socialità.

I ragazzi hanno dimostrato di essere resilienti e di avere un grande senso di responsabilità.

Una rilevante evidenza è la capacità di adattamento e di resilienza degli adolescenti che è emersa dall’indagine. Sono stati capaci di adeguarsi alla situazione con coscienza e serietà. Certo non mancano le preoccupazioni verso il futuro che vedono molto incerto, o il timore del contagio o la perdita di persone care, ma hanno dimostrato di essere capaci di reinventare una quotidianità, di far emergere risorse inattese che hanno consentito loro di affrontare, in maniera positiva, il periodo di quarantena. Sono stati capaci di fronteggiare una situazione totalmente inedita.

COME SONO CAMBIATE LE ABITUDINI?

Abbiamo dovuto reiventarci la giornata in un tempo dilatato e meno strutturato. I ragazzi riscoprono i valori tradizionali, lo stare insieme, il dialogo con i genitori, recuperano spazi affettivi e un’ intimità familiare dimenticata. Significativi sono i dati emersi, che dimostrano  un rafforzamento dei legami familiari e  una maggiore condivisione del tempo.

Si  recuperano modi semplici di stare insieme , dal guardare un film  ai giochi di società , ma è anche l’occasione per  dedicare maggiore tempo ad attività creative  come dipingere o scrivere racconti , oppure imparare a cucinare o fare giardinaggio .Ma è emerso con preponderanza  una  maggiore coesione, “comunicatività”  e il piacere di stare insieme  a dimostrazione dell’importanza della  dimensione fondante della famiglia.

FEDE E RELIGIONE: UN MUTAMENTO DI SCENARIO?

Un dato significativo, anche se con un valore percentuale basso, ma che invita ad una riflessione è sicuramente la partecipazione agli eventi religiosi.  Il rapporto dei giovani con la religione è un universo ancora inesplorato. Ma al tempo della pandemia, caratterizzato da paura e incertezze, forse il sentimento religioso, il bisogno di preghiera, una ricerca di spiritualità deriva dal bisogno di avere punti di riferimento solidi. Forse anche la straordinaria semplicità e umiltà del Papa, la sua prossimità alle sofferenze, significativa in questo momento difficile, ha inciso nella ricerca di una spiritualità anche tra i giovanissimi.

E LA SOCIALITÀ?

Il bisogno di vicinanza, una pausa all’isolamento, il bisogno di aggregazione hanno costruito una nuova socialità con la partecipazione ai flashmob o ad aperitivi via skype o gruppi virtuali. Anche tra gli adolescenti il dato è significativo con il 71,09% e dimostra quanto sia importante la condivisione per sentirsi meno soli e come la rete sia uno strumento per manenere le relazioni.

FAKE NEWS: NO GRAZIE

L’indagine ha esplorato anche l’interesse dei giovani adolescenti all’informazione. Il riscontro dei dati è incoraggiante perché evidenzia un bisogno informativo dei ragazzi e, seppur il web continua ad essere una risorsa significativa anche per il reperimento delle informazioni, tenendo anche conto di quanto emerso dall’indagine stessa ovvero di una maggiore fruizione delle notizie attraverso web e una minore fruizione dello schermo televisivo, emerge un interesse rilevante all’informazione attraverso la fruizione dei telegiornali. Prevale la necessità di una corretta informazione e i canali ufficiali e i telegiornali sono quelli ritenuti più affidabili. Vi è una ricerca ragionata dell’informazione corretta.

UN RISULTATO INATTESO

L’essere catapultati in una situazione inconsueta  ha avuto il pregio di far riscoprire la forza dei legami familiari, ri-costruire il rapporto genitori/figli e il piacere di condividere il tempo. La famiglia e le relazioni diventano di nuovo la priorità dei giovani.

Il report definitivo ricerca adolescenti può essere visionato scaricandolo dal download che troverete sotto il titolo.

Maria Libera Falzarano e Daniela Petrone: Presidente e Dirigente della Deputazione Campania dell’ASI – Associazione Sociologi Italiani.


IL NUOVO CULT PER LA STAGIONE 2020: OCCHIALI DA SOLE E PANAMA? NO, MASCHERINE E GUANTI!

di Francesca Santostefano

Alle soglie della prossima stagione estiva, il clima caldo e sereno sembra anticipare un’estate all’insegna della monotonia e della noia, a dispetto delle normali estati vissute in tempi non molto remoti. Ebbene, le giornate primaverili è come se non fossero mai esistite o perlomeno non le abbiamo vissute a pieno come avremmo dovuto, ed ecco che di colpo sopraggiunge il clima sereno e afoso, che senza dubbio ci coglie all’improvviso.

Dopo due mesi di lock -down vissuti relegati nelle nostre abitazioni, cercando di convivere o perlomeno accettare tale imposizione non cercata o voluta, scorgiamo dalle finestre un bel sole quotidiano che illumina ed accende gli animi (la quiete dopo la tempesta?). Tuttavia, è da poco cominciata la cosiddetta Fase 2, le dovute precauzioni ed il giusto distanziamento sociale sono all’ordine del giorno. Il podio dell’accessorio più utilizzato in questo funesto e variegato anno 2020 se lo aggiudicano senza ombra di alcun dubbio la mascherina ed i guanti, i quali sono vitali ed indispensabili, al pari di un semplice e scontato telefonino o di un paio di occhiali da vista o sole. Il Made in Italy è oramai da decenni che non produce ed incrementa poiché si è assoggettato anch’esso alla crisi economica divampata ancor prima dell’emergenza Covid 19;  cosicché gli illustri pilastri della grande moda (vedi Armani) producono e rivendono a prezzi modici mascherine, opere benevole senza dubbio, con l’auspicio che sulle passerelle di moda di Milano e di tutto il mondo, tornerà a brillare il dulcisis in fundo marchio del Made in italy.

Certo, sarà abbastanza scomodo usufruire di tali strumenti col sopraggiungere del caldo afoso, difficile soprattutto per i più giovani e gli anziani che già di per sé ogni estate soffrono il caldo più di altre categorie.

Prima dell’ultimo DPCM ove sancisce il prezzo delle mascherine nelle farmacie e nelle parafarmacie di 0,50 centesimi Iva inclusa, il boom di vendite online è stato esorbitante, acquistate sui siti colossali di vendita telematica quali Amazon, Ebay e altri siti concentrati maggiormente sulla vendita di abbigliamento,pacchi da 5, 10 mascherine a soli 10 euro. Inoltre,  molte sono le famiglie che si sono attrezzate per produrre mascherine fai da te attuando spesso promozioni benefiche per la ricerca ed il sostegno di alcune associazioni le quali da tempo lottano per trovare una cure alle malattie genetiche rare.

La stagione balneare introduce una nuova moda: mascherine in pandan col costume da bagno, che siano esse di diverse e disparate stampe, pois,fiori, personalizzate a piacer proprio, l’importante è che siano coordinati con la stampa simile al costume da bagno e perché no abbinare anche occhiali da sole, fondamentale è che siano soprattutto idonei per proteggersi da eventuali contagi.

Per quanto concerne l’idea di andare al mare quest’estate, molti sono i lidi i quali si sono adoperati per garantire un equo distanziamento sociale e le dovute precauzioni, certamente non sarà entusiasmante l’idea di trascorrere la stagione estiva, da sempre sinonimo di divertimento, uscite, mare, sole, vacanze, ferie, distanziati e priva della vita mondana.

I cambiamenti non sono sempre in primis accettati poiché ci sembrano negativi, col senno di poi ci accorgeremo che non tutto il male viene per nuocere.

Il mutamento sociale tanto conclamato dagli scienziati sociali caratterizza il passaggio da una società meno evoluta a una più razionale e più progredita; lo sviluppo è inteso come un percorso lineare che attraverso le varie tappe che si realizzano in lunghi intervalli di tempo, porta la società ad avanzare e a divenire sempre più una struttura organizzata razionalmente. I principali autori di questo paradigma furono auguste Comte ed Herbert Spencer. Comte sostiene che sia la società che gli essere viventi sono costituiti da varie pari tutte collaborano al funzionamento complessivo della struttura della quale sono partecipi e ognuna risponde a bisogni diversi. Spencer paragona l’evoluzione biologica caratterizzata da competizione, adattamento ai mutamenti della società. (Sitografia studenti.it)

“Cercatela ora la felicità. Ce l’hanno data a tutti noi, ma era un regalo così bello da averlo nascosto. E molti non si ricordano dove l’hanno messo. Mettete tutto all’aria. C’è la felicità, è lì. E anche se lei si dimentica di noi, noi dobbiamo ricordarci di lei”. (Roberto Benigni)

Francesca Santostefano -Sociologa


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