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Cosa ricorderemo del Coronavirus?

di Maria Gaia Pensieri

dott.ssa Maria Gaia Pensieri

Passato il momento dell’ansia verso l’incognito e l’insondabile, una volta elaborato il lutto, tutto cercherà di tornare faticosamente come prima.

L’uomo per la sua salute mentale ha necessità di ritrovare una dimensione conosciuta, antecedente al virus, il noto che si contrappone all’ignoto per sopravvivere alla paura.

Permarrà per un certo periodo di tempo l’apprensione per la mondanità, l’attenzione per le pratiche di disinfezione degli ambienti pubblici, la troppa vicinanza all’altro procurerà una certa ansia e la vita sociale ne risentirà. Non quella dei giovani che alla loro età, si sentono invincibili e immortali, già ora avvertono l’esigenza di esorcizzare con i pari la paura della malattia e sfuggire a questa nuova dimensione che è stata loro imposta.

Le immagini che rimarranno stampate nelle nostre menti, saranno quelle delle mascherine e dei guanti, i nuovi indumenti quotidiani e che saremo ancora per un certo tempo costretti ad indossare; gli unici oggetti che ci permettono di controllare l’invisibile.

Ci ricorderemo dei canti sui balconi, momenti di condivisione per allontanare i timori e allentare il peso della tensione individuale.

Rammenteremo le bandiere fiere sventolare dai palazzi a simboleggiare che siamo italiani riusciti a resistere al virus e agli attacchi dei fratelli d’Europa. Oggi le Frecce Tricolori portano in alto questa bandiera e le scie che solcano i cieli ridonano una nuova libertà.

Ci resteranno le immagini dei carri dell’esercito che hanno portato via di notte i nostri morti, quasi a non voler turbare tutta la comunità e quelle delle fosse comuni nel resto nel mondo che hanno ricordato i monatti manzoniani e riportato le nostre menti alle scene di quella guerra che i nostri anziani, quelli che oggi non ci sono più, hanno realmente vissuto.

La storia passata ci ha insegnato che il confinamento è la morte del virus, ma per l’uomo è necessario razionalizzare e trovare il perché di tutto questo. Nel ‘600 la ricerca di una causa era talmente forte da portare ad inventare la figura degli untori che vagavano con lo scopo d’infettare.

Oggi che la peste sia l’esito di un salto di specie o un errore di laboratorio poco conta, è importante invece comprendere che la vita è un soffio e il vento cambia rapidamente.Sarebbe utile trarre un insegnamento e modificare il nostro modo di abitare il mondo rispettando la natura.

Guarda caso sembra che sia proprio il particolato a trasportare velocemente il virus; come l’uomo è stato costretto a fermarsi, la natura si è ripresa i suoi spazi.

Il mondo non è solamente nostro e qualcosa ci ha potentemente costretto a ricordarlo.


BORNOUT PROVOCATO DALLO SMART – WORKING

L’improvvisa implosione del Coronavirus ha imposto il totale capovolgimento  di attività e rituali quotidiani ritenuti dall’opinione pubblica “scontati” e “abitudinari” eliminando progressivamente la vita a cui eravamo abituati prima facendo spazio a qualcosa di nuovo.

<<< Francesca Santostefano

Gli italiani in questi due mesi di lock – down, reclusi nelle proprie abitazioni,  hanno dovuto cimentarsi con le nuove tecnologie, piattaforme, sistemi dapprima poco conosciuti e soprattutto poco utilizzati in quanto ritenuti strumenti aggiuntivi ma che  in questo periodo si sono rivelati  essenziali quasi in tutte le attività. Tra lezioni svolte in modalità e-learning, videoconference in diretta streaming e lavoro svolto in modalità smart working, gli italiani hanno saputo ed imparato ad unire l’utile al dilettevole (un continuum di learning by doing). Tuttavia, non tutti hanno ritenuto favorevole e semplificato il cosiddetto “lavoro agile”, in effetti  i pareri al riguardo sono stati discordanti.  Alcuni dati emersi da recenti inchieste sull’approccio allo smart working sono inequivocabili: quasi l’80% degli italiani ha riscontrato difficoltà nell’approcciarsi a questa tecnica  poiché da un lato ha dovuto suddividere i lavori quotidiani tra lavoro e cura della casa, dall’altra non ha raggiunto obiettivi che sicuramente avrebbe raggiunto nelle sedi fisiche del proprio lavori quali aziende, attività commerciali ecc. Tutto questo è stato estenuante e spesso critico, imponendo orari inflessibili ed inadeguati allo standard a cui i lavoratori erano dapprima abituati, provocando stati di demotivazione, stress e desolazione. Molti inoltre sono stati i cittadini italiani i quali essendo privi di personal computer nelle proprie abitazioni, non potendo svolgere il lavoro solo tramite uno smartphone, si sono trovati costretti a rinunciarvi e nelle peggiori delle ipotesi sono andati incontro a conseguenze spiacevoli.

Lo smart working ha precluso altresì quelle che sono le normali relazioni ed interazioni comunicative fra colleghi di lavoro, minimizzando il tutto nel mero sistema delle tecnologie.

Da un punto di vista prettamente psicologico il termine Bornout (termine di origine anglosassone) indica lo stress provato al lavoro il quale determina un lento deterioramento psicologico e psicofisico (d’altronde mens sana in corpore sano). Infatti si tende a parlare più propriamente di sindrome di Bornout che inizialmente venne associata alle professioni prettamente sanitarie e assistenziali ma oggigiorno investe qualsiasi contesto lavorativo (problema di lavoro sociale) (sitografia stateofmind.it).

Le conseguenze provocate da tale sindrome sono stati di ansia generalizzata, umore emotivamente instabile, apatia, stanchezza, nervosismo,può inoltre compromettere l’insorgenza di ulcera, cefalea, disturbi del sonno. Da un punto di vista del genere le donne si trovano ad essere nuovamente soggetti subordinate da questa realtà, da un lato devono provvedere alla cura dei figli, dall’altra a cercare di lavorare nel miglior modo possibile in smart working, il che è molto sfiancante, incrementando ulteriormente disturbi ansiogeni in loro.  Nel nostro Paese il legislatore introdusse la legge sullo smart working (lavoro agile)  nella notte fra il 13 ed il 14 marzo 2020 attraverso la sottoscrizione da parte del governo e delle parti sociali un protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro. Questo protocollo inoltre nel diritto del lavoro segna la ripresa della concertazione sociale ossia un’attività che vede come co-protagonisti non solo le parti sociali ossia le organizzazioni sindacali da una parte e le organizzazioni datoriali dall’altra, ma il governo ossia l’istituzione pubblica come parte dell’accordo

Da un aspetto prettamente culturale, il nostro bel Paese non è di certo abituato ad affrontare il lavoro in modalità tecnologica, diversamente accade all’Estero, in America in particolare lavorare in smart working è una realtà molto comune, molte sono le imprese le quali hanno adottato questa modalità incrementando notevolmente maggiore profitto, ugual cosa per l’impianto di conoscenze scolastiche che viene erogato attraverso le tecnologie, la cosiddetta didattica a distanza adottata inoltre da poco tempo a questa parte, da molte università anche in Italia (vedi cdl online).

La sfida più grande che l’uomo sta affrontando da qualche decennio a questa parte è quella di se stesso umano forza lavoro fisica contro o con  le macchine paradossalmente edificate da lui stesso con lo scopo di favorire e semplificare le nostre vite, come la cosiddetta automazione industriale la quale sfrutta sia le tecnologie meccaniche che informatiche per il controllo dei processi produttivi ed industriali favorendo flussi di energie, di materiali e di informazione. Il padre del Capitalismo Karl Marx non si sarebbe mai immaginato quanto il progresso umano ha incrementato e semplificato la vita dei cittadini all’interno dei villaggi globali, eliminando barriere fisiche e riavvicinando i confini lontani, racchiudendo il tutto in un semplice click!

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, Counselor ASI – Specializzanda in SAOC


Fakecracy e over-verità: facce della stessa medaglia

La nostra era sembra essere il prodotto della post-verità, ossia una verità che rifiuta la certezza dei dati di fatto per veicolare l’emozionalità populista e retorica che sostituisce l’informazione. A mio modesto avviso questo ci ha condotto in una nuova stagione, sociale e comunicativa, che, come detto è quella dell’over-verità o verità funzionale, quella che offusca la verità stessa, la ingloba e la plasma secondo le circostanze, i relativi scopi e le contingenze politiche, economiche e sociali.

<<< Prof. Marino D’Amore

L’over-verità è un concetto fluido, figlio della modernità baumiana, una condizione che oltrepassa la realtà, ne mitiga l’importanza, relegandola nella condizione di evenienza collaterale. Un modus pensandi che indirizza l’azione comunicativa e non teme la contraddizione, anzi la neutralizza negandola o semplicemente dimenticandola come se non fosse mai esistita. Questa è l’over-verità, la verità funzionale adatta a qualsiasi situazione in cui il dato di fatto diventa accessorio, elemento non necessario, danno collaterale a volte da lasciar cadere nell’oblio.

Essa tuttavia non uccide il pluralismo informativo anzi lo amplifica, perché ogni attore comunicativo può costruirsi la sua versione dei fatti che smentisce quella dell’antagonista nel contradditorio e affermare ciò che, in quel momento, è più utile alla sua causa. Tutto ciò rappresenta una sorta di gara di credibilità che cerca di fidelizzare più seguaci possibile, i quali, tendenzialmente, nell’ambito del proprio confermation bias, saranno propensi a credere a ciò di cui sono già convinti, con buona pace del concetto di verità e trionfo dello stereotipo e del pregiudizio.

Un tale clima diventa il terreno ideale per le fake news e le fake leadership, ossia le classi dirigenti che veicolano quel tipo di messaggio, che aggregano e fidelizzano il consenso attraverso l’uso strumentale di una comunicazione faziosa, vettore di contenuti funzionali che, pur mostrando il sembiante della veridicità, non corrispondono alla verità. Quest’ultima in questo modo smarrisce il carattere di oggettività che dovrebbe connotarla per diventare un’opinione, anzi più opinioni intese come proiezioni e riflessioni edulcorate riguardo a un determinato evento.

Diventa in questo modo opinabile anche il concetto di cultura che dovrebbe contestualizzare quello sopracitato e che diventa un’entità effimera, liquida, proiettata verso una rapida scadenza che ne inficia l’efficacia.

Il termine cultura deriva dal latino colere che significa coltivare. Quindi colto è colui che è stato coltivato e nutrito nell’animo e così istruito. Tra società e cultura esistono forti interrelazioni biunivoche e l’esistenza dell’una è strettamente correlata all’esistenza dell’altra. La cultura è caratterizzata dagli specifici sistemi di significati che usiamo per orientarci nel mondo sociale. Quando la cultura si basa sull’over verità ecco che a governare subentra la fakecracy: un sistema basato sulla pseudo-conoscenza dei fatti che amplifica il conflitto superficiale e fine a sé stesso, ogni dicotomia manichea e costruisce il suo nemico del momento.

La Fakecrazia è la massima espressione di questa cultura e di ogni sua distorsione: un sistema che ostenta legittimità e si palesa come detentore di ogni soluzione a cui adatta in ogni momento un’over-verità grazie all’intrinseca fluidità che le accomuna.  

Un modello di governo che si modifica in ogni situazione e elargisce al suo popolo ciò che chiede intercettandone le volontà inespresse, pronto a reinventarsi continuamente al pari dei contenuti che veicola.

Nell’epoca dell’over-verità e della fakecracy ciò che davvero conta è che tutto sia credibile ma non necessariamente vero.


Giovani e social network, un’educazione complessa

Dott.ssa Denisa Alexandra Cojocariu

<< Con l’affermarsi dei nuovi media nella vita quotidiana degli individui e il progressivo affievolirsi del confine che separa la vita online da quella offline, l’antropologia culturale ha dovuto confrontarsi non solo con nuove rappresentazioni, pratiche, ideologie comunicative, ma anche con il problema relativo al modo di osservarle, delimitarle, studiarle e descriverle>>.

Viviamo in una generazione in cui giovani sono completamente assorbiti dalle tecnologie digitali. Tutto ciò, riguarda anche i più coli, che necessitano del supporto degli adulti affinché strumenti e tecnologie vengono utilizzati nella maniera corretta. Si tratta di una trasformazione particolarmente complessa, in quanto fa riferimento a fenomeni di connessione e interazione tra le persone, ed occupa una rilevante posizione di informazione e comunicazione. Queste stesse tecnologie hanno diverse ricadute sul sistema dei valori condivisi ed in particolare sulle norme sociali.

L’educazione civica tradizionale viene rimpiazzata con l’insegnamento dell’educazione civica digitale, attraverso due principi fondamentali: spirito critico e responsabilità. Il primo deve governare il cambiamento tecnologico, e fa riferimento all’approccio che i giovani, gli educatori ed in particolare i genitori, affrontano attraverso l’utilizzo del sistema digitale,consapevoli che possano esserci delle implicazioni, culturali, sociali ed etiche.

La responsabilità occupa una posizione di rilievo, tende a produrre e pubblicare messaggi che a loro volta posso avere effetti controllati e devastanti.

‹‹I giovani non sono i soli destinatari dei messaggi su Internet, lo sono anche le famiglie, gli educatori, le scuole e le istituzioni che hanno un ruolo nella formazione dei ragazzi. L’educazione tecnologia in questo caso ha l’obietto di costruire le condizioni che permettano al pubblico di leggere i messaggi in modo critico.››

L’educazione attraverso il web presenta anche diversi aspetti negativi legati a fake news e cyberbullismo, poiché i ragazzi ancora oggi non percepiscono il web come una realtà totalizzante, bensì come un luogo privo di regole in cui qualsiasi cosa è concessa e permessa.

Internet viene percepito dalla società come uno strumento indispensabile, ciò rende necessario che ogni famiglia debba essere informata sull’utilizzo che può offrire, al fine di garantire ai propri figli un ‘educazione corretta dell’uso del web. Il modo migliore per proteggere i bambini è quello di fornire sia gli strumenti più idonei che i valori per vivere al meglio il futuro che si presenta dietro l’angolo. Ricercare e costruire il dialogo per spiegare loro quali sono le positività e le negatività insite in tali strumenti tenuto conto che viviamo in un’epoca molto fluida e digitale.

Tutti gli attori coinvolti in siffatto fenomeno, le scuole e le famiglie devono mantenere la soglia di attenzione molto alta poiché si parte da quello che si definisce ”l’abc” alla cui base vi è il rispetto.

I nostri giovani saranno gli adulti di domani.

Creando una collaborazione, una condivisione, fatta di formazione e esperienze nel mondo del lavoro sarà possibile vivere al meglio l’era digitale.

Dott.ssa Denisa Alexandra Cojocariu


SUICIDI DI STATO

Morti per “disperazione”: tra gli effetti catastrofici della pandemia, la paura e l’incertezza fanno una strage.

< avv.Martina Grassini

I dati dell’Osservatorio “Suicidi per motivazioni economiche” della Link Campus University  (Osservatorio permanente sul fenomeno delle morti legate alla crisi e alle difficoltà economiche) parlano chiaro: su 40 casi avvenuti in Italia dall’inizio del 2020, 25 si sono verificati durante il lockdown. Senza contare i “tentati” suicidi: 36 dall’inizio dell’anno e 21 nelle sole settimane di lockdown.La curva crescente risulta ancor più preoccupante se confrontiamo i dati del 2020 con quelli rilevati un anno fa, quando si registrava per la prima volta una battuta d’arresto dopo anni di crescita.

Il motivo economico è sempre quello principale.

Le vittime, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio, sono perlopiù imprenditori, ma anche semplici padri di famiglia in difficoltà.

Il dato comune? La preoccupazione per le sorti di un’Italia “post COVID-19”.

L’allarme arriva dall’OMS: sulla base di un’analisi, la pandemia rischia di scatenare un massiccio aumento dei casi di malattia mentale. Per combattere più efficacemente il virus, dunque, è necessario preservare non solo le difese immunitarie, ma anche quelle “psicologiche” di una popolazione in crisi. Oggi le famiglie iniziano a toccare con mano la “crisi economica”, la Caritas avverte che le richieste di aiuto sono triplicate e sono 10 milioni gli italiani a rischio povertà.

L’espressione “economia di guerra”, che è stata evocata più volte in questi mesi nei dibattiti sui provvedimenti economici, è la perfetta metafora della lotta contro l’attuale “nemico”.

Quello che accade oggi, dal punto di vista macroeconomico, è molto diverso dalle precedenti crisi, la causa infatti non riguarda più la domanda complessiva, ma l’attuale emergenza economica è contemporaneamente crisi di domanda e di offerta: “non si può comprare e non si può produrre” ed investe l’economia globale. Ciò e accompagnato da una fortissima incertezza che fa rinviare acquisti ed investimenti.  È evidente che la pandemia ha rivelato un quadro di umanità fragile, debole, facilmente preda di depressione.

Il vero rischio? Una pandemia suicidaria.

La soluzione? Una rivoluzione culturale ancora prima che economica, trasformare la tragedia in opportunità, creando nuove abitudini, ma soprattutto una nuova idea di “ricchezza”.

Avv. Martina Grassini – Assistente Prof. Avv. Michele Miccoli


STALKING E SEPARAZIONE: QUANDO CONTATTARE LA “EX” PER VEDERE I PROPRI FIGLI DIVENTA UN REATO

Mai dire mai e mai dire per sempre.

< avv. Martina Grassini

Non sempre il fatidico “sì” dura “finché morte non ci separi” ed in quel caso i dissapori tra gli “ex” possono aprire scenari di rilevanza penale. Sono innumerevoli e recentissime, infatti, le pronunce di condanna per stalking di molti genitori separati.

Ma quando la pretesa di vedere il proprio figlio può trasformarsi in reato?

Il reato di atti persecutori, meglio noto come “stalking”, punito ai sensi dell’art. 612 bis c.p.,è un reato “a forma libera”. Ciò significa che quello che rileva al fine della configurazione della fattispecie criminosa, non è solo la reiterazione di un determinato comportamento dell’asserito “stalker” (minacce o molestie), bensì le conseguenze che tale condotta comporta per la vittima, il c.d. “elemento psicologico”, ossia il timore per la propria incolumità o quella di un proprio caro, tale da comportare un mutamento delle proprie abitudini di vita.

E cosa succede se un padre contatta più volte la “ex” per poter incontrare i figli? Ripetuti squilli, messaggi, minacce e pedinamenti: quando si superano i confini del “lecito”, la condanna per stalking diventa un rischio concreto. La sentenza della Suprema Corte del 31 marzo 2020, n. 10904, infatti, ha chiarito come il diritto del padre di vedere il proprio figlio debba essere esercitato in modo lecito e non strumentalizzato per ossessionare la propria “ex”.

Il confine, però, è davvero sottile.

Non è raro che tali condotte “ossessive” siano la conseguenza della reiterata negazione dei diritti del genitore non collocatario. E allora bisognerebbe chiedersi: quante volte i padri che continuano a chiamare riescono poi a vedere i propri figli? E quante volte continuano a chiamare dopo averli visti, solo per ossessionare la “ex”?

Il punto nodale dovrebbe essere la prova della reiterazione delle condotte quando gli incontri con i figli sono regolari.

Se è vero che le visite sono solitamente stabilite da un Tribunale, ci sono però delle fasi di assenza di una regolamentazione (si pensi ai mesi intercorrenti tra il deposito della separazione e l’udienza presidenziale oppure alle c.d. “clausole libere” che lasciano la determinazione degli incontri ai genitori): è proprio in queste situazioni che la mancanza di “accordo” tra i genitori, può trasformarsi in un “mai” e le richieste dell’altro genitore possono finanche configurarsi come un “reato”. L’elemento psicologico proprio dello stalking, infatti, rende la fattispecie “indefinita”: il reato si configura in relazione alla percezione che ne ha la presunta vittima.

In parole semplici, se lo “sente” come tale, lo diventa.

La legge non descrive il comportamento del colpevole, ma la reazione della vittima, attraverso la quale si può dedurre la sussistenza della fattispecie: la vittima è testimone ed è per questo non si parte da una condizione di “parità”.  La “causalità psichica”, intesa come connessione consequenziale tra il comportamento dello stalker e la percezione psico-emotiva della vittima, è di per sé una probatio diabolica, ma ciò non ne rende particolarmente refrattaria l’applicazione come paradigma di imputazione.

Eppure una frequentazione continuativa genitore-figlio, non è solo un diritto del padre, ma soprattutto della prole (l. 54/2006).

Attenzione, però, al sottile limite della “liceità”: se un papà vuole garantire al proprio figlio il suo diritto inalienabile alla bigenitorialità, sembra ormai chiaro come l’eccesso ostentato di sollecitudine potrebbe essere un’arma a doppio taglio.

Avv. Martina Grassini – Assistente Prof. Avv. Michele Miccoli


Sociologi, la sera in cui osarono le aquile

di Antonio Latella

Raccontare una verità distorta non fa onore a nessuno: soprattutto ad ex compagni di viaggio di un’esperienza che ha lasciato in eredità tanti amici, ma anche più di un’allodola che crede di fare sociologia con le metafore.

Lo fa sapendo che più alto delle allodole volano le aquile il cui coraggio di osare le rende libere, le fa diventare coraggiose e le aiuta a programmare il futuro. Se oggi, dopo 1626 giorni dalla diaspora sociologica di Palazzo delle Misericordie di Firenze, centinaia di laureati in sociologia guardano in alto, fino al punto in cui osano le aquile, l’ancien régime dell’associazionismo sociologico italiano ha l’obbligo di rispettare la libertà di iniziativa.

 Anche se il nuovo, nonostante qualche papillon, non ha blasoni da evocare e, per questo, si affida a un duro impegno in difesa della causa di migliaia di laureati in sociologia. E il lavoro paga in termini di consensi e adesioni, mentre il resto rimane ingabbiato nella dimensione di comitato condominiale.

L’Associazione Sociologi Italiani, che fin dalla nascita, ha deciso di andare per la sua strada e nel rispetto degli altri, oggi, è al centro degli attacchi di altre associazioni alle prese con un’emorragia di iscritti.  Ma questi non sono fatti nostri: riguardano solo quanti tentano di legittimarsi inventando iniziative che non sembrano avere come fine la difesa di quanti non riescono a svolgere la professione del sociologo.

Sono mesi che noi dell’ASI, assieme a migliaia di laureati in sociologia, chiediamo allo Stato interventi di tutela professionale e occupazione. Colpa del Covid-19? In parte sì. Ma se pensiamo ai risultati ottenuti da altre iniziative di un recente passato non possiamo rimanere inermi e farci avvolgere dalla rassegnazione. Adesso basta! Lo diciamo alla politica che pensa al consenso e al mantenimento di vergognosi privilegi mentre la povertà continua ad espandersi a macchia d’olio; lo diciamo al Governo in carica, lo partecipiamo al Capo dello Stato. La nostra pazienza ha oltrepassato ogni limite e le future azioni rivendicative saranno prese dall’Assemblea di sabato 23 maggio. È giunto il momento dell’unione di tutti i laureati italiani in sociologia. Pretendiamo un’interlocuzione con gli organi dello Stato: senza baroni, senza accademici, senza vecchi tromboni, senza società di formazione e di accreditamento. Altrimenti la piazza sarà la nostra casa.

 Come si fa a non pensare ai giovani poco più che ventenni, ai colleghi di mezza età: tutti alle prese con le stesse difficoltà di accesso alla professione e al mercato del lavoro.  Cittadini con una laurea, ma senza strumenti giuridici per proseguire la lotta all’attuale sistema gestito da baronie, da comitati d’affari e da altri ostacoli che lo Stato non riesce, o non vuole, rimuovere per realizzare il principio costituzionale della parità di tutti i suoi cittadini.

E dopo la metafora delle allodole – che segue le profezie dei gufi: “Dove vogliono andare questi pazzi esaltati”, levatasi nel cielo di Firenze la sera del 5 dicembre 2015 – non ci sono più le condizioni per una battaglia comune con altre associazioni sociologiche. Intanto perché noi abbiamo ottenuto il riconoscimento di legge, mentre il bluff degli altri è stato finalmente scoperto. In un servizio di Marco Lilli, pubblicato tre giorni fa su questa rivista, viene chiarito che la competenza sulle professioni sprovviste di ordine e di albo spetta esclusivamente al Ministero dello Sviluppo Economico. Un intervento, in punta di diritto come nello stile dell’amico Marco, che indirettamente chiarisce che tale regola riguarda anche il sociologo..

L’amicizia è una cosa sacra (almeno per noi), ma non è onesto nei confronti dei nostri iscritti avviare un dialogo ufficiale con quanti usano stupide metafore pur di apparire generali, quando invece non sono neanche dei semplici caporali. Il nostro è un protagonismo vero e non protagonismo  da chat.  Passo e chiudo. E “ognun per sé e Dio per tutti”.

Antonio Latella -giornalista professionista e sociologo


L’esame di maturità nel tempo del covid

di Michele Miccoli

Dal Vangelo secondo Azzolina…Ecco come dovrebbero svolgersi gli esami di maturità ed ecco quanto prevede il protocollo.

< Prof. Avv. Michele Miccoli

di Michele Miccoli

La convocazione dei candidati deve avvenire secondo un calendario e una scansione oraria predefinita per prevenire assembramenti di persone in attesa fuori dei locali scolastici.

II calendario di convocazione dovrà essere comunicato preventivamente sul sito della scuola e con mail al candidato tramite registro elettronico con verifica telefonica dell’avvenuta ricezione.

II candidato, qualora necessario, potrà richiedere alla scuola il rilascio di un documento che attesti la convocazione e che gli dia, in caso di assembramento, precedenza di accesso ai mezzi pubblici per il giorno dell’esame.

Al fine di evitare ogni possibilità di assembramento il candidato dovrà presentarsi a scuola 15 minuti prima dell’orario di convocazione previsto e dovrà lasciare l’edificio scolastico subito dopo l’espletamento della prova.

II candidato potrà essere accompagnato da una persona.

All’ ingresso della scuola non è necessaria la rilevazione della temperatura corporea.

All’atto della presentazione a scuola il candidato e l’eventuale accompagnatore dovranno produrre un’autodichiarazione attestante: l’assenza di sintomatologia respiratoria a di febbre superiore a 37.5°C nel giorno di espletamento dell’esame e nei tre giorni precedenti; di non essere stato in quarantena a isolamento domiciliare negli ultimi 14 giorni;di non essere stato a contatto con persone positive, per quanto di loro conoscenza, negli ultimi 14 giorni.

Nel caso in cui per il candidato sussista una delle condizioni soprariportate, lo stesso non dovrà presentarsi per l’effettuazione dell’esame, producendo tempestivamente la relativa certificazione medica al fine di consentire alla commissione la programmazione di una sessione di recupero nelle forme previste dall’ordinanza ministeriale ovvero dalle norme generali vigenti.

Il candidato dovrà porsi a non meno di 2 metri (compreso lo spazio di movimento) dal componente della commissione più vicino.

Il candidato e l’eventuale accompagnatore dovranno indossare per l’intera permanenza nei locali scolastici una mascherina chirurgica o di comunità di propria dotazione; le mascherine di comunità sono “mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte, in materiali multistrato idonei a fornire un’adeguata barriera e, al contempo, che garantiscano comfort e respirabilità, forma e aderenza adeguate che permettano di coprire dal mento al di sopra del naso”.

Non sono necessari ulteriori dispositivi di protezione.

I componenti della commissione, il candidato e l’accompagnatore e qualunque altra persona che dovesse accedere al locale destinato allo svolgimento della prova d’esame dovrà procedere all’igienizzazione delle mani prima di entrare. Pertanto NON è necessario l’uso di guanti.

Quindi…niente rilevazione della temperatura, niente guanti, si all’accompagnatore (il che raddoppia il numero dei presenti quanto meno negli spazi comuni), tutto autocertificato sullo stato di salute.

Siamo passati da…tuteliamo i nostri figli…a…facciamo un pò come ci pare.

Se non erro…fino al 31 luglio e probabilmente con proroga di altri 6 mesi…siamo ancora in emergenza sanitaria.

Mancano le mascherine quelle serie ed i guanti? Fa nulla…non servono.

Manca una cura ed un vaccino? Fa nulla…passerà prima o poi.

Nuove ondate in vista, stante l’euforica indisciplina? Fa nulla, abbiamo già pronti diversi ospedali da campo per le terapie intensive.

Mancano i reagenti per i tamponi? Fa nulla…a vista sei di sana e robusta costituzione.

La mascherina non va portata a penzolone nè come collana? Fa nulla…è l’autodisciplina e la responsabilità a regolare la nuova fase.

I soldi di marzo non sono più arrivati? Fa nulla…Peppe ‘o pallunaro ne ha promessi tanti altri e faranno cumulo.

Ma i soldi realmente ci sono? Certo…quelli del Monopoli…Garantisce Peppe ‘o buciardo.

Prof. Michele Miccoli


Disposizioni in materia di professioni non organizzate

Un titolo, quello dato a questo mio modesto contributo, da un verso originale perché è tratto dalla Legge 14 gennaio 2013, n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 22 del 26 gennaio 2013; dall’altro, perché credo sia una frase ragionevolmente nota ai diretti interessati, mi riferisco a tutte quelle “Associazioni rappresentative a livello nazionale delle professioni regolamentate per le quali non esistono ordini, albi o collegi”.

E da questo punto di vista, ecco che ho appena inserito un’altra definizione tutt’altro che di mia creazione, infatti è tratta dal Decreto 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia (Gazzetta Ufficiale n. 122 del 26 maggio 2008), in materia di “Requisiti per la individuazione e l’annotazione degli enti di cui all’articolo 26 del Decreto Legislativo 9 novembre 2007, n. 206, nell’elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale delle professioni regolamentate per le quali non esistono ordini, albi o collegi, nonché dei servizi non intellettuali e delle professioni non regolamentate. Procedimento per la valutazione delle istanze e per la annotazione nell’elenco. Procedimento per la revisione e gestione dell’elenco” (cfr. Gazzetta Ufficiale).

Per inciso, il Decreto Legislativo 9 novembre  2007, n. 206 (Gazzetta Ufficiale n. 261 del 9 novembre 2007. Suppl. Ordinario n. 228), è una disposizione in “Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, nonché della direttiva 2006/100/CE che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle persone a seguito dell’adesione di Bulgaria e Romania” (cfr. Normattiva).

Ebbene, domanda: cosa hanno in comune le norme appena richiamate con altre che di qui a breve seguiranno e soprattutto con la ratio del mio contributo?

La risposta è scritta nel testo delle norme stesse, ma si palesa all’occhio umano a diverse condizioni, la prima ed essenziale, a mio avviso, è quella per cui si dovrebbe avere una sufficiente onestà intellettuale per accettare e riconoscere la condizione o le condizioni di fatto per cui le norme giuridiche mutano nel tempo, questo anche se non sempre tali mutamenti soddisfano tutti i consociati. Poi, evidentemente, bisognerebbe anche avere cura di informarsi un minimo su quelle che sono le leggi che potrebbero riguardare se stessi.

Tanto premesso, altra domanda: cosa stabiliva il citato Decreto 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia? Con questo decreto, all’articolo 1 comma 1, si è stabilito che “Gli enti di cui all’art. 26 del Decreto Legislativo 9 novembre  2007, n. 206, sono inseriti, a domanda, nell’elenco tenuto dal  Ministero della giustizia quando sono rappresentativi a livello nazionale” ed in possesso di specifici requisiti. Inoltre, tra l’altro, sempre con l’art. 1, c. 1, lettera c), par. 7, si stabiliva “l’obbligo degli appartenenti di procedere all’aggiornamento professionale costante e la predisposizione di strumenti idonei ad accertare l’effettivo assolvimento di tale obbligo”.

Sicché, a partire sia dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 9 novembre 2007, n. 206, sia, qualche mese dopo, del Decreto 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia, molte associazioni rappresentative a livello nazionale delle professioni per le quali non esistevano ordini, albi o collegi, si sono correttamente adoperate per l’iscrizione, a domanda, nell’elenco tenuto dal  Ministero della giustizia, appunto, giusto decreto qui richiamato, con seguente trasmissione annuale presso lo stesso ministero dell’elenco dei soci professionalmente e costantemente aggiornati.

Fin qui tutto corretto, ma, ulteriore domanda: cosa è cambiato, se c’è qualcosa che è cambiato, nel decorso degli anni? È cambiato che alcune norme appena richiamate non sono più contemplate dall’ordinamento giuridico del nostro Paese. Vale a dire che sono state ABROGATE, e da questo punto di vista quello che accade in alcune realtà lascia a dir poco perplessi, specie quando si nota che qualcuno sembra non essersene nemmeno reso conto. Fatti salvi eventuali altri motivi che non conosco.

Ebbene, ho appena scritto che il Decreto 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia faceva riferimento all’art. 26 del Decreto Legislativo 9 novembre  2007, n. 206, nel senso in attuazione della norma richiamata. Ma questa ultima, cioè l’art. 26 del Decreto Legislativo 9 novembre  2007, n. 206, è stata ABROGATA dall’art. 25 del Decreto Legislativo 28 gennaio 2016, n. 15 (Gazzetta Ufficiale n.32 del 9 febbraio 2016), in “Attuazione della direttiva 2013/55/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, recante modifica della direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e del regolamento (UE) n. 1024/2012, relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno” (Ibid).

Vale a dire, brevemente, che il legislatore, col Decreto Legislativo 28 gennaio 2016, n. 15, ha operato in attuazione della direttiva 2013/55/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che a sua volta andava a modificare la precedente direttiva 2005/36/CE, proprio quella che aveva dato modo al legislatore del 2007 di inserire nell’ordinamento, tra gli altri, l’articolo 26 del Decreto Legislativo 9 novembre 2007, n. 206, nonché il successivo Decreto 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia. Esattamente così, proprio l’articolo 26, cioè quello ABROGATO.

In sintesi, non credo ci sia molto da aggiungere se non che in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi, ad oggi, operi solo e unicamente la Legge 14 gennaio 2013, n. 4, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 22 del 26 gennaio 2013, dove al suo primo articolo, comma 2, è stabilito che ai fini della presente legge per «professione non organizzata in ordini o collegi si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale». Dopodiché, con gli artt. 4, 7 e 8, si regola il sistema di attestazione e relativa validità dei servizi professionali svolti dai singoli iscritti, e con l’art. 9, a proposito di “Certificazione di conformità a norme tecniche UNI”, si è stabilito, ribadisco no oggi, ma nel 2013, che le associazioni professionali di cui qui si tratta «collaborano all’elaborazione della normativa tecnica UNI relativa alle singole attività professionali, attraverso la partecipazione ai lavori degli specifici organi tecnici o inviando all’ente di normazione i propri contributi nella fase dell’inchiesta pubblica, al fine di garantire la massima consensualità, democraticità e trasparenza». Èrgo, le associazioni riconosciute e inserite nell’elenco del Ministero dello Sviluppo Economico il quale «svolge compiti di vigilanza sulla corretta attuazione delle disposizioni della presente legge».

In conclusione di questa breve rassegna normativa, qualcuno potrebbe chiedersi: con l’abrogazione dell’articolo 26 del Decreto Legislativo 9 novembre  2007, n. 206, e seguente Decreto attuativo del 28 aprile 2008 del Ministero della Giustizia che lo richiamava, ha ancora senso e valore giuridico parlare di un “elenco tenuto dal  Ministero della giustizia” con riferimento alle associazioni rappresentative a livello nazionale delle professioni per le quali non esistono ordini, albi o collegi?

Embè, con ossequioso rispetto per le opinioni di tutti, per quanto mi riguarda, credo proprio non abbia un grande senso, né riferimento giuridico attuale.

Dott. Marco LILLI – www.marcolilli.it


Quando il lavoro diventa smart

di Davide Costa

Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”(https://www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx)”.

In tutto questo periodo il numero di articoli concentrati sulla pandemia causata dal coronavirus impazzano, alla ricerca di una fetta, anche se pur minimale, di notorietà; d’altra parte, la repressione può favorire la sublimazione di determinate energie psichiche verso altre mete prettamente creative. Sulle conseguenze disastrose sul piano economico e non solo siamo tutti più o meno informati, ma appare affascinante una dimensione in  particolare, ovvero lo smart working o il  lavoro agile.

Si tratta di una modalità di svolgimento del rapporto di lavoro che , a norma della legge  81/2017,  enfatizza la “flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto”(ibidem).

Se rileggiamo con attenzione la nozione di lavoro agile, per chi è avvezzo alla sociologia, ritroverà un certo richiamo alla visione “marxista” del lavoro così come era inteso alla fine del XIX secolo. Sembrerà paradossale, eppure, appare evidente una sorta di ritorno al passato, o ancora meglio una forma di evoluzione del “modo capitalistico 2.0”; all’epoca le fabbriche erano succedanee delle normali residenze, oggi la propria casa diventa anche il luogo di lavoro.

Perché arriviamo ad affermare ciò? Per via dell’essenza stessa dello smart working, nel momento stesso in cui si enfatizza la “assenza di vincoli orari o spaziali”; non si tratta forse di una forma evoluta, se vogliamo, più raffinata e sicuramente migliorata, di quella capacità tipica del capitalismo di rendere sempre più sovrapposti, per non dire un tutt’uno, il tempo di lavoro con il tempo libero, infatti “(…) quanto più il lavoratore crede di emanciparsi dal processo produttivo, tanto più ne riproduce i presupposti, consumandone le merci”(Pagano, 2011).

Ecco, dunque, il nocciolo della questione, l’impossibilità di separare il lavoro dalla vita. Dovremmo chiederci, noi sociologi, quanto debba essere difficile riuscire ad interpretare più ruoli(il cosiddetto set role) nello stesso contesto ambientale, dal momento che l’attitudine umana ad adeguarsi, tanto da essere considerato attore sociale,  fa dell’agente uomo l’essere più camaleontico, e quindi capace di cambiare “tonalità comportamentale” a seconda delle diverse tipologie di norme e codici vigenti nei vari luoghi in cui egli è inserito. Con lo smart working tutto ciò viene a mancare, in una realtà già di per sé individualizzata e sempre meno orientata alla socievolezza.

Ma il lavoro agile include una categoria “marxista” particolarmente rilevante, dal momento che si fonda “sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto”, ovvero parliamo della “sussunzione”, nozione che originariamente venne introdotta da Aristotele, per poi essere stata ripresa da Kant  nella “Critica del Giudizio” di Kant, dove la parola, die Subsumtion, derivata dal verbo subsumieren, che significa inquadrare in una determinata tipologia o classificazione,  indica “la riconduzione di un termine al rapporto insieme di inclusione e di subordinazione che gli è proprio rispetto ad un termine più esteso”(http://www.commonware.org/index.php/laboratori/556-logiche-e-forme-dello-sfruttamento). Marx, invece riutilizza tale nozione inserendo i concetti di capitale e lavoro arrivando ad individuare due forme di sussunzione:

  1. formale che “consiste nell’assenza di variazione del contenuto del processo lavorativo ma nella trasformazione del rapporto tra i lavoratore e il resto della società: ad es. il contadino passa da lavorare il suo pezzo di terra per l’autoconsumo o al servizio del nobile feudale a lavorare per un capitalista, quindi diventa un lavoratore salariato, un bracciante. Il suo lavoro però al momento rimane invariato” (http://www.nuovopci.it/voce/voce61/sussunz.html);
  2. reale ovvero “consiste nella trasformazione da parte del capitalista del contenuto del processo lavorativo: introduce nuovi ritmi di lavoro, aumenta (o riduce anche) il numero di lavoratori, li riunisce in aziende, li fa lavorare insieme alla catena, adotta nuovi macchinari, cambia cosa si produce, ecc. per incrementare la valorizzazione del capitale (per aumentare la produttività del lavoro). Ad es. il contadino in questo caso passa dal lavoro senza macchinari, con un uso ridotto di fertilizzanti, con una coltivazione non intensiva, ecc. ad un lavoro con strumenti moderni, uso di agenti chimici, maggiore produttività, minori pause, ecc.”(ibidem).

In particolare è proprio con  la sussunzione reale che si realizza quello che potremmo definire il dominio delle tecnologie, le quali “(…) non “liberano” affatto il tempo sottraendolo al lavoro ma “catturano” tempo per renderlo disponibile o ancora al processo produttivo tecnicamente inteso(sussunzione reale) o(/e) al processo produttivo capitalistico”(Pagano, 2011). A questo proposito Marx nel XIII capitolo de “Il capitale” scrive “John Stuart Mill dice nei suoi  Principi d’economia politica: «È dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana d’un qualsiasi essere umano». Ma questo non è neppure lo scopo del macchinario, quando è usato capitalisticamente. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per se stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che l’operaio dà gratuitamente al capitalista e un mezzo per la produzione di plusvalore”(Marx, 1886).

Se già nella versione classica, come ricordato da diversi e autorevoli scienziati sociali, veniva enfatizzato il fatto che il famoso “tempo libero”, inteso come “liberato” dal lavoro, fosse labile per non dire quasi del tutto inesistente, oggi, dovremmo chiederci, e dovremmo tentare di analizzare, questa “totale” appropriazione dei tempi extra-lavorativi, dal momento che “(…) il tempo capitalistico individuale non è mai libero(e del resto nulla è realmente libero nel modo capitalistico). Il capitalismo si impossessa del tempo di lavoro e lo sfrutta, ma più di tutto si impossessa del tempo della riproduzione della forza lavoro e de cosiddetto tempo “libero”(Pagano, 2011).

Viene a mancare così un elemento nevralgico per l’individuo e la società, ossia il concetto e la sua pragmatica, il corso della vita (life course) che potremmo definire come “(…)la sequenza delle attività o degli stati ed eventi, nell’ambito di vari contesti vitali, che vanno dalla nascita alla morte. Il corso di vita è quindi visto come l’incorporazione delle vite individuali nella struttura sociale, primariamente nella forma della loro adesione alle posizioni e ai ruoli sociali, cioè al loro essere inserite all’interno dell’ordine istituzionale”(Mayer,2002).

Sorge spontaneo, quindi chiedersi cosa ne sarà del lavoro, ma anche come venga percepita e valutata l’eventuale prestazione resa a terzi, ovvero dagli utenti: pensiamo agli studenti di qualsiasi grado di istruzione, i lavoratori a cui spettano i sussidi, ecc., perché è semplice parlare di risultati positivi sulla base di indagini influenzate da specifiche committenze, spesso basate sulla quantità piuttosto che sulla qualità; infatti, tutt’altra cosa, è vivere in prima persona il disagio, la freddezza e l’immobilismo che la modalità in “remoto” comporta.

Indubbiamente questa modalità ha consentito di poter sopperire ad una totale situazione di stallo, ma non può essere “la nuova frontiera” definitiva del lavoro.

Per quanto possibile dobbiamo cercare di mantenere viva la propensione naturale dell’uomo alla socialità, alla convivialità e soprattutto al dinamismo; il rischio, infatti, è quello di creare nuove forme di “alienazione”, accentuando così, quel passaggio dall’umano al sub-umano, ad una condizione bestiale, come sostiene lo stesso Marx.

Allora dovremmo rammentare ai poteri alti e forti che:“Tu vendi il tuo tempo, le tue giornate, per cui lo stipendio che ti danno è una sorta di ricompensa perché ti hanno rubato qualcosa”(Terzani, 2006).

Dott. Davide Costa – sociologo

Riferimenti bibliografici

Marx K., (1886), Il capitale, trad. it. Meyer R., Newton Compton Editori, Roma, 2015.

Mayer K.U.,(2002),  The sociology of the life course and life span psychology – diverging or con – verging pathways?, in U.M. Staudinger, U. Lindenberger (a cura di), Understanding Human Development: Lifespan Psychology in Exchange with Other Disciplines, KluwerAcademic Publishers, Dordrecht, trad. it. Checcucci P.& Fefé R.(2012).

Pagano U.,(2011), L’uomo senza tempo, FrancoAngeli Editore, Milano.

Terzani T., (2006), La fine è il mio inizio, Longanesi, Milano.

Sitografia

https://www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx.

http://www.commonware.org/index.php/laboratori/556-logiche-e-forme-dello-sfruttamento.http://www.nuovopci.it/voce/voce61/sussunz.html


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