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John Wick, metafora estrema della nostra società

di Patrizio Paolinelli

John Wick è una saga del cinema d’azione prodotta negli USA. Un successo di botteghino cresciuto film dopo film: il primo esce nel 2014, costa 20 milioni di dollari e ne incassa 89; il secondo compare nelle sale nel 2017 (coproduzione USA, Hong Kong, Italia), costa 40 milioni e ne incassa 170; il terzo è del 2019, costa 75 milioni e ne incassa 322. Nel 2021 è prevista l’uscita del quarto capitolo della storia e nello stesso anno vedrà la luce una serie televisiva spin-off. Per non trascurare alcuna opportunità di business è in vendita il merchandising, è stato creato il fumetto e quest’estate uscirà il videogioco. Attore protagonista della trilogia è Keanu Reeves. Regista l’ex stuntman Chad Stahelski, alle sue prime prove dietro la macchina da presa.

John Wick è un leggendario killer che ha lasciato la professione per vivere con Helen, l’amore della sua vita. Dopo cinque anni la donna muore stroncata da un male incurabile. Col cuore spezzato John decide di isolarsi dal mondo per coltivare il ricordo della moglie. Ma, suo malgrado, eccolo nuovamente risucchiato nel vortice della società del crimine. La prima volta per farla pagare al figlio viziato di un gangster russo che gli ha rubato l’auto, ucciso il cucciolo di beagle (che Helen aveva disposto gli venisse recapitato dopo il suo funerale) e fatto pestare a sangue dai suoi sgherri; la seconda perché costretto a saldare un vecchio debito contratto con un capo della camorra; la terza per sfuggire a una torma di killer desiderosi di intascare una grossa taglia messa sulla sua testa dalla Gran Tavola (una sorta di consiglio di amministrazione del crimine planetario che detta le regole a cui i killer debbono attenersi e che John ha disatteso). Tre cliché del cinema d’azione: la vendetta, il passato che torna, la fuga.

Tutto da copione, verrebbe da dire. È da copione la trama scandita all’azione, il cast artistico subordinato al protagonista, il plot elementare, i dialoghi ridotti all’osso. E come da copione John non fa che prodursi quasi senza soluzione di continuità in mortali combattimenti lasciandosi alle spalle un numero incalcolabile di cadaveri. Se le formule sono trite e ritrite come ha fatto John Wick a trovare un posto tra gli dei che popolano il già affollato olimpo dei film d’azione? Cosa ha decretato il successo della saga?

È evidente che le risposte vanno cercate nell’originalità del personaggio. La cui vicenda fa esplodere in tutta la sua portata il nichilismo che da decenni percorre le vene della nostra società e sfibrato ogni legame. Niente sta in piedi nell’universo anomico di John: non ci sono certezze a cui appigliarsi, obiettivi per i quali valga la pena lottare, speranze da accarezzare, un domani da sognare; non ci sono ruoli da rispettare, istituzioni da difendere, nulla da farsi perdonare, né atti di eroismo o di altruismo da compiere. Tutto vacilla, tutto trema, tutto viene travolto dall’eruzione del vulcano nichilista: il senso di appartenenza, di responsabilità, di solidarietà, persino la struttura del sentire. L’unica maniera di abitare un mondo dove non c’è nulla è aggiungere altro nulla: quello che fa John Wick camminando nel vuoto del mondo del crimine, metafora estrema della nostra disgregata società.

Muoviamo i primi passi partendo dal corpo del protagonista. Keanu Reeves non ha la faccia da duro. Semmai quella del bravo ragazzo, bello, romantico e malinconico. La regia però riesce a sfruttare efficacemente il coté tenebroso del suo sguardo accordandolo con quello di un implacabile carnefice. Operazione riuscita perché sintonizzata con la serie di negazioni che definiscono il personaggio. La prima l’abbiamo appena individuata: John Wick è bello ma non è buono: dunque l’estetica nega l’etica.

A conferma: John non possiede il fisico di un body builder come richiesto ai protagonisti dei film d’azione. Non esibisce bicipiti esplosivi, addominali a tartaruga né è dotato delle capacità atletiche di un Van Damme: l’imbattibilità non necessita di una muscolatura portentosa. Se il canone fisico rompe con la tradizione del film d’azione l’abbigliamento vira con decisione verso il classico. La tenuta da combattimento di John Wick è un elegante abito scuro. Ma ecco una nuova sterzata. Nell’ambiente del crimine John è noto col soprannome di Baba Yaga, tradotto in italiano come Uomo Nero. Creatura leggendaria che un tempo terrorizzava i bambini e nella nostra trilogia i criminali incalliti. Purtroppo per noi non ci è dato il tempo di cullarci nelle paure infantili che subito dobbiamo aprire gli occhi e tornare nel mondo degli adulti: l’Uomo Nero veste come un ricco agente di borsa. Un agente di borsa sui generis visto che se le dà di santa ragione con altri agenti di borsa. Ma non è quello che fanno nella realtà?

Che si sparino addosso, si accoltellino, si prendano a pugni o a colpi di Kung Fu gran parte dei protagonisti degli innumerevoli combattimenti che costellano la saga indossano giacca e cravatta. Fanno eccezione gli arabi e gli asiatici per marcare la dimensione internazionale del mondo del crimine in cui opera John Wick. In coerenza col look formale John non fa nessuna concessione alla visibilità del corpo a cui ci hanno abituato i possenti petti nudi di uno Stallone, di uno Schwarzy dei tempi d’oro o più recentemente di un Dwayne Johnson, di un Vin Diesel e di tante altre star del cinema d’azione. Nella nostra trilogia ci si ammazza, sì, ma è gradito l’abito scuro: così si fa nell’alta finanza, così si fa nell’élite del crimine.

Abito e corpo di Baba Yaga-Agente di Borsa sono indistruttibili: entrambi non si sgualciscono più di tanto nonostante scontri, inseguimenti e fughe. L’abito perché ha incorporato nel tessuto una fibra antiproiettile, il corpo perché è tessuto con la materia inerte del nichilismo. John Wick non muore mai non perché è una divinità omerica ma perché è anestetizzato dalla vita. È un killer taciturno che con fredda determinazione procede alle complicate esecuzioni dei condannati che incontra sulla sua strada. I quali si difendono, si agitano, oppongono strenua resistenza esercitando il libero arbitrio di un fuoco fatuo. Si trovano già sul patibolo e la loro sorte è segnata. Per questo motivo John non deve faticare neanche un po’ per raggiungere le sue vittime. Parte all’attacco in doppio petto come se andasse a una festa. Festa in cui tutti sperano di non incontrarlo. Ma lo incontrano e gli tocca danzare la danza della morte.

una scena

Pur con la cravatta sempre a posto qualche volta John esce malconcio dalle sue esecuzioni. Ma quanto malconcio? In apparenza tanto, in realtà poco. Ferito all’addome da una coltellata un anziano medico gli applica numerosi punti di sutura e gli consiglia di riposarsi. John si mette a letto, non fa in tempo a chiudere gli occhi che eccolo impegnato in un violento scontro all’arma bianca con una terribile killer intrufolatasi in camera sua con l’intento di ucciderlo. Non solo non ci riesce, ma viene giustiziata per aver infranto la regola di non belligeranza che vige al Continental, l’esclusivo hotel per sicari dove John momentaneamente alloggia. In altri casi lo schema è ribaltato: niente può scalfire John. Neanche quando è investito da un’auto in corsa. John rotola a terra, si rialza prontamente, non ha neanche la necessità di spolverarsi l’abito e continua a combattere: la vulnerabilità è negata dall’invulnerabilità. Caratteristica che indurrebbe a pensare a un nuovo mito d’oggi. Così non è. Un mito è tale per il messaggio che trasmette e John Wick non è portatore di alcun messaggio.

Alla società del crimine non basta il gioco delle negazioni. Nella finzione scenica talvolta si scioglie nella fantasia. Per esempio, il richiamo all’incorporeo Uomo Nero permette al John in carne ed ossa un mimetismo da mantello magico. Eccolo correre vistosamente ferito per strade e metropolitane affollate lasciandosi dietro una scia di sangue: non una sola persona si gira a guardarlo. Nessuno lo vede perché non si nota ciò che siamo abituati a vedere: la violenza che ci circonda promuove alla normalità l’occhio cieco dell’indifferenza. Dunque John non ha bisogno di nascondere la sua sofferenza al mondo. È visibile solo ai suoi avversari. I quali, manco a dirlo, ingaggiano lotte furibonde con John e vengono sistematicamente sopraffatti. In altre circostanze L’Uomo Nero agisce come uno spirito della notte. Sbuca fuori all’improvviso e si prende la vita delle sue prede. Raramente lo spettatore sa come abbia fatto a sorprenderle. E anche quando lo sa le informazioni sono scarse. Di preciso sa che John è visibile e invisibile allo stesso tempo. Unione dei contrari? Dialettica incompiuta? Né l’una né l’altra. È la vita che non vive.

Anche un’epoca senza divenire genera riti. E la routine di combattimenti della nostra trilogia eleva il rito della lotta a massimo beneficio per gli occhi dello spettatore. Spettatore a cui la sceneggiatura concede qualche intervallo per non fiaccarne la resistenza ottica. Durante queste pause il pubblico può assistere a brevi scambi di battute che servono a preparare i successivi scontri. Poi la giostra della morte riprende a girare con tutto il suo carico di adrenalina. Giostra che nella trilogia di John Wick assume le forme del videogioco picchiaduro proiettato sul grande schermo. Da videogioco è l’inizio a passo di carica di ognuno dei tre film (in crescendo nel secondo e nel terzo); da videogioco è il doppiopetto salvavita di John; l’incessante susseguirsi di combattimenti in cui si vive o si muore; i gregari dei campioni di arti marziali che cadono come birilli sotto il fuoco dell’Uomo Nero e i campioni di arti marziali che lo sfidano e perdono; da videogioco è la completa assenza di suspense. Infine, da videogioco è la nostra vita quotidiana, la cui frenetica routine è fatta di traffico congestionato, urgenze, emergenze, scadenze, troppi impegni da rispettare, troppi bisogni da soddisfare, troppi conti da pagare, troppi nemici da combattere, troppe ferite da curare. E tutto questo affanno in una spaventosa solitudine interiore. La stessa di John Wick.

Un altro passo nel vuoto ci fa cadere nel sistema dei valori. Anche in questo caso vale il principio della negazione. John non lotta per imporre valori tangibili: la sete di denaro (non è mosso da un utile economico); la forza muscolare (non ha un fisico particolarmente dotato); il potere della mente (non gli occorrono grandi investigazioni per scovare le sue vittime); l’alta tecnologia (per uccidere usa pistole, fucili, coltelli, talvolta oggetti e soprattutto le mani); né deve salvare il suo amore (la moglie è morta). Neppure lotta per imporre valori intangibili: la gloria (vorrebbe starsene lontano da tutto e da tutti); la patria (la sua patria è la società del crimine, nella quale però non si riconosce più); l’onore (nel mondo di John Wick non c’è onore, tutti i legami sono provvisori, incerti, inaffidabili).

Appassiona John Wick? Certo che appassiona: per assenza di passioni. John non ha veri amici. L’unico che sembrerebbe tale e che gli salva due volte la vita muore a metà del primo capitolo. John lo ringrazia appena. E lo stesso John uccide un’amica per pagare il pegno al capo camorrista (fratello della vittima). Le tiene la mano mentre lei sta morendo dissanguata dopo essersi tagliata le vene. Un gesto di umanità? Dura un attimo: la finisce sparandole in testa. Per tutta la saga il direttore del Continental di New York sembra affezionato a John e lo sostiene in diverse occasioni. Ma alla fine del terzo capitolo non esita a prenderlo a revolverate per il proprio tornaconto.

Nessun nuovo amore si profila all’orizzonte. Le donne che lo circondano non lo inducono in tentazione e per di più sono colleghe killer o malavitose delle quali non ci si può fidare. Se lo aiutano è per calcolo e comunque alla fine lo abbandonano al suo destino. Dopo la perdita di Helen il cuore di John non ha più ragioni e se anche le avesse non lo interessano, salvo colpi di scena nel prossimo capitolo della saga. Ma se così fosse si si snaturerebbe la sua storia. Non sarebbe la prima volta che l’industria cinematografica si pente delle proprie azioni. Per restare a Keanu Reeves è accaduto con Matrix: motivo di riflessione il primo capitolo, operazione commerciale di basso profilo i due successivi. Il prossimo John Wick continuerà a camminare nel vuoto?

In un mondo che ha azzerato cause a cui immolarsi e passioni a cui dedicarsi anche le istituzioni precipitano. A iniziare dalla più importante di tutte: il denaro. Nella società criminale di John circola una moneta speciale di cui però non si comprende l’effettivo valore, nessuno si dà da fare per procurarsela, non è oggetto di contesa e nei tre film non se ne vedono altre in circolazione. A dire il vero in ogni capitolo viene messa una taglia in dollari sulla testa di John. Ma come sappiamo nessuno riesce a intascarla. Neppure l’economia è un’ancora di salvezza.
La giustizia latita meno. Ma forse sarebbe stato meglio che non fosse apparsa per nulla visto come viene ridicolizzata. Per quanto John e i suoi avversari si sparino in pubblico e si inseguano in folli corse in automobile per le strade della città la polizia non compare mai. Neanche una sirena in lontananza. Le uniche due volte che fa capolino è una parodia incarnata dall’ossequioso agente Billy. Il quale peraltro sa che John è un killer professionista. Ma non ha nulla da obiettare. Crimine e violenza sono nell’ordine delle cose.

E la famiglia? Non esiste. Tutti sono soli. Allora ci salverà la cultura? Neanche. Le matite non servono per disegnare o scrivere ma per uccidere (John è famoso per aver fatto fuori tre avversari proprio con una matita). I libri appaiono una volta in casa di John, ma in cantina. Un’altra alla New York Public Library in cui John ha nascosto all’interno di un volume oggetti necessari alla fuga. Con lo stesso libro uccide brutalmente un gigantesco killer che tentava di fargli la pelle per intascare la solita taglia (uno dei rari momenti à la Tarantino della trilogia). John rispetta le regole del mondo del crimine? No, come nessuno peraltro. Tutta la saga è una giravolta di impegni presi e non mantenuti, di regole disattese, di rapporti gerarchici che saltano. Tutti sono contro tutti, l’amico di oggi è il nemico di domani e la fiducia non ha diritto di cittadinanza nel mondo di John. Come nel nostro.

Nota finale.

Di solito i film d’azione made in USA sono un’apologia più o meno diretta del sistema sociale americano. Con John Wick l’ideologia a stelle e strisce scricchiola rumorosamente. L’aquila calva non vola più e l’intera saga non offre una sponda alle inquietudini della nostra epoca. Segno dei tempi.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 6 giugno 2020.


Epidemia e trappole linguistiche

di Patrizio Paolinelli

Improvvisamente numerose interdizioni hanno sconvolto le consuete forme d’interazione sociale degli italiani: l’obbligo alla quarantena nella prima fase dell’epidemia da coronavirus, le stringenti regole di condotta da tenere nella fase successiva, i controlli delle forze dell’ordine per verificare il rispetto delle misure anticontagio. Il nuovo ordine di convivenza si è strutturato intorno alla condivisione di nuovi anglicismi e al concetto di distanza.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Fatta eccezione della sigla Covid-19 gli anglicismi di maggior successo sono stati lockdown e smart working: il primo una novità, il secondo già noto e rilanciato in grande stile con la pandemia. Negli Stati Uniti lockdown ha due significati: isolamento dei detenuti nella propria cella; misure di sicurezza che vietano l’entrata e l’uscita da una determinata area. Nonostante esprima due concetti differenti tale termine è stato utilizzato dall’Oms all’inizio dell’epidemia quando le autorità cinesi hanno isolato Wuhan. E la stampa italiana ha seguito a ruota senza porsi alcun problema. Sempre il nostro sistema d’informazione ha introdotto il termine droplets (goccioline salivari potenziali veicoli di infezione), cluster (presenza di due o più casi affetti da coronavirus in aree al di fuori dei focolai) e il concetto di helipcoter money (trasferimento di denaro nelle tasche dei cittadini), ma per il momento non sembrano aver avuto grande presa sull’opinione pubblica. E comunque, sia i media sia diversi esponenti politici insistono.

Il fronte anglofono però presenta almeno un paio di importanti defezioni. Nei documenti ufficiali il governo ha privilegiato la locuzione misure di contenimento al posto di lockdown e al posto di smart working il già collaudato lavoro agile, presente nella nostra legislazione dal 2017. Anche il Ministero della Salute ha usato misure di contenimento e optato per goccioline anziché utilizzare il forestierismo droplets.

Durante questi primi mesi di pandemia si è dunque assistito a una partita tra la lingua italiana e quella inglese. Chi ha vinto? La lingua inglese. Anche perché le nostre istituzioni hanno giocato con poca convinzione. Forse si sentivano già battute o, peggio ancora, non si sono accorte di giocare una partita. In ogni caso oggi sono i media a decidere quali parole includere o escludere dal discorso pubblico. Una rete comunque l’abbiamo più o meno consapevolmente segnata: la nostra “distribuzione a pioggia” non è stata spodestata da helipcoter money.

È difficile resistere alla capacità di attrazione degli anglicismi: l’inglese è la lingua della nazione-guida dell’Occidente, del potere economico e dell’alta tecnologia. Il suo prestigio permette agli italiani che lo usano nel parlare quotidiano di sentirsi appartenenti a una categoria privilegiata e al passo coi tempi. Se si guarda alla storia non siamo dinanzi a un fenomeno nuovo e oggi gran parte dei linguisti sostengono che l’invasione di termini inglesi non costituisce un pericolo per l’integrità dell’italiano. Qualche dubbio però sorge quando l’introduzione di parole straniere nasconde intenzioni egemoniche sulla lingua d’arrivo, genera sudditanza culturale, veicola valori, modi d’essere e di vivere; in una parola, un’ideologia. È esattamente quanto accade con l’inglese. L’affermazione del lemma lockdown e dell’espressione smart working conferma l’efficacia della strategia statunitense di americanizzare il mondo. Strategia che trova un terreno particolarmente fertile in culture nazionali deboli come quella italiana. Paese formatosi da poco più di 150 anni, con un’unità linguistica completata appena nel secondo dopoguerra, un’identità nazionale fragile e che de facto è un protettorato USA.

Paesi come la Francia, che non soffrono di una sovranità limitata come la nostra, alla parola lockdown hanno preferito confinement. D’altra parte i francesi usano ordinateur al posto di computer, souris al posto di mouse, Mél (messagerie électronique) al posto di e-mail e difendono a spada tratta la loro cultura dai processi di americanizzazione che penetrano attraverso Hollywood, le serie televisive made in Usa, la musica pop e così via. Il motivo di tanta resistenza è semplice: non si può essere sicuri della propria indipendenza (politica, economica, culturale) quando si è alleati con una nazione immensamente più forte. Perché dovrebbe trattarti da pari a pari?

Noi che abbiamo l’indipendenza concessa a un vassallo non possiamo opporre una resistenza simile a quella dei francesi. La cosa dà ulteriormente da pensare se si considera il progressivo impoverimento della nostra lingua. Fenomeno particolarmente evidente nelle giovani generazioni. È noto che mediamente le matricole universitarie si esprimono male e fanno errori da terza elementare quando provano a scrivere qualcosa. Più la nostra lingua si impoverisce più gli anglicismi s’introducono nel vocabolario italiano. Certo, punto di forza dell’inglese è che corrisponde all’idioma dei commerci, del marketing e della globalizzazione tant’è che in Cina è inserito nei programmi della scuola primaria. In teoria anche da noi le lingue straniere si insegnano dalle elementari. In teoria, perché in pratica i nostri studenti si diplomano alle superiori senza averne una conoscenza adeguata. Probabilmente se nelle scuole italiane si studiasse bene l’inglese saremmo soggetti meno passivi dinanzi alla sua penetrazione. Ma dato che non si impara bene neanche l’italiano la nostra identità culturale ne risulta ancor più incerta. Un problema che la politica dovrebbe prendere in seria considerazione. Non è una questione di nazionalismo: salvaguardare una lingua, meglio ancora, l’identità culturale di un popolo è una ricchezza per tutto il genere umano.

Per quanto riguarda la distanza o il distanziamento sociale si tratta di calchi dall’inglese social distance e social distancing. Pertanto sarebbe stato inutile rinunciare all’italiano e tuttavia la stampa li ha usati e li usa con una certa frequenza. Anche in questo caso c’è chi non si è allineato. Ancora una volta il Ministero della Salute, che ha preferito adottare il concetto di distanza interpersonale e sul Web si sono registrate diverse posizioni favorevoli a distanza fisica. Tuttavia in alcune occasioni il nostro capo del governo e lo stesso ministro della salute hanno usato l’espressione distanziamento sociale. Al contrario, il primo ministro francese, Édouard Philippe, l’ha definita “ripugnante”.

Il concetto di distanza sociale utilizzato in questi mesi non è stato tratto dalla riflessione sociologica, che sull’argomento vanta una lunga tradizione, ma da una classificazione del grado di prossimità fisica elaborata negli anni ’60 del secolo scorso dall’antropologo Edward Hall. Secondo Hall esistono quattro zone differenti di gestione dello spazio in cui si articolano altrettante forme di comunicazione. La prima è la distanza intima (dal contatto fino a 45 centimetri), riservata ai rapporti molto stretti (marito-moglie, genitori-figli e così via). La seconda è la distanza personale (da 45 centimetri a 1,2 metri), che si tiene di solito con gli amici e i conoscenti. La terza è la distanza sociale (da 1,2 a 3,5 metri); in genere si tiene in occasioni formali, tra sconosciuti, tra individui che appartengono a differenti classi sociali. Infine, abbiamo la distanza pubblica (da 3,5 metri in su) come quella tenuta da un oratore rispetto all’auditorio.

Bene, chiariti i termini della questione ecco due incongruenze che presenta la categoria distanza sociale applicata alla definizione delle misure anti-contagio. Prima incongruenza, nel normale andamento della vita quotidiana la distanza sociale non è imposta per decreto né prevede sanzioni se con l’accordo tra le parti da sociale passa a personale. Seconda incongruenza: nelle interazioni pre-pandemiche la distanza sociale costituisce un potenziale comunicativo: può infatti trasformarsi in distanza intima come nel caso di due sconosciuti che si incontrano, si conoscono e poi avviano una relazione amorosa. Se con la pandemia non si può dire che tale potenziale sia del tutto annullato sicuramente è notevolmente ridotto. Viceversa, nella prospettiva di Hall la distanza sociale costituisce un fattore dinamico della comunicazione attraverso i giochi di manipolazione dello spazio.

L’insieme di questi motivi avrebbe sconsigliato l’uso del concetto di distanza sociale in relazione alla pandemia preferendogli quello assai più calzante di distanza interpersonale o di sicurezza. Allora perché giornalisti, politici e virologi lo hanno utilizzato? Un po’ per pigrizia, un po’ per la fretta dettata dall’emergenza, ma soprattutto perché siamo tutti immersi nell’ordine del discorso economico neoliberista. Il cui gergo, il celebre aziendalese, marginalizza l’idea stessa di società. Idea che ancora non si può sopprimere del tutto e che viene surrogata nei concetti di relazione, gruppo, comunità o ingabbiata in quello di social network. Concetti invariabilmente subordinati a una visione egoistica dell’esistenza.

Questo modello di controllo ideologico del linguaggio è da tempo consolidato negli Stati Uniti, tanto che negli anni ’60 Herbert Marcuse l’aveva catalogato come “Chiusura dell’universo di discorso” e considerato una delle cause che nelle società avanzate impediscono ogni sostanziale cambiamento “inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo”. Associare la parola società a un evento tragico come la pandemia e all’obbligo di lontananza dagli altri significa denotarla negativamente, così come è esercizio quotidiano dell’aziendalese denotare negativamente il socialismo, lo stato sociale, la solidarietà; a cui oppone l’individualismo, la ricchezza personale, la concorrenza. Dall’attuale governo e dai partiti che si richiamano ai valori della sinistra ci saremmo aspettati maggiore consapevolezza sull’importanza delle funzioni di una lingua. Così non è stato e l’americanizzazione dell’Italia continua.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 30 maggio 2020.


CACCIATORI DI STORIE

Narrazioni ai tempi del Coronavirus

Cacciatori di Storie” raccoglie le testimonianze di uomini e donne ai tempi del Coronavirus, vittime di uno scollamento tra ciò che era la loro quotidianità prima della pandemia e quella che si trovano a vivere adesso, alle prese con un continuo bombardamento mediatico e con l’isolamento forzato. Quali saranno le “resistenze creative” che metteranno in campo? Nuovi scenari, ancora in divenire, che i cacciatori di storie provano a guardare con l’occhio critico e curioso dello scienziato sociale.

A cura di : Tommaso Francesco ANASTASIO – Sonia ANGELISI – Fabiana BARONE – Marino D’AMORE – Francesca SANTOSTEFANO – Maria TRAPANI – Federica UCCI .


LE ORIGINI DELLA PEDAGOGIA INFANTILE

Denisa Alexandra Cojocariu

L’infanzia è un pianeta a portata di mano, situato tra cultura e natura, ed è soprattutto una condizione complessa. Viene elaborata all’interno di diverse discipline tra cui la sociologia, la quale fino agli anni ottanta, ha dimostrato uno scarso interesse nei confronti del bambino, facendo corrispondere il discorso sull’infanzia con l’analisi di sviluppo della socializzazione.

Le rappresentazioni sociali durante la socializzazione assumono una posizione fondamentale sia come meccanismi sociali che come meccanismi psicologici. In particolare il riconoscimento e l’attribuzione di significato agli oggetti, avviene attraverso la rappresentazione sociale, che permette la comunicazione tra gli individui, e soprattutto l’interiorizzazione delle norme e dei valori principali. Il processo di socializzazione dell’infanzia e la formazione della coscienza di sé, sono strettamente interconnessi all’interazione che il bambino intrattiene nell’ambiente in cui vive, fino a costituire un vero e proprio legame con il sociale. 

Affrontando diversi studi il termine socializzazione assume diversi accezioni, all’interno della psicologia sociale viene sostituito con quello di “sviluppo sociale”, inoltre l’infanzia viene sottovalutata come categoria sociale e soprattutto considerata al singolare, nonché dal punto di vista individuale, l’immagine del bambino assume la visione di un adulto.

‹Secondo il sociologo Talcott Parsons, la famiglia ad un certo punto dello sviluppo del bambino non è più in grado di assolvere a tutti i compiti della socializzazione. Intervengono allora la scuola e il gruppo dei pari quali sottosistemi del sistema sociale che aggiungono un nuovo criterio di differenziazione sulla base dell’universalismo dell’asse generalizzale e sessuale.››

Egli ha una visione particolare del bambino, poiché lo valuta come un essere incapace di relazione sociale all’interno della quale domina la ragione. L’infante ha la consapevolezza di dipendere dagli altri relativamente al soddisfacimento dei propri bisogni, l’effetto che ciò produce è la visione della madre come un oggetto.

Secondo lo psicologo e psicoanalista britannico John Bowlby, il rapporto tra bambino ed oggetto si forma attraverso motivi emozionali e non logici.

‹Il bambino, fin dalla nascita, possiede caratteristiche “sociali” egli è infatti dotato di comportamenti efficaci nel rapporto interpersonale, soprattutto dal punto di vista emotivo, come il sorriso, lo sguardo, l’abbraccio.››

All’interno della teoria fenomenologica fondata dal filosofo e matematico Edmund Husserl, il bambino non viene posto all’interno di una società bensì viene collocato all’interno di un contesto di totale libertà e parità con l’adulto. Il bambino fin dalla nascita si ritrova all’interno di un mondo inter-soggettivo, una struttura che sorge dall’attività umana ed è un mondo incentrato soprattutto sulla cultura. Un mondo sociale dove gli individui si sviluppano sulla comprensione, interazione e soprattutto sulla base dell’altro.

‹‹Il mondo sociale in cui è collocato l’uomo che vive tra gli uomini, non è per nulla omogeneo ma strutturato in molti modi, e ciascuna di queste sfere o regioni del mondo sociale è caratterizzata da una particolare tecnica di comprensione dell’altro.››

La socializzazione dunque viene vista come un processo attraverso il quale, l’uomo impara a diventare membro della società, proprio per questo motivo il sociologo Peter Lodwing Berger, noto come coautore insieme a Thomas Luckmann tendono a suddividere la socializzazione in primaria, la quale fa riferimento alla fase legata all’infanzia, e secondaria ove l’individuo accede all’interno dei diversi settori della società già socializzato.

La fase dell’infanzia viene vista come una fase di transizione.

Nella cultura antica e prevalentemente in quella medievale, il bambino era considerato privo di parola e di ragione, lontano dalla condizione umana e strettamente legato all’animalità. All’interno della pedagogia il bambino occupa una situazione temporanea, nonché la posizione di un uomo in miniatura.

Allo scrittore, filosofo e musicista Jean-Jacques Rousseau si attribuisce il merito di una vera e propria scoperta del bambino e l’individuazione degli elementi di differenziazione tra uomo e bambino, in quanto vi sono differenti modi di pensare, vedere le cose, e percepire il mondo. Grazie ad egli vengono apprezzate diverse qualità presenti nel bambino, quali: l’innocenza, la semplicità e la spontaneità. Lo scopo dell’educazione infantile non è quello di formare l’adulto, bensì riconoscere all’infante il ruolo di soggetto privilegiato all’interno dell’azione educativa, riconoscendogli doti e specifiche capacità. L’infante trasfigura la realtà, non attraverso l’intelligenza, bensì attraverso la fantasia ed il sentimento.

Fabrizio Caramagna si definisce uno scrittore e ricercatore delle meraviglie, in uno dei suoi testi cita:‹‹Non sei mai stato bambino se non sei saltato a piedi pari dentro una pozzanghera, svegliando le fate che dormivano e facendole saltare in mille gocce di luce fino al cielo.››

dott.ssa Denisa Alexandra Cojocariu – sociologa


IL VOLONTARIATO

Oggi parleremo di volontariato. Una funzione oltremodo importante la riveste il mondo del Terzo Settore, a mio avviso l’Italia più bella, perché lì dove non arriva lo Stato a tamponare le falle della gestione istituzionale, arriva gratuitamente il volontariato.

<<== di Italo Caruso

A Cosenza il CSV “Centro Servizi per il Volontariato,” organizzazione No -Profit il cui Presidente è il Sig. Gianni Romeo, racchiude e rappresenta la maggior parte delle associazioni di volontariato. Un Presidente lungimirante che mira in alto, che ha chiuso un accordo con il mondo Accademico – UNICAL-CSV- per qualificare, dare una formazione specialistica alla figura del volontario, in quanto ha capito che lo Stato ha bisogno del Terzo Settore. La docente Unical Maria Teresa Nardo ha da poco attivato un corso di formazione online dal titolo: Il Capitale intellettuale del Terzo Settore, un bene da valorizzare. Questo è anche l’auspicio del Dott. Mauro Palma, Presidente Nazionale del Garante per i detenuti, che sostiene e divulga questo modus operandi da molto tempo.

 Fra le associazioni di volontariato che più si distinguono e che sono particolarmente impegnate nel carcere vi  è l’Associazione Liberamente di Cosenza che quotidianamente investe risorse umane nelle strutture detentive, affiancando detenuti nel loro percorso di sofferenza e di detenzione, aiutandoli a superare momenti di sconforto, attraverso l’ascolto, la lettura, lo studio ed altre iniziative quali progetti teatrali, cineforum, ecc. L’Associazione Liberamente aderisce al SEAC “Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario”, organo di rappresentanza nazionale.

 L’Associazione Liberamente, di cui orgogliosamente faccio parte, il cui Presidente è il Sig. Francesco Cosentini, in sinergia con la dottoressa Mendicino Direttrice del carcere di Cosenza ­ porta avanti progetti rieducativi, ma anche progetti straordinari, come la partecipazione alla rassegna nazionale teatrale che si è tenuta a Saluzzo lo scorso anno: otto detenuti del carcere di Cosenza, facenti parte di una compagnia teatrale, si sono recati in trasferta  a Saluzzo- TO- accompagnati da volontari di Liberamente. È stata un’esperienza emozionante che spero si ripeterà. Gli attori “detenuti,” liberi da qualsivoglia restrizione fisica e mentale, hanno dimostrato un alto senso di responsabilità, hanno pranzato e cenato nei ristoranti della città con i volontari, in un’atmosfera simpatica e di buon umore, e quando qualche curioso notava l’allegria del gruppo e chiedeva chi fossimo, la risposta era” siamo quasi tutti detenuti liberi per tre giorni per una rassegna teatrale”. Hanno dimostrato di essere pronti a vivere serenamente nella società.  Questo significa riabilitare, rieducare. Il Laboratorio Focus Carcere, attento osservatore, si congratula con la Direttrice del carcere, la quale sta ricevendo numerose lettere di riconoscenza da parte dei detenuti e con l’associazione Liberamente , per lo straordinario traguardo raggiunto.

Una punta di diamante del volontariato negli istituti penitenziari è rappresentata anche dalla Professoressa Franca Garreffa, docente di Sociologia della devianza e responsabile del Polo Penitenziario dell’Unical, la quale si prodiga con numerosi progetti e impegni personali a condurre i detenuti in un percorso di studio, raggiungendo notevoli soddisfazioni e facendo laureare diversi detenuti.

Emblematica soddisfazione del mondo Accademico dell’Università della Calabria UNICAL, è stata il conseguimento della laurea in sociologia di due detenuti rinchiusi nel carcere di Rossano: Francesco Carannante condannato all’ergastolo ostativo, fine pena mai, cioè pena perpetua e il compagno di cella Gennaro Barnoffi, ragazzi che appena maggiorenni, trent’anni orsono, erano macchine da guerra e carne da macello per la camorra.

 A coronamento del traguardo raggiunto il Dott. Carannante ha pubblicato il suo primo libro dal titolo” Sulla Linea, la mia vita dietro le sbarre”, libro che consiglio a tutti di leggere. Voglio sottolineare un pensiero profondo del detenuto dott. Carannante che dice: la delinquenza non è e non è mai stata figlia della povertà ma solo dell’ignoranza.

Questa frase incoraggia molto il mondo del volontariato e il reparto educativo che dedica tanto tempo alle persone carcerate, che alcuni vorrebbero eternamente dietro le sbarre, dopo aver metaforicamente gettato le chiavi.

Dott. Italo Caruso – Laboratorio focus carcere ASI di Rende (CS)


La responsabilità sulle regole

Un titolo un po’ provocatorio quello di questo contributo, come a dire che la responsabilità sulle regole incombe in capo a chi queste regole le produce e far sì che si rispettino, ma soprattutto, aggiungo, mettere tutti nella condizione di rispettarle senza che qualcuno debba ogni volta rammentarlo attraverso le più variegate forme sanzionatorie.

<== di Marco Lilli

Utopia? Probabilmente si. Però un conto è la libertà di ognuno di decidere se rispettare una norma, assumendosi gli oneri conseguenti in caso di violazione, altro è una certa confusione che spesso si viene a creare per i più disparati motivi. Altro ancora è quella sorta di rituale lagnanza tipica di un certo modo di vedere le cose da parte di talune persone. Tanto premesso, l’antefatto del presente mio intervento riguarda una lodevole iniziativa istituzionale che di qui a breve andrò ad illustrare e la responsabilità sulle regole imposte.

“Abbraccio Tricolore”

Ebbene, credo sia noto a tutti, o comunque a tanti, il prestigio che “Le Frecce Tricolori” conferiscono al nostro Paese in tutto il mondo. Infatti, ogni anno, migliaia di persone, quindi non solo italiani, si affollano in ogni dove per assistere alle acrobatiche esibizioni dei piloti delle Frecce Tricolori, il cui nome ufficiale, in realtà, è “Pattuglia Acrobatica Nazionale”, cioè il gruppo specifico di addestramento dell’Aeronautica Militare Italiana. Ma cosa lega le Frecce Tricolori con la responsabilità sulle regole e l’attuale periodo di pandemia da Covid-19?

Come accennato, lo spunto mi è dato dall’iniziativa dell’Aeronautica Militare dal titolo “Abbraccio Tricolore”, ovvero far sorvolare la “Pattuglia Acrobatica Nazionale” nei cieli di tutte le regioni italiane «abbracciando simbolicamente con i fumi tricolori tutta la Nazione, in segno di unità, solidarietà e di ripresa». Perciò, un insieme di plurimi eventi che simbolicamente si concluderanno il 2 giugno «con il sorvolo di Roma in occasione della Festa della Repubblica».

In sintesi, come si legge nella scheda riepilogativa dell’Aeronautica Militare Italiana, un importante e positivo segnale da trasmettere alla cittadinanza «in un momento in cui l’Italia è desiderosa di uscire da un periodo di crisi, nel rispetto delle regole, con responsabilità e attenzione». Ma è quest’ultimo passaggio (nel rispetto delle regole, con responsabilità e attenzione) che mi ha lasciato un po’ perplesso e su cui si inserisce la ratio del mio titolo – ho già significato provocatorio – “la responsabilità sulle regole”. Nel senso che, almeno dalle notizie di cronaca di questi giorni, di rispetto delle regole, di responsabilità e di attenzione, poco o nulla.

Debbo però doverosamente aggiungere che la stessa Aeronautica Militare ha invitato la cittadinanza a godersi «lo spettacolo evitando assembramenti e rispettando le regole, dalle finestre e dai balconi delle nostre case o dai nostri luoghi di lavoro esponendo e sventolando il Tricolore». In teoria tutto perfetto, nobile e lodevole, ma la domanda che vorrei rivolgere a quegli amministratori locali che sono tornati a minacciare di chiudere strade, vie, piazze, eccetera – poiché il passaggio delle Frecce Tricolori ha inevitabilmente provocato assembramenti –, è la seguente: cosa ci si aspettava di diverso? Cioè, in una condizione per cui all’interno del proprio comune e addirittura regione si può liberamente circolare, chiedo: perché un cittadino per assistere al passaggio delle Frecce Tricolori dovrebbe tornare a rinchiudersi in casa dopo due mesi di confinamento coatto?

Certo, qualcuno potrebbe rispondere per buon senso. Risposta condivisibile, allora aggiungo: perché quando si parla di buon senso lo stesso debba ricadere sempre e solo in capo al cittadino comune? E ancora, se nel caso di questa brillante iniziativa di buon senso trattasi, allora si è certi che tutte le istituzioni lo abbiano usato?

Ebbene, queste domande a me paiono tanto legittime quanto opportune, anche perché se c’è altro da sapere, allora lo si renda pubblico, altrimenti non ci si dolga, poi, se l’opinione pubblica appare sempre polemica anche difronte ad iniziative meritevoli di lode come quella fin qui ricordata.

Dott. Marco LILLI – www.marcolilli.it


CORONAVIRUS, REALE O FALSA DICOTOMIA TRA TUTELA DELLA SALUTE E RIPRESA ECONOMICA

Dal download sottostante si può consultare la ricerca dell’Associazione Sociologi Italiani

 

La ricerca è stata curata da: Davide Franceschiello, Giuseppe Bianco,  
Francesca Santostefano, Davide Costa, con  
 la collaborazione di Catia Cosenza.   


Il comportamento prosociale

A proposito di volontariato o comunque di comportamento prosociale più in generale, credo, senza presunzione, che il nostro Paese ha molto da insegnare a chiunque altri nel mondo. Lo abbiamo dimostrato molte volte nel corso degli anni; per esempio quando l’Italia è stata suo malgrado protagonista di eventi calamitosi come terremoti, alluvioni, incendi boschivi e, da ultimo, questa emergenza pandemica da Covid-19, dove un numero cospicuo di donne e uomini, rischiando per la loro stessa incolumità, si sono prodigati per aiutare persone più in difficoltà di altre. Gli anziani soli, tanto per esemplificare.

<<<< di Marco Lilli

Tuttavia, senza dilungarmi, credo che tutto debba rientrare all’interno di un confine che delimiti il ragionevole da qualcosa che ha a che fare con altro, anche quando si tratta di comportamento prosociale. Ecco, in questi termini, mi riferisco a quella proposta formulata da qualche appartenente alle istituzioni di questo Paese che in questi giorni sta riempiendo pagine di giornali, profili social e così via, cioè il reclutamento di un certo numero di soggetti ai quali gli si vorrebbe attribuire il nome di “assistenti civici”, con la mansione di, anche, vigilare su quello che a mio avviso è impropriamente definito, ormai da mesi, “distanziamento sociale”. Non mi soffermo sulla semantica di quest’ultima infelice definizione, ma osservo solo che un conto è il concetto di distanziamento tra persone o personale, dal punto di vista del contatto fisico, altro è il concetto di distanza sociale.

Pertanto, tornando ai cosiddetti “assistenti civici” – ai quali non sarebbe riconosciuta nemmeno una qualifica giuridica, ci mancherebbe altro –, ecco che se tale proposta dovesse avere una evoluzione, allora ci troveremo di fronte a più questioni rilevanti e perfino convergenti tra loro, che a mio avviso andrebbero oltre il nobile significato di comportamento prosociale.

Ebbene, prima di tutto, non si riesce a comprendere bene quale spiccato livello culturale e di elevata moralità dovrebbero avere questi incaricati che il cittadino comune non avrebbe, al punto da avere bisogno di assistenza nel comprendere, per esempio, l’importanza di indossare una mascherina protettiva o di rispettare il fatidico metro di distanza tra le persone per una questione di sicurezza individuale e altrui. Allo stesso modo, non si comprende bene quale spiccato livello di conoscenze giuridiche dovrebbero avere questi cosiddetti “assistenti civici” al punto da rivolgersi ai cittadini e impartire loro improbabili lezioni sul significato e rispetto delle norme in materia di Covid-19 o perfino di altre.

In sintesi, e mi avvio a conclusione, il cittadino italiano, che va dal gestore di esercizio pubblico all’avventore qualunque, è in grado da solo di comprendere cosa è più opportuno fare, non ha bisogno di moralizzatori, ancor meno se improvvisati, semmai, nei casi di violazione delle norme giuridiche si provvederà diversamente, ma questa è altra questione. Così come è altra questione l’abissale distanza tra il concetto di comportamento prosociale rispetto ad improponibili iniziative.

Credo dunque che si è giunti al punto che il cittadino comune abbia raggiunto la soglia massima di tolleranza, o comunque gli è molto vicino, rispetto a quelle che spesso intende come vessazioni disdicevoli, superficialità patologica e idiozia riverberante, al punto che aggiungerne altre, di vessazioni, metterebbe a serio rischio la stessa tenuta dell’ordine sociale. Per non parlare poi, sempre se dovesse concretizzarsi la proposta in narrativa, del pericolo cui andrebbero incontro tali “assistenti civici”. Ebbene sì, perché ho la vaga sensazione che si andrebbero a materializzare risentimenti tali al punto da sfociare in aggressioni fisiche e verbali, nonché a denunce per tutta una serie di reati dalle quali dovranno difendersi pagando di tasca propria, sia avvocati, sia accessori. E tutto questo per quale scopo: per caso per avere qualche mesetto di visibilità e notorietà? Ognuno si dia le risposte che crede, ma quello su cui insisto è che non ci si può improvvisare psicologi, sociologi e giuristi per decreto.

Dott. Marco LILLI (www.marcolilli.it)


Il sociologo come figura professionale, una riflessione sulla sua definizione

Jessica Levorato (studentessa di Scienze Sociologiche)

Su chi sia il sociologo se ne sentono e leggono d’ogni sorta: a partire da alcune definizioni accettabili per distorsione idealistica fino a giungere in altre che nascono già discutibili e dalle quali ci si sente di prendere le distanze rifiutando la deriva della stigmatizzazione. Si potrebbe aprire un dibattito solo su quali rappresentazioni siano più giuste e quali siano da depennare completamente, ma la sociologia ci insegna a superare ogni sorta di dicotomia e ad applicare con approccio integrato i concetti adeguati per l’ambito nel quale si sta compiendo ricerca sociale, cercando di fornire una spiegazione approfondita e completa di bibliografia ma che non abbia la pretesa di esaustività.

La riflessione che segue è il risultato di una personale elaborazione sul ruolo del sociologo, nata da una semplice discussione con alcuni professionisti, ai quali va il mio ringraziamento per la possibilità di fare questa piccola constatazione che vuole essere d’incoraggiamento per coloro che si appassionano a questa disciplina. L’esperienza della triennale a Padova ancora in corso, mi ha portata a credere fortemente che la ricerca sociale sia il vero cuore pulsante del sociologo nelle quali sono inscritte le metodologie quantitative e qualitative, da quelle classiche di cui ci parlano saggiamente P.Corbetta e M.Cardano a quelle innovative cui la scienza sociale prende spunto da altre discipline e che, nei limiti, le adatta al contesto. La ricerca è esperire, il toccare con mano realtà finora inspiegabili che sfidano le attese del senso comune (Gambetta, varie opere). Nel senso comune sono sedimentati alcuni stereotipi che cristallizzano la realtà sociale così come viene percepita e incastrano ogni azione priva di conoscenza approfondita; è compito del sociologo mettere in discussione tali luoghi comuni – non a caso, definiti “comuni”: dal latino communis, che partecipa a una carica insieme, quasi a dire accettati socialmente-.

La sociologia è quindi disciplina empirica centrata e aperta (La Mendola, 2009): un insieme di saperi accreditati da una comunità scientifica che si completano assieme alle caratteristiche uniche e personali dell’attore sociale in veste di sociologo, il quale sviluppa in modo processuale la propria immaginazione sociologica. Wright Mills (1959) definiva l’immaginazione sociologica come ciò che permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi della vita interiore e sul comportamento esteriore di una serie di categorie umane. […] Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici.

Io penso che essa non sia altro che una capacità sviluppata con tanta pratica ed esperienza, con passione negli studi e tenacia, che si intreccia nel sapersi interessare di tutto e con la voglia di approfondire implicando concetti propri della disciplina e una quantità ingente di tempo. Il percorso accademico è certamente la strada da intraprendere per chi volesse imparare –nel senso di inscrivere- il mestiere di sociologo sino a giungere all’indossare l’habitus dello scienziato sociale. Un percorso, quello dell’università, fatto di esperienze che concorrono alla professionalizzazione del ruolo –dai laboratori sociologici alle feste tra studenti nei campus- che allenano l’occhio fino a rilevare veri e propri fenomeni e poi problemi nel tessuto sociale (alcuni esempi: pari opportunità, economia sommersa, indagini nella gestione della famiglie, indagini nelle carceri, indagini nell’istruzione e così via), mettendo in discussione le altre discipline, oltre che se stessa.

Pur ricordando sempre che una laurea comprensiva del rituale conclusivo con la proclamazione, è capitale culturale istituzionalizzato, un simbolo e assieme un rito di passaggio, sì necessario ma che non debba sistematicamente accreditare un attore sociale come competente e professionista: ecco che in questo senso, ritengo che la definizione debba essere un orientamento e non una coercizione.

Il ruolo di sociologo soffre inoltre di una mancanza di riconoscimento sociale che incide fortemente sull’identità di, oserei dire, chiunque si laurei in Sociologia (classe L-40 e classe LM-88): chi non si è sentito comparare in modo tendenzialmente discriminatorio ai colleghi psicologi? Penso che un’istituzionalizzazione sia necessaria tanto quanto lo sia la società per gli individui e solo continuando a produrre conoscenza e mantenendo una rete comunicativa trasversale inter-accademica sarà possibile auspicare alla trasformazione di valori, pratiche e orientamenti in costruzioni solide e generalmente accettate passando dalla laurea al mercato del lavoro.

Nel frattempo se qualcuno mi chiede chi è il sociologo, mi piace l’idea di condividere ciò che diceva Bufalino, ossia che il sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori; e a questo proposito, con un po’ di ironica provocazione, rimando all’inizio del testo. Giocare con la Sociologia è il primo passo per farla propria.

La ricerca è entusiasticamente aperta

Jessica Levorato, studentessa di Scienze Sociologiche


STIGMA SOCIALE DA CORONAVIRUS: COME NASCE E COME GESTIRLO

<< Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro. […] Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana […] Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità>>. (E. Goffman, 2003, pag. 15).

<<< dott.ssa Federica Ucci

Una delle eredità lasciate dalla pandemia da Sars Cov-2 è quella della “stigmatizzazione sociale” nei confronti delle persone “positive” al virus, di chi è guarito o di chi proviene da quelle che erano state definite “zone rosse”.

Il primo a teorizzare il concetto di “stigma” è stato il sociologo canadese Erving Goffman, il quale descrive la società come formata da contesti che stabiliscono diverse categorie sociali alle quali appartengono gli individui accomunati dalla reciproca condivisione di determinate caratteristiche.

All’interno di questa realtà sociale, le persone vengono “catalogate” anche attraverso una involontaria ed immediata percezione visiva. Ora che è iniziata la fase 2 e gradualmente si sta tentando di tornare a una vita più o meno normale, benché di normale nell’accezione che ricordiamo noi probabilmente resterà ben poco, anche per i contagiati che hanno superato questa esperienza con il Coronavirus è arrivato il momento di reinserirsi nella vita sociale, insieme al resto della popolazione.

Per “stigma” si intende una rottura tra l’identità sociale virtuale e l’identità sociale attuale di un individuo, tra ciò che sembra e ciò che è.

L’identità sociale è basata su un pregiudizio,su ciò che attribuiamo alla persona e sui requisiti fissati che ci permettono di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi (nel fare questo ci fidiamo delle supposizioni fatte senza renderci conto che siamo noi a stabilirle).L’ identità attualizzata è convalidata da evidenze certe e rappresenta la categoria alla quale possiamo dimostrare che la persona appartiene e gli attributi che è legittimo assegnarle.

Lo stigma determina una situazione per cui l’individuo è escluso dalla piena accettazione sociale: si crea una dicotomia tra un “noi” percepiti come normali che non si discostano dai comportamenti attesi e un “loro” che deviano negativamente da questi comportamenti.

La devianza è implicita nel concetto di stigma perché quando una persona si allontana dalle norme imposte che governano la condotta interpersonale all’interno della società, essa viene marginalizzata ed etichettata in maniera differente dal resto del corpo sociale.

In queste settimane di emergenza, l’utilizzo di parole e di comportamenti che sembrano evidenziare che l’infezione non riguardi tutti, ma solo chi ne è toccato in prima persona ha fatto emergere stereotipi che hanno condotto alla ghettizzazione delle persone collegate con la malattia.

Ed ecco che lo stigma sociale da pandemia ha fatto materializzare in maniera visibile una minaccia invisibile che da subito ha tenuto in scacco l’essere umano, soprattutto attraverso la paura di ciò che gli è oscuro.

Oscuro e per questo ancora più sinistro.

Nella nostra mente quando percepiamo che una persona possiede un attributo che la rende diversa dalle altre, essa viene declassata, stigmatizzata appunto, perché l’attenzione si focalizza su questo attributo “negativo” a discapito di tutti gli altri attributi potenzialmente positivi in suo possesso.

Verso l’individuo che porta lo stigma sociale si attuano discriminazioni, inoltre avendo egli le stesse credenze degli altri riguardo all’identità, può convincersi di non essere normale e di non avere gli attributi richiesti. Dalla conseguente vergogna si originano diversi comportamenti per fronteggiare questa situazione, come una tendenza alla vittimizzazione, tentativi di correzione dei comportamenti non desiderabili oppure servirsi dello stigma per ottenere vantaggi secondari.

I momenti in cui “noi” e “loro” si trovano nella stessa situazione sociale si definiscono “contatti misti”, l’anticipazione di questi contatti può portare le persone normali e gli stigmatizzati ad organizzarsi in modo da evitarli: lo stigmatizzato sentendosi insicuro riguardo a come i normali lo identificano diventa dubbioso su cosa gli altri pensino davvero di lui. Quando la caratteristica per cui è screditato è evidente, inizia a considerare la compagnia dei normali una violazione alla propria intimità con conseguente chiusura in se stesso oppure con ostilità provocatoria. Le persone normali sono ugualmente a loro volta a disagio perché mostrando eccessiva comprensione potrebbero rischiare di essere invadenti o di offendere chi porta lo stigma oppure dimenticando la sua diversità possono arrivare a pretendere troppo oppure a ferirlo.

Nella nostra società l’ “essere con qualcuno” in certe circostanze sociali condiziona in termini di informazione l’identità sociale di coloro con i quali l’individuo si trova in compagnia, soprattutto quando lo stigma è particolarmente evidente. In un ambiente percepito come ostile, dove il linguaggio stesso diventa troppo metaforico e addirittura iperbolico, alcune persone potrebbero essere indotte anche a non chiedere assistenza sanitaria per non essere discriminate e perdere il proprio status.

Questo tipo di comportamento può rientrare nel tentativo spiegato da Goffman di adottare strategie per fronteggiare la classificazione negativa. Quando queste strategie falliscono o si rivelano impraticabili lo stigmatizzato cerca categorie sociali che si mostrano comprensive nei suoi confronti, in particolare il proprio gruppo, che possiede il proprio attributo stigmatizzante, il gruppo dei saggi, ovvero persone “normali” che per motivi particolari sono comprensive e partecipi azzerando l’autocontrollo dello stigmatizzato e il gruppo empatizzante.

E’ così che,inevitabilmente, la stigmatizzazione si estende a macchia d’olio non solo su chi la vive in prima persona, ma anche sui suoi famigliari, sugli amici e sulla sua comunità. Le conseguenze potrebbero essere, perciò, non solo l’isolamento sociale ma anche più probabilità di diffusione del virus perché scoraggiando la richiesta immediata di assistenza sanitaria può venir meno anche l’adozione di comportamenti volti alla prevenzione.

La gestione dello stigma,oltre che dai fattori fondamentali della società, stereotipi o attese normative rispetto a condotte e caratteri, è influenzata anche dalla conoscenza dell’identità personale dello stigmatizzato, che permette di differenziarlo da tutti gli altri attraverso una storia continua di fatti sociali ai quali si ricollegano fatti biografici. Lo stigma riguarda l’identità sociale, mentre ciò che l’individuo ha fatto ed è in grado di fare riguarda l’identità personale. Tuttavia, sebbene i contatti interpersonali tra estranei siano quelli particolarmente soggetti a reazioni stereotipiche, non è detto che la familiarità, caratterizzata da rapporti più stretti che dovrebbero incoraggiare comprensione, solidarietà e giudizio realistico riesca ad evitare lo svilimento. Infatti, le persone più intimamente vicine allo stigmatizzato possono irrigidirsi allo stesso modo degli estranei fino ad arrivare a vergognarsene o a prenderne le distanze con conseguente isolamento anche affettivo all’interno dello stessa abitazione.

In questa fase così delicata di ritorno alla società, l’importanza dell’intelligenza emotiva risulta essere ancora una volta strategica per creare un clima in cui lo stigma possa indebolirsi, iniziando a fare attenzione anche al linguaggio utilizzato per raccontare o parlare di questa epidemia che ha sconvolto la vita postmoderna.

E’ importante che nell’ambito del counseling professionale si inizi a stimolare nelle persone l’attitudine al sostegno psicosociale del prossimo, in modo da “educarle” alla tolleranza e alla consapevolezza che il COVID-19 è una nuova malattia, non è un “caso isolato” o “sospetto” e chi ne è stato toccato è una persona che potrebbe averlo o lo ha contratto e non un bersaglio a cui attribuire una colpa.

La capacità di immedesimarsi nell’altro permette di allenare le proprie competenze relazionali ed empatiche per sintonizzarsi emotivamente alla giusta distanza, senza identificarsi eccessivamente o al contrario essere troppo distaccati.

Abbandonare il linguaggio bellico e apocalittico avendo cura di informarsi solo attraverso fonti scientifiche e attendibili, cercare di concentrarsi di più sulla condivisione delle misure di prevenzione per continuare a proteggere le persone più vulnerabili e supportare le attività in grado di creare un ambiente positivo di solidarietà e contrasto alla diffusione di comportamenti emarginanti è oggi più che mai indispensabile per porre delle basi più stabili alla ricostruzione della nuova vita post pandemia.

Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa Specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali

Bibliografia:

“Stigma. L’identità negata”, E. Goffman, 2003, Ombre Corte Editore.“Guida per prevenire e affrontare lo stigma sociale associato a Covid-19”, traduzione italiana di “Social Stigma associated with COVID-19” prodotto da IFRC (International Federation of Red Cross, and Red Crescent Societies), Unesco e WHO, a cura dell’Organizzazione Mondiale della sanità, 2020.


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