Da breve periodo l’ASI (Associazione Sociologi Italiani) ha istituito la rubrica “Il filo di Arianna” promossa e trattata dallo sportello di Counseling Sociolistico costituito da professionisti competenti nel settore sociologico e psicologico. La rubrica, sin dai suoi primissimi arbori ha riscontrato considerevole acclamazione fra il pubblico telematico del social network Facebook, in virtù in particolare della molteplicità di tematiche trattate afferenti al contesto bio/psico-sociale.
<<=== dott.ssa Francesca Santostefano
Ebbene, durante i vari appuntamenti, è stata approfondita una tematica concernente un ambito a mio malgrado difficilmente conosciuto, in particolare ignaro ad enti o associazioni le quali operano nel settore no profit, ossia i gruppi di auto mutuo aiuto. Innanzitutto la collocazione da un punto di vista storico dei gruppi di auto mutuo aiuto è avvenuta durante la metà del ventesimo secolo, peraltro la nascita di tale fenomeno coincide con la fase di consolidamento del “Welfare State” (complesso di politiche pubbliche messe in atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini, modificando in modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso.
Il welfare comprende pertanto il complesso di politiche pubbliche dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. L’espressione «Stato del benessere», entrata nell’uso in Gran Bretagna negli anni della Seconda guerra mondiale, è tradotta di solito in italiano come Stato assistenziale (che ha però sfumatura negativa) o Stato sociale. Secondo A. Briggs, gli obiettivi perseguiti dal welfare sono fondamentalmente tre: assicurare un tenore di vita minimo a tutti i cittadini; dare sicurezza agli individui e alle famiglie in presenza di eventi naturali ed economici sfavorevoli di vario genere; consentire a tutti i cittadini di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istruzione e la sanità. Definizione di carattere più generale è quella formulata da I. Gough, il quale indica il welfare come «l’uso del potere dello Stato volto a favorire l’adattamento della forza lavoro ai continui cambiamenti del mercato e a mantenere la popolazione non lavorativa in una società capitalistica. Fonte www.treccani.it/enciclopedia/welfare-state) e la cui genesi risale alla fine dell’800 caratterizzata dall’estensione della copertura assicurativa contro i rischi sociali.
Altresì l’origine dell’auto mutuo aiuto si colloca in un contesto politico e sociale che sperimenta l’intervento attivo degli stati nazionali in ambito sociale e il loro impegno nell’erogazione di tutele e servizi. Vengono individuate tre macro fasi del fenomeno dell’auto mutuo aiuto: la prima fase va dagli anni ‘30 agli anni ‘60 rivolgendosi propriamente in un contesto americano in cui avviene una sorta di prima esperienza di auto mutuo aiuto formalmente riconosciuta ossia quella degli alcolisti anonimi del 1935; la seconda fase si apre sul finire degli anni ‘60 e si conclude nel decennio degli ’80, ove tale fenomeno si espande anche da un punto di vista territoriale in quanto avviene una sorta di declino e crisi delle politiche sociali che dimostrano di non essere adeguate ai bisogni della popolazione. La terza ed ultima fase storia che si apre nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, i gruppi di auto mutuo aiuto divengono veri e propri attori del terzo settore e della società civile ove si costruiscono network e reti di coordinamento legato senza alcun dubbio ad una sorta di “ricalibratura” del welfare state. Inquadrato il fenomeno da un punto di vista storico la domanda cui ci si pone è la seguente: “Ma cosa sono i gruppi di auto muto aiuto ed in cosa consistono soprattutto”? I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto (o self-help) sono piccoli gruppi volontaricostituiti da persone che condividono lo stesso disagio e/o problematica e che decidono di offrirsi supporto reciproco (“mutuo aiuto”) e di farlo contando sulle proprie risorse piuttosto che su quello di professionisti esperti (“auto-aiuto”).
Sono di solito formati da pari che condividono condizioni o esperienze
comuni e si strutturano intorno ad una situazione problematica condivisa
da tutti.
Il loro obiettivo è il sostegno emotivo con lo scopo di
migliorare le capacità sia psicologiche che comportamentali dei
partecipanti. I gruppi di self-help non solo offrono supporto a coloro che ne necessitano ma
restituiscono alla persona una competenza, un senso di sé, un ruolo e al
contempo costruiscono nuovi legami tra le persone.
I gruppi di self-help si autogestiscono seguendo
un sistema condiviso di obiettivi, regole, valori.
Il loro scopo è quello di fornire aiuto e supporto ai suoi
membri nel trattare i loro problemi e nel migliorare le loro capacità
psicologiche e comportamentali.
La fonte
d’aiuto primaria è costituita dalle capacità, conoscenze e
interessamento dei suoi stessi membri.
Sono composti da
persone che condividono un nucleo comune di esperienze e di problemi o una
simile situazione di disagio.
Non
è presente un controllo esterno: la struttura e le attività del gruppo sono sotto il
controllo degli stessi membri. C’è assenza di ruoli tecnici e rigidi.
Occasionalmente può essere richiesta la consulenza o la supervisione di
esperti. La forza dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto risiede nei
processi che si attivano al loro interno.
Identificazionecon i pari e con i gruppi primari di riferimento.
L’interazione all’interno del gruppo
permette di acquisire nuovi
strumenti conoscitivi che abilitano a leggere e interpretare i
problemi in modo nuovo, mentre incrementano la creatività e l’autonoma
soluzione dei problemi da parte dei membri.
L’appartenenza al
gruppo in quanto affermazione di un’identità aumenta l’accettazione del soggetto, riabilitando contemporaneamente la
sua collocazione sociale.
Principio dell’helper: chi aiuta riceve egli stesso un aiuto principio sussidiario.
Condivisione dell’esperienza, che attiva un duplice processo di destrutturazione e
di ricostruzione.
La destrutturazioneavviene in tre fasi:
Riconoscimentodel problema attraverso la definizione del problema reale.
Condivisionedi informazioni e di strategie di soluzione del problema e delle difficoltà
ad esso connesse.
Destigmatizzazione, cioè il tentativo di
eliminare l’etichettamento sociale percepito dai membri.
La ristrutturazione riguarda tutti i processi e le attività
finalizzate al raggiungimento di una nuova definizione di sé e di nuovi stili
di vita soddisfacenti.
Tipologie
di Gruppi di Auto Mutuo Aiuto
Esistono diversi tipidi Gruppi di Auto Mutuo Aiuto.
Gruppi per il controllo del comportamento: sono composti da persone che vogliono eliminare o controllare alcuni loro comportamenti problematici (ad esempio gli Alcolisti Anonimi).
Gruppi di portatori di handicap o malattie croniche.
Gruppi di parentidi persone con problemi gravi,
Gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi: per cambiamenti improvvisi negativi (es. un lutto) o positivi (es. nascita di un figlio) o per un cambiamento previsto ma che incide sulla propria identità (es. pensionamento).
Inoltre sono condotti da enti privati riconosciuti, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e gruppi di self help, cooperative sociali, fondazioni sociali ed associazioni di promozione sociale. I gruppi possono essere costituiti da persone le quali soffrono di dipendenze (alcoliche, tossicodipendenti, tabagismo, dipendenze dal gioco), o da coloro i quali vivono un particolare disagio sociale (lutti, esclusione sociale, casi di violenza) ed infine anche per quanto riguarda i degenti vi è un particolare riguardo, per chi soffre di disturbi di ansia e depressione. Al gruppo chi vi può partecipare? Le persone accomunate dalla stessa condizione ma anche esistono gruppi solo per i bambini e gli adolescenti figli dei membri del gruppo o gruppi per soli familiari. L’interazione comunicativa è fondamentale all’interno di questi gruppi ove avviene una sorta di Focus Group molto acceso, ognuno parla della propria esperienza, del proprio vissuto, cerca di mettersi a nudo in modo da liberarsi del mostro interiore il quale lo attanaglia, le catene a cui è legato. Il gruppo si dispone a cerchio e vi è un conduttore (un professionista quale psicologo, psicoterapeuta, sociologo, counselor)l’inizio di questi incontri è eterogeneo fra di essi, le modalità variano a secondo in primis delle esigenze dei partecipanti e alle modalità di organizzazione sancite dal professionista in questione. Ovviamente il professionista deve essere un esperto del mondo dell’aiuto relazionale “sociolostico” della persona, ad esempio laconsulenza sociolistica fornita dai sociologi è: ASCOLTO, COMPRENSIONE, AIUTO. Il Counselor cerca di aiutare il soggetto a rimettere al centro le proprie potenzialità per far fronte alle difficoltà quotidiane. Il Counselor è “OLISTICO” poiché appunto considera il soggetto nella sua totalità secondo il nuovo approccio salutogenico, e “SOCIO” perché si concentra in particolare sull’aspetto relazionale con un metodo afferente alla sociologia e alla psicologia sociale.
Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Barbuto F., Gruppi di auto mutuo aiuto, cosa sono
Giarelli G., Nigris D.,
Spina E. La sfida dell’auto mutuo aiuto.
Associazionismo di cittadinanza e sistema socio sanitario, Carocci Editore,
Roma.
L’idea di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è tornata ad alimentare le illusioni degli abitanti di quest’area strategica del Mezzogiorno. Ad ipotizzare la realizzazione della grandiosa opera, ancora una volta, è stata la politica che da sempre la utilizza come un Cavallo di Troia per ingannare quanti vedono nel ponte una grande occasione di sviluppo.
Un’ipocrisia che nasconde gli interessi della classe dirigente delle aree sviluppate del Paese che temono di vedere spostato l’interesse nazionale e mondiale dal Nord al Sud della Penisola.
C’è da dire che una seria riflessione sull’utilità del Ponte, nei giorni scorsi, l’hanno avviata gli imprenditori siciliani e calabresi della Confindustria che, in un dossier, ne hanno spiegato gli effetti positivi sull’economia e l’occupazione dell’intero Mezzogiorno. Ma la politica dominante improvvisamente è diventata sorda e afona.
<<== Natale Mazzuca – Unindustria Calabria
Non sembra una forzatura chiedersi se tra i 187 grandi progetti all’esame del Governo Conte compaia o meno il Ponte ed altre grandi infrastrutture per le zone marginali del Paese. Capiamo che nel Governo, costretto a “tirare a campare”, non si vuole scontentare la componente contraria alla realizzazione delle grandi opere (per esempio la Torino – Lione). Ma non tenere conto degli interessi complessivi del Paese è un atto di pura follia.
La presenza del Ponte, ne siamo certi, invoglierebbe milioni di persone a preferire le località balneari siciliane e calabresi rispetto, se non a tutte, ad alcune tradizionali mete dell’Adriatico e del Tirreno. ll grande collegamento diventerebbe anche un catalizzatore di investimenti internazionali e un luogo di grande attrazione turistica. Forse anche per questo, quando stava per diventare realtà, è stato fatto “crollare” prima dell’inizio dei lavori. Una decisione politica, sostenuta da potenti lobbies che in questo Paese decidono cosa bisogna fare o non fare, che in questo caso ha prodotto un miliardario spreco di risorse economiche oltre che umane.
La mancata realizzazione del manufatto stabile tra le due sponde dello Stretto è stato un atto politico che ha visto protagonisti sia il Parlamento (2011) sia il Governo Monti (2012) mentre la pietra tombale è stata posata 15 aprile 2013 quando il Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca, con un decreto, ha posto in liquidazione, con la nomina di un commissario, la società Stretto di Messina S.p.A.
Anche questa decisione fa parte dei misteri dell’Italia Repubblicana: nessuna responsabilità e nessuno sarà chiamato a pagare. E come spesso accade quando a vincere sono le lobbies occulte, i protagonisti di quella stagione sono stati messi da parte. Ricordiamo Pietro Ciucci e non solo lui, ma anche il senatore Nino Calarco.
Il deficit infrastrutturale, in particolare, nel settore dei trasporti e delle reti telematiche, rappresenta un ostacolo alla crescita socio -economica di interi territori. Ecco perché gli industriali siculo -calabri sottolineano che “la decisione di realizzare un attraversamento stabile nello Stretto di Messina è vitale per l’economia, strategica per gli investimenti pubblici e privati, che sono alla base della crescita economica e dell’occupazione”. Ed aggiungono: “La dotazione infrastrutturale nel settore dei trasporti è la spina dorsale dello sviluppo, fondamentale per rimuovere i vincoli della crescita”.
Nulla è cambiato dall’epoca della “Freccia del Sud”, della valigia di cartone, della fuga dei migliori cervelli. Oggi i nuovi convogli – che nel centro nord sfruttano le caratteristiche strutturali dell’alta velocità- da Milano e Torino impiegano ancora troppe ore per raggiungere Reggio Calabria. I treni ci sono, ma c’è anche l’inadeguatezza della linea ferrata. Ma c’è di più. Un’alta percentuale di viaggiatori che prendono posto sulle frecce Rosse o Bianche o su Italo da Sapri fino a Reggio soffre maledettamente il mal di treno. Immaginiamo una Ferrari costretta a percorrere una vecchia provinciale il cui tracciato risale al regno Borbonico.
Eppure
questa mendace novità viene spacciata come una grande conquista, una
rivoluzione del trasporto pubblico, un grande regalo agli italiani del
Mezzogiorno. Ipocrisia di un sistema fondato sugli inganni, sulla corruzione,
sulle diseguaglianze e sulle promesse.
Al
Mezzogiorno, solo piccoli interventi di maquillage, mentre le grandi opere di
ingegneria sociale, propedeutiche allo sviluppo del territorio, in prevalenza,
rimangono delle incompiute o, nel migliore dei casi, finite a metà (l’A3
docet!).
La cantierizzazione rimane sulla carta, mentre, ed è storia recentissima, la decisione di far ripartire i lavori del tratto della SS 106 che porta in Puglia, si è trasformata in occasione per indossare il doppio petto, per le comparsate televisive, i post sui social e i titoloni sui giornali.
Fumo negli occhi: un vecchio trucco per impedire la rivolta dei poveri. I quali, ammaliati dai populisti di turno, concedono il consenso elettorale a chi riesce meglio nell’arte di demonizzare gli avversari, i governanti in carica. Non basta denunciare le ingiustizie, farsi paladini dei bisogni del cittadino pur sapendo che si tratta di propaganda, di populismo e, soprattutto, di onesta intellettuale.
Destra, sinistra, centro, movimenti, liste civiche: protagonisti della commedia degli inganni. E così cambiano gli schieramenti, ma il Mezzogiorno non cambia volto. E come dice il nostro amico Otello Profazio: “Qui si campa d’aria”.
Il Mezzogiorno oggi è interessato sia alla diminuzione delle nascite sia all’ emigrazione: fenomeni che entro due/tre decenni potrebbero dare vita a preoccupanti forme di desertificazione. Secondo lo Svimez, il Sud è alle prese con una “Trappola Demografica”.
Dal 2000 ad oggi -riportano nel loro dossier gli imprenditori calabresi e siciliani- “hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti: la metà giovani fino a 34 anni, quasi un quinto laureati. Il meridione rischia di spopolarsi e questo crollo demografico ha un costo, stimato a oltre un terzo del Pil. Parallelamente alla fuga dal Mezzogiorno cresce il gap occupazionale tra il Sud e il Centro – Nord, che nell’ultimo decennio è passato dal 19,6 al 21,6%. In totale il Sud si ritrova 3 milioni di posti di lavoro in meno rispetto al resto d’Italia. Analogamente – si legge ancora nel dossier – la qualità del lavoro peggiora da Roma in giù. Al Sud aumenta la precarietà che si riduce invece nel Centro -Nord, ma cresce il part-time (+ 1,2%), in particolare involontario, che nel meridione raggiunge l’80% rispetto al 58% del Centro -Nord”.
La
mancanza di infrastrutture di base e la presenza della ‘ndrangheta, diciamocelo
senza infingimenti, sono solo alcuni dei tanti alibi per mantenere lo status
quo di un Paese a due velocità. Tutto
ciò fa comodo alla politica dominante alla quale spetterebbe il dovere di
eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo di determinate aree
dall’atavica arretratezza. Eppure queste realtà geografiche, ricche di storia,
di tradizioni e di incomparabile bellezza, già prima dell’Unità d’Italia furono
destinate a rimanere un grande serbatoio di braccia, funzionali alla ricchezza
delle regioni nordiche.
La convinzione che per ogni cantiere che si apra trarrebbe vantaggio solo la malavita organizzata (il che è maledettamente vero, ma al “magna magna”, direttamente o in modo indiretto, partecipano tutti) è un atto di sfiducia, un’accusa nei confronti dello Stato: incapace di garantire legalità e giustizia, di difendere la libertà di impresa e di esercitare la forza per garantire la democrazia.
Gli italiani del Mezzogiorno sono stanchi dell’immobilismo della “paura”: repertorio di quelle forze politiche e sociali che da un lato condannano e dall’altro magari fanno affari con l’antistato.
I santuari della ‘ndrangheta, già prima della globalizzazione, sono stati trasferiti al Nord dove operano i colletti bianchi della finanza e dove vengono prese le grandi e inappellabili decisioni rispetto alle quali, la manovalanza delle “locali” deve solo obbedire.
A condannare il Sud contribuiscono anche gli stereotipi negativi, le narrazioni che le forze indigene non hanno la forza, e forse neanche la volontà, di cancellare ricorrendo a nuovi paradigmi socio-culturali. I fenomeni sociali hanno un’origine e una fine. E non è certo utopia sperare in un’Italia libera dal condizionamento mafioso. L’origine del fenomeno è conosciuta, ma la fine non arriva per quel sottile confine tra politica e ‘ndrangheta, tra mafia e antimafia.
Anche di fronte alla drammatica eredità lasciata dal coronavirus, il Paese si è ulteriormente diviso tra chi governa e chi invece aspira a governare. Altro che unità come invoca il Presidente Mattarella. Dopo i morti per la pandemia e i gravissimi danni socio-economici stiamo assistendo al festival di “chi la spara più grossa” con uno spezzatino di interventi tampone che stanno provocando proteste, delusioni in quasi tutti i segmenti della vita sociale ed economica.
Si fa a gara per polverizzare le risorse attualmente disponibili: strategia che fa da collante al precario equilibrio della maggioranza. Che Iddio li perdoni. Così facendo si sprecheranno anche le risorse che, prima o poi, giungeranno dall’Unione Europea.
Il Sud – non ci stanchiamo di ricordare – necessita di grandi opere in grado di modernizzalo e renderlo competitivo nel contesto nazionale e internazionale. Risorse che non vanno spese per le realizzazioni di altre cattedrali nel deserto che, soprattutto nel Mezzogiorno, rimangono delle ferite inguaribili. Dagli stati generali di Villa Pamphilj non sono emerse grandi novità, ma alcuni spifferi, come la proposta di una “Diagonale del Mediterraneo, linea ferrata ad alta velocita da Brindisi a Napoli”, evidenziano come Calabria e Sicilia saranno ancora una volta tagliate fuori dai collegamenti veloci su rotaia.
Ancora una volta si rischia una guerra tra poveri.
È vero: oggi, mancano le risorse ( o sono ancora sulla carta) e le promesse non spengono i focolai di malcontento che in autunno potrebbero diventare incendi devastanti. Basta dire la verità e gli italiani capiranno.
Un
discorso a parte merita la politica europea che continua a considerare la
solidarietà un optional e non tiene conto degli effetti devastanti che sta
producendo questo invisibile e potente nemico chiamato Covid-19. Quante travi nell’altrui occhio…
Nel luglio del 2017 la commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi si è recata a Trento. Il principale oggetto di preoccupazione e di discussione è stato il mondo del porfido trentino. E’ proprio all’interno di questo importante settore economico che si è verificato uno degli episodi di cronaca più brutali ed efferati che siano successi in questa regione negli ultimi anni, ovvero il pestaggio dell’operaio cinese Hu Xupai, “colpevole” di voler essere pagato per il lavoro svolto in cava, ad opera di 2 macedoni.
<<== dott. Alberto Marmiroli
Che il settore del porfido non fosse dei più
tranquilli, però, probabilmente lo si era capito già nella seconda metà degli
anni ’80. Nel 1986 a Lona-Lases la lista civica guidata da Vigilio Valentini
vince le elezioni, come primo atto il neosindaco decide di raddoppiare i canoni
di cava.
La cosa evidentemente non deve essere
piaciuta a qualcuno, visto che al suo assessore con delega alle cave viene
prima fatta esplodere una carica di tritolo di 12 kg a pochi metri da casa e
poi successivamente, durante un consiglio comunale, gli viene anche dato fuoco
alla macchina.
Che via sia la mano della ndrangheta dietro a questi fatti? Una parziale risposta a questo interrogativo prova a darcela un ex lavoratore del porfido:“I metodi usati non sono tipici di paesini del nord. Non si erano mai visto in questi paesi, né mai si vedranno dopo. E’ un po’ un metodo pericoloso, che si spingeva al di là della normale intimidazione, pressione che di solito si aveva in queste valli. Perciò quello fa sospettare che qualche dritta fosse arrivata da qualcuno che invece in quei lavori c’era abituato. (…) Quei fatti avvenivano dentro una cornice intimidatoria che era ben più vasta, praticamente vari consiglieri comunali che sostenevano la maggioranza Valentini, subivano, ma addirittura giornalmente, minacce telefoniche con telefonate anonime durante la notte, lettere anonime, minacce aperte da qualche cavatore sulle strade”.[1]
Le cave di porfido in Trentino sono ubicate tutte all’interno di piccoli Comuni con una bassa densità abitativa. Il numero delle persone che vivono all’interno di un Comune è importante perché meno elevato sarà il loro numero, inferiore sarà il controllo del territorio e il numero di forze dell’ordine predisposto a presidiarlo. Questo è uno dei motivi per il quale questi luoghi sono i preferiti della ndrangheta, dato che sono inoltre facilmente espugnabili da un punto di vista “militare” e politico, dal momento che bastano pochi voti per avere un proprio rappresentante in Consiglio comunale. Il caso di Brescello (microscopico Comune ubicato in Emilia e sciolto nel 2016 per infiltrazione mafiosa) è emblematico sotto questo punto di vista.
Analizzando le interviste emerge che chi
lavora come operaio in questo settore è nella stragrande maggioranza dei casi
straniero e ha un’età abbastanza avanzata, circa 55 anni. Ciò ha portato ad
alcuni problemi. Chi viene dall’estero e ha una scarsa scolarizzazione è
difficilmente sindacalizzabile, dato che non riesce facilmente a capire non
solo quali siano i suoi diritti, ma nemmeno la lingua italiana, inoltre, anche
per via dell’età, è poco spendibile in altri mestieri, e quindi è costretto a
rimanere per forza di cose in questo settore. Caso emblematico sul potenziale
livello dello sfruttamento della manodopera straniera che vi può essere
all’interno di questo settore è quello di Hu-Xupai, un lavoratore cinese
massacrato di botte all’interno della cava perché chiedeva di essere pagato per
il lavoro svolto.
Questo caso è ovviamente estremo e non la
regola, tuttavia può forse aiutarci a capire perché all’interno delle cave
tutti gli intervistati abbiano parlato apertamente di un clima pesante e di
considerevoli livelli di paura fra i lavoratori. Secondo tutti gli intervistati
all’interno delle cave è difficile eleggere un rappresentante sindacale. I
lavoratori preferiscono non esporsi per timore di avere delle ripercussioni.
Il fatto che questo settore sia a basso
livello tecnologico, con una manodopera poco specializzata e prevalentemente
straniera e quindi con una “forma mentis” diversa rispetto a quella che avrebbe
un trentino normalmente sindacalizzabile, ci riporta a quanto successo in
Emilia ed emerso con forza dalle carte del processo Aemilia. Quanto avvenuto
alla Bianchini SRL ne è la dimostrazione più lampante. In quel caso i
lavoratori formalmente ricevevano uno stipendio molto buono, comprensivo di
buoni pasto, pagamento di contributi, vacanze, assicurazione sul lavoro, paga
ecc, ma, come abbiamo potuto constatare, la realtà alla fine era ben diversa.
Essi avevano conoscenza di chi fosse il loro “datore di lavoro” e proprio per
questo accettavano lo sfruttamento. I calabresi della Bianchini o ancora prima
quelli che erano a Reggio Emilia già negli anni ’70 e che lavoravano a cottimo
alle dipendenze del padrone locale per sole 5mila lire al giorno, ricordano per
certi versi i lavoratori del porfido stranieri. Essi infatti non potevano
rivolgersi al sindacato, inoltre, conoscendo bene la propria situazione di
fragilità e le possibili ripercussioni accettavano di essere sfruttati, perché
in quel momento quella situazione era l’unica che potesse dare un futuro a loro
stessi e alla loro famiglia. I lavoratori stranieri, allo stesso modo, hanno
bisogno di lavorare per poter veder rinnovato il proprio permesso di soggiorno,
e questo li porta anche ad accettare possibili situazioni di ricatto.
Dalle interviste è emerso che vi sono stati casi in cui i lavoratori non sono stati pagati per mesi o addirittura per anni, ricevendo solamente degli acconti. Il poter controllare un settore economico che permette di dare lavoro e poterlo gestire in questo modo crea potere e capitale sociale, quindi di fatto le condizioni ideali per un’infiltrazione mafiosa. Infatti, analizzando le interviste raccolte emerge che qui ricattare un lavoratore è più facile che altrove, dato che, visto il basso livello di specializzazione, esso è facilmente sostituibile, ma anche perché, essendo straniero, ha appunto necessità di lavorare per vedersi rinnovato il proprio permesso di soggiorno. Non è la tecnologia a fare la differenza, ma è la forza lavoro degli operai. Quindi, facendo un discorso ipotetico, se vi fosse qualcuno capace di cercare e trovare persone disposte a farsi sfruttare pur di avere uno stipendio, anche minimo, avrebbe un evidente vantaggio competitivo, e questa ad oggi è una delle specialità della ndrangheta.
IL CASO DI HU-XUPAI
Durante le interviste ho posto una domanda a
due membri di un sindacato che si occupa della tutela dei lavoratori anche nel
mondo del porfido sul caso di Hu-Xupai. Essi non hanno saputo rispondere in
maniera precisa, entrambi conoscevano l’accaduto, ma solo superficialmente.
Questo fatto, può probabilmente farci capire
ancora di più quanto sia forte la distanza fra lavoratori del mondo del porfido
italiani (oramai pochissimi) e iscritti al sindacato, e la moltitudine degli
altri manovali, stranieri, in molti casi semianalfabeti, poveri e quindi
facilmente sfruttabili.
Ovviamente ad oggi non possiamo parlare con
certezza di mafia, ma al massimo tentare di capire se questo settore possa
essere attrattivo per le cosche di ndrangheta. Analizzando i materiali
disponibili, pare che questo settore possa avere caratteristiche particolarmente
interessanti sotto questo punto di vista.
Una spia potrebbe essere data dal grande livello di
contiguità che vi è fra personalità del mondo del porfido e amministratori
locali. In alcuni casi abbiamo gli stessi imprenditori del porfido che sono sia
arbitri che giocatori, o per dirla in un modo più formale, controllori e
controllati. E’ questo uno dei problemi principali, se non il principale
problema, che vi è in questo settore.
E’ il costo dei canoni delle cave il nodo cruciale da cui parte tutto, chi lo decide?
Questi piccoli Comuni devono convivere con l’enorme peso politico ed economico dei cavatori. Essi sono prevalentemente i discendenti di coloro che negli anni ’60 diedero il via a questa industria, che però non gode di un sufficiente livello di liberalizzazione e circolazione nel possedimento di queste concessioni. “I concessionari erano loro nel 1964, nel 1989, erano loro nel 1998 e sono loro anche oggi”[2] sostiene un intervistato che all’interno di quel settore ha lavorato per molti anni.
Ma come è possibile? Il fatto è che sono i
Comuni stessi a gestire queste concessioni, ed essi a loro volta non sono quasi
mai amministrati da persone super partes, ma anzi, sono i cavatori stessi, o
loro fratelli, cugini o parenti che nella stragrande maggioranza dei casi
gestiscono queste amministrazioni.
Questa forte commistione fra politica e mondo del porfido potenzialmente potrebbe dare vita ad una gestione clientelare e non trasparente del patrimonio comune, come dovrebbero essere le cave di porfido. Fra i diversi Comuni infatti, vi possono essere anche grosse differenze nel costo dei canoni delle cave, anche a seconda se chi li amministra abbia o meno interessi nel mondo del porfido. Un esempio molto eloquente è il caso di Lona-Lases e Albiano, a sostenerlo è un intervistato ex sindaco proprio di Lona Lases. “Te devi pensare che noi fra l’altro tra l’85 e il ’95 avevamo dei canoni di cava molto alti no? Abbiamo calcolato che se Albiano che è il più grosso, devi pensare che Albiano da solo ha il 45-50% del porfido, è il Comune più grosso. A quei tempi, abbiamo calcolato che se il Comune di Albiano avesse adottato il canone di Lona-Lases in 10 anni avrebbe recuperato 20 miliardi di lire, che invece che andare all’utilità dei cittadini di Albiano sono andati nelle tasche degli imprenditori”. [3]
Pare essere effettivamente questo uno dei principali, se non il principale problema di questo settore a sostenerlo è anche un sindacalista con delega alle cave di porfido “Nel momento in cui addirittura ci sono stati dei sindaci che avevano delle cave, come fai ad essere sindaco ed avere delle cave? Non puoi essere sindaco ed avere delle cave. Come fai a tutelare il bene pubblico e nel contempo sei controllore e controllato. E’ lì il problema delle lobby più che altro e delle cave che dovrebbe essere risolto, il conflitto di interessi “[4]
Ma è davvero così diverso il valore di
mercato del porfido rispetto a quanto chiesto dai Comuni? A questa domanda
forse abbiamo avuto risposta nel 1994. All’epoca la giunta Valentini a Lona
-Lases, che già aveva canoni superiori rispetto alla media, revoca una
concessione e la mette all’asta ad un prezzo più alto del normale. Essa verrà
venduta con un rialzo del 211%.
Sono il costo dei canoni e la durata delle
concessioni i due veri nodi da sciogliere per rendere questo settore meno
attrattivo per la ndrangheta. Essi fra l’altro sono fortemente intrecciati, chi
possiede le concessioni riesce a fare in modo che i canoni delle cave costino
poco e contemporaneamente, utilizzando il Comune, ad avere una concessione che
ad oggi pare essere senza fine. Ciò rende il settore di fatto ingessato e
incapace di aprirsi a nuovi soggetti portatori potenzialmente di un nuovo
know-how.
Queste concessioni sono estremamente redditizie, e questo è il motivo per il quale chi le possiede fa di tutto per tenersele ben strette e per impedire che possano essere messe all’asta. Un ulteriore elemento molto interessante emerso durante le interviste è quello della rendita di posizione. Ad oggi infatti vi è un abisso fra quello che sono i canoni pagati dai cavatori e l’effettiva resa del porfido sul mercato.
Questo potenzialmente è un altro indicatore.
Infatti, chi meglio di una organizzazione come la ndrangheta potrebbe
approfittare di una situazione di questo tipo? Per uno ndranghetista infatti,
sarebbe sufficiente mettersi d’accordo con l’imprenditore che, come dimostra il
caso emiliano, è solitamente ben disposto, più di quanto si possa pensare, a
entrare in contatto con persone di questo tipo: le apparenze potrebbero essere
salvate, tutelando così anche il buon nome dell’imprenditore, ricorrendo ad un
prestanome.
Quello della rendita di posizione è davvero un indicatore molto importante. Come abbiamo già visto in precedenza all’interno di questo lavoro, gli ndranghetisti non sono abili imprenditori, ad oggi non vi sono casi di aziende guidate da questi soggetti che siano stati capaci di apportare reale valore al mercato. Essi non potrebbero mai realizzare delle barriere all’entrata difficili da superare per un potenziale competitor in un mercato legale, sfruttando solamente il proprio know-how. Quindi, a fronte di ciò cosa può esserci meglio di una barriera artificiale? Cosa può esserci di meglio di un argine creato e mantenuto dalla politica? Se a questo fatto abbiniamo la loro capacità di “assoldare disperati” ben disposti a lavorare per pochi euro, si capisce bene quanto possa essere facile, potenzialmente, per loro entrare in questo mercato con profitto. Questi nuovi lavoratori assoldati dall’onorata società calabrese potrebbero andare ad aggiungersi alle file di lavoratori stranieri che, secondo gli intervistati, per timore, non si iscrivono al sindacato né lo cercano e che non vogliono esporsi in alcun modo a causa della loro fragilità. Gli ndranghetisti inoltre potrebbero attivarsi anche in campagna elettorale, durante le elezioni comunali o provinciali per procacciare voti a colui che si candida alla guida del Comune o della Provincia. Il loro peso sarebbe ancor più rilevante all’interno dei piccoli Comuni, dove già spostare una cifra minima di voti può risultare decisivo.[5] Certo ad oggi è un pericolo solo potenziale, ma è utile ripeterlo, questo meccanismo è avvenuto in una regione non molto distante dal Trentino e considerata modello sotto molti aspetti come l’Emilia-Romagna.
Molto spesso quando si parla di ndrangheta, si sottolinea l’importanza cruciale e strategica della cocaina come strumenti di accumulazione pressoché infinita di ricchezza e potere, anche se il caso Emiliano l’ha dimostrato, non è per forza vero che sia la polvere bianca la principale protagonista della conquista di un territorio vergine. Eppure, la cocaina compare anche qui, ed anche in grande quantità, a riportate questa notizia, tra gli altri è il “Trentino”. “Quando hanno aperto il container, gli uomini della polizia doganale spagnola hanno trovato la sorpresina. Anzi, la sorpresona. Nascosti tra il porfido c’erano 200 chili di cocaina purissima. Polvere bianca che proveniva dal Sudamerica. Per la precisione da Puerto Madryn, una città della provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. Una città molto conosciuta anche in Trentino, dal momento che molti imprenditori nostrani del settore del porfido hanno installato delle attività proprio in quelle zone. E il mittente del carico che nascondeva i 200 chili di cocaina è proprio una società che fa capo anche a imprenditori trentini del porfido. Imprenditori che in questi giorni stanno tremando”[6]
Ad oggi nessuna delle persone che sono state nominate all’interno di questo lavoro è stata né imputata né arrestata per questo fatto, tuttavia è pressoché impossibile pensare di poter trasportare un carico di cocaina così elevato senza l’accordo o quanto meno il benestare della ndrangheta, quindi questo fatto, come e forse più di altri è chiaramente un indicatore, e ci può dimostrare che vi potrebbero essere delle contiguità e dei rapporti, anche stretti, fra alcuni membri di questo settore e la mafia calabrese.
Le spie accese come abbiamo visto sono tante, e tutte ci portano verso un quadro non dei più rosei. La Commissione Parlamentare Antimafia nel 2018 ha parlato di infiltrazioni mafiose, e se fossimo già oltre? “Con infiltrazione criminale si intende l’inserimento o il coinvolgimento di una persona fisica o giuridica, appartenente o collegata ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso o comunque che agisce al fine di agevolare un’organizzazione criminale di stampo mafioso, in un settore economico lecito di qualsivoglia natura con l’obbiettivo di trarne un vantaggio illecito”[7]
Questa definizione ci può far capire che già
la presenza di Muto in questa regione, per altro arrestato proprio dalla
polizia di Trento nel 2011, può essere un indicatore molto forte ed importante
sulla pericolosità della ndrangheta in questi luoghi già prima del 2018, anno
della pubblicazione della relazione finale della commissione parlamentare
antimafia.
Violenze, di media o elevata intensità,
minacce, potenziale conflitto d’interessi e distorsione del mercato, fragilità
e timore all’interno del mondo dei lavoratori e sullo sfondo preoccupanti
legami con il processo Aemilia, più una partita di cocaina di oltre 200 kg
ritrovata in Spagna all’interno di un carico contenente porfido. Vista da
questo punto di vista, la situazione dell’Emilia e del Trentino potrebbe essere
non molto diversa.
L’Emilia oramai da qualche anno vede sul suo
territorio uno dei più grandi processi di mafia della storia del Nord Italia,
il Trentino invece non presenta, allo stato attuale, particolari inchieste,
anche se, come abbiamo visto, dalle interviste sono emerse potenzialmente
numerose spie che possono farci ipotizzare che fra le due regioni vi siano
svariati punti di contatto.
Entrambi vedono l’epicentro dei loro problemi, veri, come nel caso Emiliano, o presunti come nel caso Trentino, all’interno di piccoli Comuni. In entrambi i casi piccoli Comuni hanno dovuto fronteggiare fenomeni più grandi di loro, Brescello ha avuto i Grande Aracri, una delle famiglie di ndrangheta fra le più potenti al Nord. I piccoli Comuni trentini invece devono legiferare e regolamentare un settore che ogni anno sposta centinaia di milioni di euro, nel 2010 il porfido fatturava 200 milioni di euro.
Il caso emiliano come quello trentino
presenta un palese conflitto di interessi. A Brescello abbiamo visto politici
locali, o addirittura il sindaco avere ottimi rapporti con i Grandi Aracri: Francesco,
numero 1 della cosca al Nord, aveva addirittura svolto dei lavori all’interno
dell’abitazione del primo cittadino, al quale si era anche affidato per
difendersi all’interno di procedimenti giudiziari che lo vedevano coinvolto
come imputato.
In trentino abbiamo visto come effettivamente non vi sia una chiara e netta separazione fra il mondo politico amministrativo dei Comuni, e quello degli imprenditori del porfido. Questi ultimi infatti, in molti casi, hanno ricoperto rilevanti ruoli politici a livello comunale e provinciale. Questo fattore è estremamente importante. La ndrangheta ha sempre cercato contatti con il potere, e qui inoltre potrebbe risultare decisiva. Essa infatti fra le sue skills ha certamente quella di raccogliere voti.[7]In piccoli Comuni come quelli che hanno al suo interno le cave di porfido essa potrebbe risultare decisiva, e ciò potrebbe spingere i candidati alla carica di sindaco a coinvolgerla per il timore di non essere eletti.
Vi è poi un uso della violenza che certamente
non è mancato in nessuna delle due regioni. Infatti, solamente per citare una
piccola parte dei fatti che abbiamo visto, in Emilia abbiamo avuto una enorme
nuvola di fumo che ha avvolto il territorio reggiano, con decine di incendi e
minacce, si pensi soltanto alla minaccia alla consigliera comunale della Lega
Nord a Brescello Catia Silva. O alla lettera intimidatoria mandata al sindaco
di Reggio Emilia, Luca Vecchi, e al prefetto di Reggio Emilia, Antonella De
Miro.
Il Trentino sotto questo punto di vista non è stato da meno. Visto che già negli anni ’80 una carica di tritolo di 12 chili venne fatta esplodere nelle vicinanze della casa di un assessore dell’epoca, colpevole di aver aumentato i canoni, portando un beneficio alle casse comunali, per questo motivo subirà anche l’incendio della sua macchina, proprio durante il consiglio comunale.[8)
Ma non vi sono solo queste violenze.
Recentemente, ovvero nel 2019, Walter Ferrari, fra i portavoce del
Coordinamento Lavoro Porfido (CLP), ha subito un pesante danneggiamento al suo
trattore, strumento fondamentale per il suo sostentamento in quanto lui è un
coltivatore diretto, che l’ha quasi messo fuori uso, altro episodio degno di
nota e che ben spiega la difficoltà che deve affrontare chi si occupa di queste
tematiche, di notte gli hanno aperto la recinzione all’interno della quale
alleva le sue capre. Esse sono scappate e sono stati necessari diversi giorni
di ricerche per ritrovarle. Egli inoltre ha dovuto denunciare delle minacce che
gli sono state fatte a voce e in pieno giorno.[ii]
Quanto successo a Walter Ferrari potenzialmente ben si confà allo stile della
mafia calabrese. Quando si pensa a fenomeni di carattere mafioso solitamente si
è soliti pensare alla mafia di Totò Riina, ovvero un’organizzazione stragista
che faceva saltare in aria magistrati e forze dell’ordine con una ferocia e
un’efferatezza quasi inumana. Leggere e tentare di capire la mafia di oggi
utilizzando questa prospettiva è di quanto più sbagliato ci possa essere.
Questo perché la storia dei Corleonesi è durata un battito di ciglia se
paragonata alla storia complessiva del fenomeno mafioso nel nostro Paese, ma
poi anche perché la ndrangheta è un’altra organizzazione rispetto alla mafia
siciliana. Essa preferisce infiltrarsi in silenzio, poi ovviamente quando non realizza
i suoi affari come vorrebbe è solita rinunciare all’immersione, il caso
emiliano con la lettera di minacce al Sindaco e al Prefetto De Miro ben spiega
ciò, ma vi è dell’altro. La ndrangheta, tolto rari casi, che comunque in
trentino ci sono stati e che abbiamo citato prima, preferisce utilizzare una
violenza di basso livello, di quella che non fa rumore e non finisce sul
giornale. Come mettere 3 kg di zucchero all’interno di un trattore di un
coltivatore diretto e/o aprigli il recinto delle capre in modo che esse possano
scappare.
Che la ndrangheta da sempre sfrutti le
fragilità e le debolezze delle persone per i propri fini lo abbiamo visto nel
dettaglio. In particolar modo il caso emiliano ha dimostrato che sono
soprattutto i corregionali degli uomini delle ndrine i bersagli prediletti. In
questa regione lo sfruttamento andava avanti già dall’inizio degli anni ’70,
per questi soggetti era impossibile veder riconosciuti i propri diritti e
questo non era solamente un problema enorme per loro, che venivano impiegati in
turni lunghi e massacranti con paghe misere, ma anche per tutto il mercato
locale che di fatto veniva alterato, ciò porterà ad una lenta e inarrestabile
sostituzione delle imprese edili oneste, a discapito di quelle vicine alla
cosca.
In Emilia gli uomini della ndrangheta sono
riusciti a realizzare enormi profitti, non tanto con la cocaina, come spesso si
è portati a pensare, ma grazie soprattutto al movimento terra e ai trasporti.
Quelli appena nominati sono solo un esempio, il dato importante che è emerso è
che questi settori in cui la ndrangheta si è infiltrata erano a elevato
sfruttamento della manodopera e a basso livello tecnologico. E’ in questo
ambito che è più facile negare i diritti ai propri lavoratori e poter operare
quindi in una situazione di mercato alterato.
Il mondo del porfido trentino presenta
proprio questa particolarità, ovvero quella di essere un settore simile al
movimento terra. Dalle interviste infatti è appunto emerso che esso è a basso
livello tecnologico e ad elevato livello di sfruttamento della manodopera. Ciò,
potenzialmente, potrebbe permettere un ricambio più facile dei lavoratori, che per
timore di ritorsioni non si espongono e pur di mantenere il proprio posto di
lavoro sono disposti anche a firmare buste paga false.
Nel caso emiliano centrale è la presenza di
uomini calabresi che di fatto daranno il via a tutti quegli atti criminali che
poi porteranno al maxiprocesso Aemilia. Già nel 1970 su suolo reggiano vi è una
organizzazione con queste caratteristiche che si farà chiamare “la mafia di
Cutro”. Per l’arrivo “ufficiale” della ndrangheta, invece dovremo attendere il
1982, anno in cui arriverà Antonio Dragone, inviato al soggiorno obbligato in
provincia di Reggio Emilia.
In Trentino invece, abbiamo tre diverse
famiglie calabresi che, stando alle interviste, dimostrano un certo peso
all’interno sia di questo settore che della politica locale. M.G.N, verrà
condannato a 6 anni e mezzo di reclusione, per estorsione e truffa ai danni dei
suoi operai e del Comune all’interno del quale aveva la concessione. La cosa particolare è che tutte le sue ditte
sono all’indirizzo di residenza di G.B, personalità di spicco all’interno delle
amministrazioni comunali che possiedono le cave di porfido, egli infatti,
assieme a suo fratello P.B, ha ricoperto vari ruoli di responsabilità politica
su queste tematiche. Egli stesso è un cavatore, balzato alle cronache per
affari miliardari compiuti nel porfido sul finire degli anni ’90, e portati
avanti con imprenditori locali estremamente facoltosi. G.B sarà anche fra gli
amministratori della Marmirolo porfidi che fallirà, facendo debiti per svariati
milioni di euro. Marmirolo porfidi che vedeva fra i suoi amministratori anche
Antonio Muto, calabrese anche esso, finito in galera assieme ad altre 124
persone all’interno del processo Aemilia.
In Emilia, come detto, si sta celebrando il
più grande processo di mafia del Nord Italia, a ciò si è arrivati perché per
decenni non si è capito cosa stesse succedendo e non lo si è capito non solo
per incapacità di saper leggere un fenomeno, ma anche per la mancanza degli
anticorpi.
Una cosa che accomunava l’Emilia al Trentino,
fino a poco tempo fa, è la assoluta mancanza di anticorpi su fenomeni di questo
tipo.
Come la letteratura medica ci insegna, infatti, prima
di avere l’anticorpo ad una malattia è necessario averla avuta. Spesso si è
parlato nel caso Emiliano della presenza di anticorpi figli della resistenza.
Mai similitudine fu più sbagliata e fuorviante. In primo luogo, perché fascismo
e mafia sono fenomeni diversi e poi perché appunto la resistenza partigiana
nacque nel 1943, dopo che per 20 anni c’era il fascismo. Proprio su questo
punto molto interessante è un aneddoto che è emerso durante l’intervista a
Paolo Bonacini, ex direttore di Tele Reggio L’ex prefetto di Reggio Emilia
Antonella De Miro, ovvero colei che per prima ha capito la drammatica
situazione in cui versava la città al suo arrivo, durante un confronto proprio con
il giornalista, sostenne di non amare molto quanto fece la resistenza in
Emilia, dato che a suo modo di dire essa si era lasciata andare ad un numero di
atti di violenza superiore a quanto fosse necessario.
Bonacini le rispose invitandola a leggere un suo libro scritto anni prima in cui appunto parlava di questo importante periodo storico. Tempo dopo la De Miro gli rispose questo modo: “Ti chiedo scusa, avevi ragione ma io non so riconoscere il fascismo, voi che lo avete vissuto sulla vostra pelle qua, mentre non c’era il fascismo in Sicilia perché era stata liberata, lo sapete riconoscere al tatto e all’odore ma è esattamente ciò che è successo a me quando sono arrivata su, io che sono esperta di mafia ne ho sentito subito l’odore in provincia di Reggio Emilia e voi invece questo odore non lo sentivate anche se c’era la puzza da quarant’anni.”[9]
Gli anticorpi alla ndrangheta in Emilia
probabilmente potranno iniziare a svilupparsi da ora. L’anticorpo infatti
inizialmente, ovvero quando ancora non si hanno avuti shock, come indagini o
processi importanti, non può esservi non solo per una mancanza oggettiva, come
appunto ci indica la letteratura medica, ma anche perché esso, qualora fosse
presente, sarebbe inibito dallo stigma. Lo stigma è stato certamente presente
nel caso reggiano e ancor di più in quello brescellese. Sono stati infatti
necessari ben 3 anni, per vedere la realizzazione di un evento pubblico in cui
poter parlare liberamente di ndrangheta alla presenza di esperti
dell’argomento. Anche in questo caso non sono mancate frecciate e dichiarazioni
volte a volersi discolpare da quanto accaduto in paese, ma ciò è figlio di un
processo di digestione che sarà ancora lungo, ma che, tuttavia, ha già dato
risultati degni di nota.
Sono davvero molte le spie accese all’interno
di questo settore. Se, mentre guidassi la mia auto, sul display me ne apparissero
un numero così elevato certamente mi fermerei e chiamerei un carroattrezzi.
L’obbiettivo
di questo lavoro non è quello di sostenere che in Trentino o nel settore del
porfido vi sia la ndrangheta, all’inizio del 2020 dire che in questa regione vi
sia la medesima situazione di molte realtà del nord Italia o del caso Emiliano
sarebbe dire il falso, dato che non vi sono stati in passato processi
particolarmente strutturati su queste tematiche. Tuttavia, alla luce dello
studio della letteratura e delle interviste, il mercato del porfido Trentino
per i motivi che abbiamo espresso, pare essere un settore all’interno del quale
si sono verificate le condizioni ideali per una possibile infiltrazione
mafiosa. Ed è dunque necessario, soprattutto in questo settore, avere un
particolare livello di attenzione, ponendo in atto delle modifiche che possano
andare a spegnere o quanto meno a ridurre il più possibile le spie che abbiamo
visto in precedenza.
Dott. Alberto Marmiroli – Sociologo
NOTE
[1]
Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca
[2] Intervista completa in appendice al lavoro di ricerca
Davvero, negli Stati Uniti, le vittime “bianche” delle forze di polizia sono più di quelle “Afroamericane”?
di Marco Vercillo
È, innanzitutto, indispensabile chiarire, prima di qualsivoglia analisi, come si ritenga superfluo anche solo soffermarsi nell’esaminare i dati seguenti, ritenendosi, alla base di qualsiasi questione, i numeri riportati in seguito, come “esseri umani” in quanto tali, e non in quanto appartenenti a questa o quella etnia. Ogni vita umana ha il medesimo valore e qualificare i soggetti in base alla loro etnia, anche solo a scopo analitico, è cosa che risulta difficoltosa, ma necessaria allo scopo di chiarire le informazioni ed evitare strumentalizzazioni e fake news.
<<=== Dott. Marco Vercillo
Si inizierà, a tale scopo, dall’analisi di contenuti recentemente reperiti sui social media, diffusi da fonti che, pur avendo molto seguito, non si sono preoccupate di contestualizzare né verificare la qualità delle informazioni diffuse. Si rapporteranno poi, tali concetti, alla fonte da cui sono state reperite le informazioni su cui, gli stessi, si fondano. Si procederà, successivamente, a rapportare le informazioni che saranno emerse nell’analisi, ai dati forniti dal Governo Federale degli Stati Uniti. Si ricorrerà poi, allo sviluppo di un’ulteriore questione, allo scopo di giungere a conclusioni concrete ed empiricamente evidenti.
L’immagine sottostante è recentemente apparsa su Facebook, ed è stata (più volte) condivisa allo scopo di affermare la futilità della c.d. “questione razziale”, nata sotto lo slogan “Black Lives Matters”, all’indomani dell’omicidio di George Floyd, negli Stati Uniti d’America. Tale immagine, facendo riferimento ad alcuni dati, espressi in termini assoluti, citati dal Washington Post (https://www.washingtonpost.com/graphics/investigations/police-shootings-database/), vorrebbe affermare che il numero di persone “bianche” morte in seguito a scontri che hanno visto coinvolte le forze dell’ordine americane negli ultimi 4 anni sarebbe pari quasi al doppio delle vittime “afroamericane”.
(Fonte:https://www.statista.com/statistics/585152/people-shot-to-death-by-us-police-by-race/)
Ciò che risulterebbe trascurato da un’analisi del genere sarebbe, invece, il rapporto del dato assoluto alle percentuali di distribuzione etnica della popolazione. Tale proporzione, oltre che essere menzionata in tutte le fonti che fanno riferimento al tema, è menzionata esplicitamente dall’articolo del Washington post da cui le altre fonti, che risultano adesso abbastanza chiaramente citate con finalità strumentali, hanno reperito i dati:
Se si volesse, infatti, porre in essere un’esauriente analisi della tematica risulterebbe essenziale andare a guardare, innanzitutto, alla distribuzione della popolazione statunitense tra le diverse etnie. Ad agevolarci, in tale operazione, è lo stesso governo americano, che ci fornisce i seguenti dati percentuali:
Alla luce di tali dati, su una popolazione che la medesima fonte riconosce essere di circa 325 milioni di persone, circa 197 milioni apparterrebbero all’etnia bianca, e circa 42 milioni a quella “afroamericana”. Riconosciuti tali valori, e rapportati gli stessi con dati relativi alle persone che hanno perso la vita in sparatorie in cui sono risultate coinvolte le forze dell’ordine, si giungerà alla conclusione che le vittime “afroamericane” sono 31 per ogni milione di abitanti appartenente all’etnia, mentre le vittime “bianche” sono 13 per ogni milione di abitanti appartenenti all’etnia. È alla luce di quanto affermato fino a questo punto che il Washington Post (art. cit.), giunge ad affermare che “the rate at which black Americans are killed by police is more than twice as high as the rate for white Americans” (il tasso degli americani neri uccisi dalla polizia è più del doppio di quello degli americani bianchi).
Di fronte a tale analisi, un’ulteriore questione che potrebbe essere sollevata è quella relativa al rapporto tra le vittime di sparatorie vedenti coinvolte le forze dell’ordine e la quantità di “attività criminali” poste in essere dalle diverse etnie.
Indispensabile risulta, prima di approfondire tale argomento, fare brevemente cenno ad alcune delle principali teorie sociologiche in materia di criminalità, necessarie a contestualizzare i dati che si vedranno di qui a breve. Il riferimento è, in particolare, alla teoria dell’etichettamento ed a quella della tensione.
La teoria dell’etichettamento, i cui risvolti sono empiricamente presenti nella storia e nella cultura americana, si basa sull’identificazione di un aspetto istituzionale della devianza, per cui il criminale è tale, in quanto identificato, istituzionalmente, come tale. Quando si è etichettati come criminali, si diviene criminali. Tale teoria vuole lo sviluppo della devianza su due piani: la devianza primaria interessa relazioni che hanno valenza marginale per chi le compie, la devianza secondaria emerge in quelle situazioni nelle quali l’atto commesso suscita una reazione di condanna e porta, colui che lo ha commesso a riformulare la propria identità attorno a quell’atto criminale. È per questo che il ragazzo da sempre socialmente riconosciuto come “delinquente” sarà portato ad aderire ad una gang.
La teoria della tensione, sviluppata Robert Merton, poi, vuole che la devianza si provochi da una situazione di anomia, dove vi sia un contrasto tra la struttura culturale e quella sociale. La struttura culturale di una società definisce le mete di un contesto sociale ed i mezzi legali per il conseguimento delle stesse; la struttura sociale, invece, consiste nella distribuzione effettiva delle opportunità concrete necessarie al conseguimento di quelle mete con quei mezzi. Evidente è come in alcune specifiche aree degli Stati uniti, e per alcune specifiche etnie americane, tale contrasto possa risultare incolmabile.
Accanto a quanto detto, evidenti sono le problematiche connesse alla definizione e all’accertamento di un’attività criminale. Se, ad esempio, in sede giurisdizionale, viene riconosciuta la sussistenza di una truffa, che, tuttavia, a causa di un problema procedurale, non può essere sanzionata, la stessa dovrà, o meno, essere considerata come attività criminale? Se invece, un crimine evidente viene posto in essere sul web, ma non risulti possibile stabilire la competenza a perseguirlo, si potrà comunque parlare di attività criminale?
Prima di prendere per buoni tali dati, tuttavia, occorre chiarire immediatamente, sebbene superficialmente, come tale indicatore debba essere preso con pinze. Ciò in quanto, sebbene sia vero che negli Stati Uniti sia garantito il diritto ad una difesa processuale, proprio per il funzionamento del sistema di giustizia americano, di primaria rilevanza risulta la qualità della difesa di cui si possa disporre allo scopo di evitare l’arresto. Tanto migliore sarà la difesa, quanto più questa sarà onerosa. Occorre, dunque, prima di procedere nell’analisi, affermare chiaramente come, nella media, gli afroamericani abbiano un livello di reddito nettamente inferiore ai “bianchi”, come si può facilmente evincere sempre dalle fonti federali:
Le implicazioni di tale constatazione risultano nel fatto che, avendo, mediamente, gli afroamericani, un livello di reddito inferiore, potranno permettersi una qualità di difesa inferiore in sede giudiziaria, determinando una maggiore quantità di arresti nei confronti di questa etnia.Chiarito questo punto, si può tornare all’analisi qualitativa e prendere atto di come, nel 2016 (anno relativamente al quale è risultato più facile reperire dati di pubblico accesso), su un totale di circa 8.5 milioni di arresti, circa 6 milioni dei soggetti a tale tipo di coercizione fossero appartenenti all’etnia “bianca”, e solo circa 2 milioni a quella afroamericana. Passando, nell’analisi, dal dato in termini assoluti a quello espresso in termini percentuali, potremmo affermare che, circa il 70% degli individui soggetti a provvedimenti fossero di etnia “bianca”, e solo circa il 27% fossero di etnia afroamericana.
Utile può risultare, a questo
punto, rapportare la percentuale degli arresti a quella della popolazione:
I
“bianchi”, che risultano essere circa il 60% della popolazione, sono oggetto di
circa il 70% degli arresti;
Gli
afroamericani, che corrispondono a circa il 13% della popolazione, sono oggetto
di circa il 25% dei provvedimenti coercitivi.
Da quanto esposto fino a questo punto si può, agevolmente, riconoscere come, benché il numero dei “bianchi” arrestati sia pari quasi a tre volte quello degli afroamericani, il numero dei bianchi uccisi è inferiore doppio del numero di “afroamericani” vittime di scontri che vedono coinvolte le forze dell’ordine, pur essendo, proporzionalmente, soggetti ad arresto quasi nel 75% dei casi in più rispetto ai “bianchi”. Dal rapporto tra la percentuale della popolazione e la percentuale di arresti, relative alle due etnie, emerge, infatti, come il rapporto sia pari al 117% per i bianchi, ed al 192% per gli afroamericani.
Rilevante è anche come, a tale conclusione si sia giunti ignorando la dimensione qualitativa in favore di quella quantitativa, accettando di adoperare un indicatore quale quello del numero di cittadini soggetti a provvedimento di arresto, che abbiamo visto tendere a penalizzare le etnie che hanno, mediamente, un livello di reddito più basso (in questo caso quella afroamericana).
Per concludere, si può, dunque, affermare che, non solo, rapportando il numero delle vittime di scontri con le forze dell’ordine alla popolazione, la comunità afroamericana risulta ben più duramente colpita di quella bianca, ma anche come, tale dato, risulti ulteriormente rafforzato da un confronto con il numero di arresti che interessano le etnie in oggetto. Ciò resta valido nonostante quanto sopra affermato relativamente al funzionamento della giustizia negli Stati Uniti e nonostante i provvedimenti privativi della libertà siano ben più frequentemente posti in essere nei confronti di soggetti appartenenti all’etnia afroamericana di quanto non lo siano nei confronti di quelli appartenenti all’etnia “bianca”.
Discorso ulteriore, ed altresì complesso, potrebbe essere sviluppato in relazione ai casi in cui le vittime abbiano perso la vita in scontri in cui le forze dell’ordine stessero, o meno, agendo in esercizio della propria legittima difesa, dato sul quale non ci si è soffermati in questa breve analisi.
Il dato che è, invece, emerso, come il più vigoroso e preoccupante, è quello relativo alla brutalità delle forze dell’ordine statunitense. Una brutalità che dovrebbe essere sempre inaccettabile ed oggetto di disapprovazione da parte del popolo americano e della stampa internazionale, a prescindere dall’etnia delle vittime. Questo drammatico momento storico dovrebbe portare tutti noi a riflettere sul fatto che, ancora oggi, nel 2020, da una parte, vengano posti in essere i gravi comportamenti di cui pocanzi si è detto nei confronti di una persona solo in quanto afroamericana e, dall’altra, vi sia ancora qualcuno che utilizza strumentalmente dei dati (che rimangono comunque di una gravità estrema, per propinare un “vittimismo” bianco, ed il superamento di alcune dinamiche che, sfortunatamente, permangono all’interno della società americana.
Le competenze del sociologo sono molteplici e, spesso, irragionevolmente sottoutilizzate soprattutto nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, in cui il ruolo del sociologo può essere di fondamentale importanza fondamentale nel reperimento delle risorse pubbliche e nella loro corretta e funzionale utilizzazione.
<<== dott./ssa Sonia Angelisi
Uno degli strumenti che dovrebbe essere messo nelle mani del sociologo è quello dei Piani di Zona, strumento di programmazione territoriale concertata e partecipata, in cui gli attori coinvolti sono molteplici: il Comune, le ASL, la provincia, il Terzo settore, gli enti gestori dei servizi sociali, i soggetti espressione dell’associazionismo, i cittadini che intendono contribuire al processo di elaborazione del piano, le istituzioni scolastiche e della formazione, le amministrazioni giudiziarie. Dal punto di vista legislativo, il piano di zona è uno strumento introdotto dall’articolo 19 della L. 328/2000 e rientra le riforme più riuscite della legge quadro poiché, secondo i dati risalenti già al 2010, quasi tutte le Regioni italiane avevano adottato un piano sociale di zona.
L’introduzione di questo strumento apporta cambiamenti rilevanti nella programmazione delle politiche sociali, che possiamo sintetizzare in 3 punti principali:
aumentano i costruttori delle politiche
sociali, si passa da un sistema di governement a quello di governance¹;
si programma in modo congiunto con l’ASL;
si programma a livello locale, nell’ambito
territoriale di competenza.
Il piano di zona viene adottato attraverso uno specifico strumento giuridico: l’accordo di programma, con il quale i soggetti coinvolti si assumono la responsabilità di realizzare quanto è stato concordato insieme, e deve contenere azioni fondamentali quali: individuare gli obiettivi, le priorità e gli strumenti con cui realizzare il sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali; deve definire le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali a disposizione, nonché i requisiti di qualità; deve inoltre individuare le forme di concertazione con l’ASL.
La velocità di approvazione del piano dipenderà dalla compatibilità/incompatibilità tra le proposte del tavolo dei tecnici e le scelte degli organi politici, per questa ragione il sociologo, quale figura mediatrice delle diverse posizioni in campo, può offrire un supporto imprescindibile per la riuscita del progetto. Progettazione e concertazione sono armi messe a disposizione di chi riesce a utilizzarle in modo proficuo e con la giusta calibrazione, in modo da non far fallire le trattative e rendere tutti i soggetti coinvolti protagonisti e responsabili di un progetto comune. Non a caso, nella pianificazione sociale, i piani di zona sono intesi come quello strumento frutto di un processo decisionale tramite il quale gli Enti Locali rispetto ai sistemi di welfare e servizio sociale locale.
Come
strumento di welfare locale, dunque, secondo la logica di governance, i piani
di zona incentivano comportamenti non prescrittivi in cui un attore si assume
la funzione di regia (orientamento, indirizzo, coordinamento, controllo) del
progetto. In base alle L328/2000 si afferma che:
Sulla base delle indicazioni i comuni
provvedono, a loro volta, a definire il piano di zona
Viene adottata attraverso Accordo di programma
(l. 142\90 art.27) al quale partecipano soggetti pubblici e privati, in
particolare quelli che concorrono, anche con proprie risorse, alla
realizzazione del sistema integrato,
è approvato dai comuni associati che fanno
parte di un determinato “ambito territoriale per la gestione unitaria del
sistema locale dei servizi sociali a rete”
l’ambito è determinato dalla Regione e
dovrebbe essere coincidente con il distretto sanitario
A seguito della Riforma
del Titolo V del 2001, con introduzione di sussidiarietà verticale e
sussidiarietà orizzontale, anche in ambito sanitario si fanno impellenti le
necessità di provvedere in maniera sistematica all’attuazione di politiche
socio-sanitarie che tengano conto delle esigenze peculiari del tessuto sociale,
in un’ottica preventiva e di mantenimento della salute, allo scopo di non
appesantire il SSN.
Alle
amministrazioni locali, pertanto, l’appello di inserire nel proprio organico la
figura del sociologo se desiderano raggiungere gli obiettivi programmatici prefissati,
realizzare politiche di welfare locale soddisfacenti in concertazioni con gli
altri attori presenti sul territorio, sfruttando produttivamente le competenze
e le risorse che ognuno potrà mettere in campo.
Ai
cittadini insoddisfatti della gestione locale del proprio comune, chiedetevi
quali figure sono impiegate per la attuazione di progetti sociosanitari e di
welfare locale, con quali competenze vengono ricercati, interessatevi della Res
Pubblica, della “cosa pubblica” perché è da quella che dipende la qualità dei
servizi, la riuscita di una gestione efficiente nel presente e nel futuro.
Le ultime bollicine del sarrismo sgonfiate dal ponentino di una notte romana. Alla fine del sarrismo, modulo di gioco morto e sepolto, ha contribuito in modo determinante tale Gennaro di Corigliano Calabro, attuale trainer del Napoli che mercoledì scorso ha conquistato l’annuale edizione della Coppa Italia
<<=== Gennaro Gattuso
Trofeo vinto con pieno merito contro una Vecchia Signora presuntuosa che, dopo otto scudetti consecutivi, ha perso quell’eleganza storica del club calcistico più amato dagli italiani.
Il sarrismo, in Italia, ha vinto “zero tituli”, ma per i tre anni trascorsi ai piedi del Vesuvio è stato esaltato sia dall’intera città di San Gennaro, sia dalla critica calcistica che, contro lo strapotere bianconero, ha sempre fatto il tifo per il tecnico campano – toscano.
Il suo modulo di gioco si è guadagnato un posto finanche sull’Enciclopedia Treccani che considera il sarrismo “la concezione del gioco del calcio propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva; anche, il modo diretto e poco diplomatico di parlare e di comportarsi che sarebbe tipico di Sarri”.
Nulla di personale nei confronti del Sig. Sarri il quale, anche a Torino, ha dimostrato, nonostante la polmonite che lo ha colpito ad inizio di stagione, di essere un gran lavoratore. Ma come tutte le mode calcistiche anche il sarrismo ha avuto un inizio ed oggi, ad un anno esatto dal suo trasferimento a Torino, la sua fine. Un’attenuante la concediamo: l’aver dovuto gestire un organico scelto da altri prima ancora del suo trasferimento nella città della Mole Antonelliana. Ma questo è un altro discorso che non abbiamo voglia di affrontare, anche se non escludiamo un certo appannamento del cosiddetto stile Juve.
Quello stile che, per i figli del dopoguerra, era diventato una fede calcistica, una religione nei confronti di un club che nell’Italia del tempo rappresentava uno dei motivi della lotta di classe che vedeva nella Juve la squadra dei padroni. I figli di contadini, di commercianti, di operai, che tifavano per la squadra dell’Avvocato Gianni Agnelli, venivano etichettati come traditori, addirittura come borghesi. Ma quella fede calcistica non era una scelta di campo, ma si basava sul fascino, sui successi di questo sodalizio sportivo. Le frequenti scazzottate, l’isolamento anche da parte degli amici più cari, dal punto di vista sociologico, divenne un fenomeno da studiare.
E quando Maurizio Sarri, per il deterioramento del rapporto con il presidente De Laurentis, scelse la Premier League (dove con il Chelsea vinse la Coppa Uefa) la città di Napoli, improvvisamente raffreddò, fino a farli diventare glaciali, i sentimenti nei confronti di un condottiero che aveva fatto sognare il popolo dei tifosi azzurri. E non si esclude che anche San Gennaro ci rimase male.
Già, il Patrono di Napoli che don Bruno Sodaro di Serra San Bruno- parroco e rettore del Santuario Mariano di Torre di Ruggero ( morto nel 2017 all’età di 96 anni) in un passo del suo libro “Santi e beati della Calabria” (pubblicato negli anni Novanta dello scorso secolo) – ipotizzò avesse origini calabresi: nativo di un villaggio, oggi scomparso, alla periferia di Ioppolo (nel vibonese). Tesi che don Bruno confermò nel corso di una mia trasmissione televisiva, “Filo Diretto” (in onda più di un quarto di secolo fa su Telespazio Calabria) e che provocò le ire dei napoletani e le perplessità di numerosi storici.
Oggi, a distanza di tanto tempo, non siamo in grado di stabilire se la ricerca di mons. Sodaro abbia un fondamento, oppure se si sia trattato di una supposizione della tradizione religiosa orale.
La circostanza che sia stato un calabrese di nome Gennaro a dare il colpo di grazia al sarrismo, con tanto di rispetto per il Patrono di Napoli, esalta l’impresa di Ringhio Gattuso che, con la Coppa Italia, è entrato nella storia della Capitale culturale del Mezzogiorno.
Il Covid-19 ha contribuito ad incrementare i trend legati alla salute indirizzando la società verso una digitalizzazione dalla quale non si tornerà indietro, si potrebbe ipotizzare un futuro in cui sarà possibile fare qualsiasi cosa a distanza.
<<== Federica Ucci
Questo cambiamento era già corso, ma la pandemia ha accelerato la cosiddetta Digital Health e la Medtech, cioè la combinazione tra medicina e tecnologia soprattutto perché il distanziamento sociale ha comportato l’impossibilità di recarsi negli ambulatori per un lungo periodo.
Le piattaforme digitali hanno conosciuto tempi e scale di adozione mai visti prima in Italia, la telemedicina ha cambiato il rapporto tra medico e paziente e potrà contribuire ad apportare miglioramenti nell’organizzazione del lavoro anche quando questa emergenza sarà superata.Soprattutto il teleconsulto, il telemonitoraggio e la teleassistenza saranno tendenze future fermo restando il fatto che non si possa assolutamente prescindere dalla presenza fisica per le visite specialistiche.In realtà della possibilità di operare anche in questi settori da remoto se ne parlava già da molto tempo, ma oggi è diventata una attualità a livello globale.
L’
Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del
Politecnico di Milano[1]
attraverso un questionario svolto insieme a Doxapharma su un campione di
italiani rappresentativo della popolazione, costituito non solo da pazienti ma
anche da cittadini sani che durante la pandemia non hanno avuto bisogno di
essere visitati e quindi guardano questo mondo dall’esterno, ha rilevato che
circa 1 cittadino su 3 vorrebbe sperimentare la tele-visita col proprio medico
di famiglia e il 29% dei cittadini vorrebbe farlo con un medico specialista.
La fascia di popolazione degli Over65 non è entusiasta perché preferisce ancora
il contatto personale e teme di non avere le giuste competenze per utilizzare
questi strumenti.
Si tratta, dunque, di attuare anche una rivoluzione culturale prima che tecnologica.
Oggi la robotica è già presente sul mercato e può contribuire a trovare soluzioni sia nel campo della riabilitazione e della chirurgia e che in quello della farmaceutica, in cui la possibilità di simulare molecole prima di sintetizzarle può essere utile ad abbassare costi e tempi di cura non solo per il Covid-19 ma anche per altre malattie.
Il medico del futuro sarà una combinazione tra scienziato ed ingegnere, una nuova figura professionale che combinerà il contenuto della tecnologia messo a disposizione della salute con quello della medicina, conservando comunque una sua competenza specifica e, attraverso una collaborazione allargata con le altre competenze distribuite a livello mondiale sarà possibile portare in campo una competitività mai conosciuta in epoche precedenti.
Pierpaolo Pandolfi, direttore scientifico dell’ Istituto Veneto di Medicina Molecolare, centro di ricerca della Fondazione per la Ricerca Biomedica Avanzata di Padova, in un suo intervento durante la puntata 3 di “Ripartire con i Megatrend” dedicata proprio alla Digital Health spiega che ci sono almeno 110 gruppi che stanno cercando di sviluppare vaccini e non meno di 10 gruppi concentrati su anticorpi bloccanti per il Covid-19.
Trovare il farmaco non basta perché il problema principale della pandemia è produrlo in milioni di dosi: oggi la capacità globale complessiva ammonta a non più di seicento milioni di dosi per ogni malattia, in questa emergenza alle case farmaceutiche è richiesto un impegno di produzione senza precedenti, sarebbero necessarie sette miliardi e cinquecento milioni di dosi per vaccinare tutta la popolazione mondiale ogni anno. Sarà necessario il lavoro di molte case farmaceutiche e, perciò, ci si dovrà orientare verso una collaborazione virtuosa che coinvolga, chiaramente anche i Governi.
Il trend della salute è di lungo periodo ed è influenzato anche da quello demografico: l’aspettativa di vita media si sta allungando moltissimo (circa 11 anni in più), questo è il primo anno in cui gli ultra 65enni superano il numero di bambini di 5 anni e si stima che nei prossimi 30 anni 1/3 della popolazione sarà rappresentato da over60. Ciò ha ripercussioni importanti sul sistema sanitario perché a questa età l’incidenza delle malattie è rilevante. Un altro trend che influenza quello della salute, ovviamente, è quello tecnologico, infatti l’evoluzione dell’ Intelligenza Artificiale permette di offrire Digital Help, che aiuta anche a contenere i costi: oggi esistono migliaia di dati clinici da analizzare anche nel settore Covid perciò l’idea di utilizzarla anche nel campo della ricerca è più che mai attuale, se pensiamo che solo negli ultimi mesi sono stati pubblicati circa 150.000 lavori sulla pandemia che senza Intelligenza Artificiale e computer nessuno potrebbe mai leggere né studiare.
E’ cambiato anche il modo di fare ricerca e di pubblicare i risultati, prima i dati si sviluppavano in laboratorio e i lavori erano analizzati da esperti, con conseguente allungamento dei tempi, oggi invece con la collaborazione virtuale i laboratori comunicano da un paese all’altro e appena è pronto, il risultato è pubblicato in tempo reale. Questi importanti cambiamenti diventeranno regole per il futuro, la comunicazione interpersonale resta comunque di fondamentale importanza, ma la compresenza fisica molte volte richiede anche dispersione di tempo a causa dei viaggi per spostarsi da una destinazione all’altra.
Questi importanti cambiamenti diventeranno regole per il futuro, la comunicazione interpersonale resta comunque di fondamentale importanza, ma la compresenza fisica molte volte richiede anche dispersione di tempo a causa dei viaggi per spostarsi da una destinazione all’altra.
Questo tempo può essere utilizzato in modo più produttivo, ad esempio per leggere, fare ricerche, organizzare discussioni telematiche inoltre la possibilità di stabilire rapporti velocemente anche con le industrie può concretamente realizzare la possibilità di un procedere parallelo tra ricerca e pratica. Infine, un’ultima considerazione sui mutamenti in atto è che prima si investiva in ricerche, farmaci e cure, oggi invece si investe molto nel cercare di allungare in salute l’aspettativa di vita delle persone, perciò la dimensione della prevenzione diventa cruciale e fondamentale e porta a considerare anche altri ambiti che prima non lo erano, come lo sport, lo stile di vita o l’alimentazione. Come già per altri settori, il digitale porterà vantaggi anche in quello della salute, ad esempio oggi attraverso gli smartphone è possibile sapere se si è suscettibili verso certe patologie ed intercettarle più velocemente. Anche la prevenzione, quindi, è diventata personalizzata, nell’era Ipermoderna si sta concretizzando una prassi in cui non è tanto importante la soluzione, ma la produzione di conoscenze aggregate che permettono la formazione di altre intersettoriali importantissime per la formazione di una cultura nella quale si possa avere sempre accesso alle informazioni e confrontarle progressivamente per un’applicazione ancora più efficace dell’approccio scientifico[2].
dott.ssa Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali
Una maxi multa di 400 euro per aver riabbracciato il figlio che non vedeva da quattro mesi. Lo scenario vede protagonista una madre di Reggio Emilia, costretta a vedere il figlio in Spazio protetto sotto la supervisione dei servizi sociali.
Le visite venivano sospese a causa della pandemia COVID-19 e solo dopo mesi la madre ha potuto vedere il figlio con un finale sconcertante e a dir poco “salato”.Lo slancio affettivo verso il minore, infatti, pare esser costato caro alla donna che non avrebbe rispettato il “distanziamento sociale” imposto dall’educatrice.
Quest’ultima di fronte all’abbraccio tra una madre ed un figlio divisi dai lunghi e difficili mesi di lockdown, non avrebbe esitato a richiedere l’intervento dei Carabinieri che, giunti alla struttura, avrebbero multato la donna. L’incertezza interpretativa delle norme d’urgenza emanate dal Governo in relazione all’emergenza sanitaria, pare aver lasciato terreno fertile ad un rigorismo – nel caso di specie – quasi disumano.
Ci si chiede, infatti, come mai sia stato messo in secondo piano il prevalente interesse del minore, che certamente non è quello di veder intervenire i Carabinieri per un abbraccio alla madre.Questa vicenda rileva l’inadeguatezza di alcuni impianti normativi che sono stati introdotti con l’emergenza COVID-19 e le storture scaturite ne sono la conseguenza.
L’applicazione delle norme, in ogni caso, non ha lasciato spazio alla “normale tolleranza”, ma la cittadina multata potrà fare ricorso per contestare la “fantasiosa” sanzione.
Avv. Martina Grassini – Assistente del Prof. Avv. Michele Miccoli
Counseling e intelligenza emotiva sono strettamente collegati tra loro da una parola magica, forse fin troppo inflazionata negli ultimi tempi al pari del termine “sostenibilità” nei periodi di grande attenzione alle tematiche ambientali. La parola magica che collega counseling a intelligenza emotiva è EMPATIA
<<== Dott.ssa Sonia Angelisi
L’empatia non è simpatia: l’empatia è un atteggiamento comunicativo che ci permette di abbracciare tutte le interazioni interpersonali, indipendentemente dalle persone che ci stanno davanti, dal fatto di essere o meno d’accordo o di simpatizzare con loro; la capacità di provare empatia, quindi, preserva la nostra dignità di esseri umani anche quando gli altri non ci stanno simpatici. Simpatia deriva dal greco sym-patéo che letteralmente significa provare le stesse emozioni di qualcuno, condividere con lui o lei la stessa relazione emotiva agli eventi. Empatia ha un significato etimologico diverso: dal greco en-pátheia significa essere “dentro” i sentimenti, le emozioni di un’altra persona, comprendere esperienzialmente ciò che sta provando, mettendo da parte il nostro giudizio su tali emozioni.
Il counseling nella pratica rogersiana è una attività basata proprio sull’accettazione incondizionata, la fiducia, il rispetto della persona e la responsabilità del cliente per se stesso. Nella sua definizione tradizionale, il counseling indica un’attività professionale che tende ad orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) e contestualmente circoscritti (famiglia, lavoro, scuola). Favorisce attraverso la relazione di aiuto (counselor-cliente) ed il sostegno psicologico, lo sviluppo e l’utilizzo delle qualità e potenzialità, già insite nell’uomo, perché questi possa esprimere pienamente ed autenticamente se stesso. E’ un approccio centrato sulla persona, sulla relazione d’aiuto, un approccio sistemico concentrato sulla salute, o meglio, non solo sulla salute ma anche sulla realizzazione degli obiettivi salutogenici, poiché andiamo a creare le condizioni affinchè il cliente si mantenga in un buono stato di salute psico-relazionale e adotti stili di vita-pensiero sani. Il counseling, in quanto attività di promozione del benessere e della salute, è la prima azione salutogenica. Dunque, salute non solo come assenza di malattia ma in senso allargato, una salute socialeche dipende e si compenetra con la salute individuale, fino a influire sulla salute globale; da qui la necessità del sociologo che si fa sempre mediatore di eccellenza tra le dimensioni micro e macro. La sociologia studia il sociale che gravita attorno all’individuo, ai gruppi, alle istituzioni, si occupa dell’uomo e delle sue relazioni, del modo di svilupparsi, mutare nel cambiamento, vivere. Tra i micro e macro processi sociali oggetto di studio della sociologia vi è sicuramente la salute: un bene individuale ma anche e soprattutto sociale, che interessa le politiche di Welfare nazionali e comunitarie.
Dal counseling classico, si sono sviluppate diverse concezioni di terapia centrata sul cliente, che vanno a definire a loro volta approcci operativi peculiari a seconda delle teorie di riferimento.
Quella di cui accenneremo in questo articolo è il Counseling Sociolistico, un counseling integrato basato sulla commistione tra approccio sistemico -relazionale (Bateson, Scuola di Palo Alto) e strategie di sviluppo empatico e riequilibrio pico-fisico. Il conuselor sociolistico è una figura nuova, con abilità totalmente autonome rispetto ad un counselor tradizionale, ad uno psicologo o ad un socioterapeuta, con una formazione che mira al superamento delle differenze teoriche e metodologiche dei vari modelli. Da sempre, infatti, soprattutto nella nostra penisola, si registra un malcontento crescente tra le varie figure professionali che si occupano del benessere psicofisico, come se si condannasse come oltraggioso lo sconfinamento di competenze. A differenza degli Stati Uniti o di alcuni Paesi Nord Europei in cui si ricerca un approccio cooperativo tra professioni similari e complementari, in Italia si fa fatica ad entrare nell’ottica di un approccio integrato. Eppure quest’ultimo apporterebbe dei vantaggi inimmaginabili non solo alla ricerca scientifica, ma alla vita quotidiana di ognuno di noi.
La figura consulente sociolistico attinente al Metodo Beyond, metodo elaborato all’interno delle attività ASI e, pertanto, di esclusiva pertinenza del percorso formativo dell’Associazione Sociologi Italiani, è in un certo senso transpersonale ovvero riprende i concetti di unità e universalità della psicologia wilberiana, nella convinzione che l’utilizzo congiunto dei nostri emisferi cerebrali sia fondamentale per ottenere una lettura il più possibile completa della realtà. Essere un consulente transpersonale significa avviarsi alla comprensione dell’irrazionale e, soprattutto, rifiutare la rigorosità del metodo scientifico in favore di un approccio interpretativo; è attraverso questo approccio che mi ricollego al termine sociolisitico. Proprio come la sociologia aspira ad una riforma della società affrancandosi dall’ortodossia dell’oggettivismo, così un counselor sociolistico del Metodo Beyond mira ad accrescere il potenziale cognitivo e sensoriale del proprio cliente perché fortemente persuaso che questo genererà un effetto Butterfly. L’effetto farfalla sembra un concetto poetico, e in parte lo è, ma ha delle basi ed una origine matematica in quanto ha a che fare con la teoria del caos. Si tratta, infatti, dell’idea che piccole variazioni nelle condizioni iniziali arrivino a produrre grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. Ci si chiederà forse cosa centra la farfalla con questo effetto a cascata. La farfalla, animale così delicato nel suo volo, e apprezzato per i suoi colori, immaginato come innocuo, con un suo battito di ali può causare una tempesta. Questo perché la variazione di pressione causata dalle ali può amplificarsi nello spazio e nel tempo e assumere dimensioni inimmaginabili (1). Allo stesso modo, un consulente Beyond sa che la presa di coscienza universale di un suo cliente avrà ripercussioni sull’intera società.
Dunque, l’aspetto olistico è doppio:
il primo è che si agisce su tutte le dimensioni dell’individuo, così come le direttive europee in materia di salute stanno evidenziando da un po’ di anni a questa parte, in modo tale da innescare un macroshift personale;
il secondo aspetto è che questo cambiamento avrà ripercussioni a catena su grande scala visto che l’individuo, attraverso la condivisione delle sue esperienze di socializzazione, tenterà di attrarre consapevolmente o inconsapevolmente gli altri nella spirale virtuosa del suo mutamento bio-psico-sociale,
Beyond, quindi, ha diversi significati: vuol dire andare al di là, andare oltre le costruzioni sociali, gli incasellamenti disciplinari, le rigorosità scientifiche, senza per questo perdere di autenticità e serietà. In realtà, non si vuole inventare nulla di nuovo: nell’antichità, prima della divisione dei saperi secondo la logica dualistica cartesiana, vi era una compenetrazione di saperi che consentiva una visione globale delle problematiche; quello che intendiamo fare adesso è recuperare quella visione olistica e intervenire concretamente nella risoluzione di problemi che non possono essere considerati solo di pertinenza di determinate scienze nella formula distruttiva dei compartimenti stagni. Ribadisco, dunque, l’importanza di abbattere le barriere tra le discipline e fare in modo che i saperi dialoghino tra loro. Il metodo Beyond, pertanto, è un modo come un altro per invitare le scienze ufficiali e quelle alternative a dialogare tra loro nella convinzione che la cooperazione ha sempre avuto un netto vantaggio sulla competizione.
In questa prospettiva, il counseling sociolistico che si fonda l’impianto teorico della psicologia umanista (la cosiddetta Terza Forza) e si snoda sulle teoria della Mente del sociologo, antropologo e psicologo Gregory Bateson, si configura come scienza e arte poiché prevede una certa propensione da parte del cliente a porsi nell’ottica dell’ascolto attivo. Il Metodo Beyond si inserisce tra quei servizi di cura che auspicano ad un cambio di paradigma all’interno degli interventi salutogenici, in favore di un approccio collaborativo delle diverse figure professionali, allo scopo di favorire processi rigenerativi e riequilibranti in soggetti (pazienti, clienti) più responsabilizzati e collaborativi nell’ambito degli interventi di cura.
Tornando alla descrizione del “Metodo Beyond”, che altro non è che uno dei tanti approcci alla salute in senso esteso (poiché ricerca i contributi proveniente da diverse discipline), possiamo affermare che esso si basa essenzialmente su cinque princìpi fondamentali:
Principio della Salute: l’obiettivo del metodo Beyond è quello di indirizzare ad uno stato sempre migliore di salute anche in assenza di malattia. Il disagio psichico non è alla base della consulenza sociolisitica, anche perché non rientra nelle competenze di un esperto sociolisitico. Il cambio di paradigma deve essere proprio quello di incentivare la cura del proprio stato di salute in senso esteso, nella consapevolezza che non tutte le nostre potenzialità umane sono attualizzate.
Principio dell’Unità: è necessario improntare la terapia (o relazione d’aiuto) sul superamento delle divisioni a cui la società ci ha abituato. Le contrapposizioni tra oggetto e soggetto, interno ed esterno, natura e cultura, mente e cuore, non hanno fatto altro che creare interferenze tra le esperienze umane che viviamo quotidianamente. Il risultato dei confini immaginari che arbitrariamente tracciamo intorno alle nostre esperienze sono: ansia, angoscia, sofferenza, paura. Avere consapevolezza che esiste un’armonia di cui facciamo parte, un equilibrio a cui possiamo giungere è il primo passo verso la libertà dalle nostre gabbie mentali. Le dicotomie intrinseche in ognuno di noi devono essere superate, a cominciare dall’idea che lo stesso consulente si fa del cliente che ha di fronte.
Principio dell’Illuminazione: questo sembra essere il principio che annulla tutti gli altri principi in quanto invita l’esperto Beyond a non seguire alcun criterio metodologico e ad affidarsi alla propria intuizione. In realtà, il principio dell’illuminazione è proprio quello che fa luce a tutti gli altri, il faro guida da cui far scaturire le nostre considerazioni sul cliente che abbiamo davanti. Come abbiamo già detto precedentemente, la mente razionale non è la sola a garantirci le scelte migliori. L’intelligenza razionale senza intelligenza emotiva non ci rende persone di successo. E’ come ci relazioniamo con gli altri a migliorare la nostra vita. Il lavoro sinergico tra intelligenza razionale e intelligenza emotiva, tra lobi prefrontali e amigdala, ci condurrà a gestire la nostra vita nel miglior modo possibile. Il termine “intuizione”, che a quanto pare deriva dal latino intueor, in “dentro” e “tueor” guardare, ovvero guardare dentro, è una delle nostre facoltà più affascinanti. Il compito del consulente sociolisitico è quello di usarlo e insegnare al proprio cliente a fare altrettanto.
Principio della transdisciplinarietà: il consulente sociolisitico deve essere in grado di indirizzare il cliente verso pratiche e trattamenti psico-fisici in grado di innalzare il potenziale umano intrinseco. Tali trattamenti non devono assolutamente interpretarsi come interventi clinici intesi nell’ottica della medicalizzazione, ma piuttosto come attività complementari non invasive capaci di coadiuvarsi efficacemente con la terapia sociolisitica in atto, nell’ottica dell’approccio bio-psico-sociale proprio della salutogenesi.
Principio dell’adattamento: questo principio è figlio legittimo e diretto del principio di Unità e si rifà ai concetti di sopravvivenza dell’individuo: più il cliente accresce la sua consapevolezza in relazione al mondo, più sarà in grado di accettare le conseguenze del suo vissuto trasformando anche le esternalità negative in punti di forza. L’adattamento consiste, ancora una volta, nella negazione della separazione e, di conseguenza, della sopraffazione per configurarsi come il paracadute che ci salverà dai nostri impatti con la realtà.
Da sottolineare come l’attività del counselor sociolistico abbia assoluto bisogno delle competenze sociologiche in quanto le problematiche psico-sociali del cliente non sono maislegate dalle influenze dell’ambiente circostante ( ia esso l’ambito lavorativo, familiare, amicale). Salute, quindi, in senso molto ampio, dall’antico ma mai obsoleto concetto olistico proposto dal primo grande medico della storia Ippocrate che credeva che la salute passasse attraverso l’equilibrio delle tre parti di cui è fatto l’uomo: bio -psico- sociale. Ovvero, ciò che accade nella nostra sfera emotiva, nella nostra psiche ha contatti con il nostro organismo e con la nostra sfera sociale.
La dimensione sociale non la ritroviamo soltanto nelle motivazioni a monte del counseling sociolistico come approccio adatto a risolvere disagi di natura psico-sociale, quindi, correlate sistematicamente all’ambiente, ma questa dimensione sociale è riscontrabile anche a valle quando facciamo riferimento all’intelligenza sociale. L’intelligenza sociale è la capacità di relazionarsi con gli altri in maniera efficiente, costruttiva e socialmente compatibile. Solitamente questo tipo di logica intellettiva è presente negli individui dotati di grande senso autocritico e di spiccata vena creativa. I suoi aspetti più importanti sono due: l’empatia e la comunicazione. Il counselor sociolistico, rintraccia nella sociologia quelle tecniche comunicative in grado di accrescere le capacità del cliente, rendendolo consapevole delle zone di ombra e di luce dei suoi rapporti sociali . Di fatto, l’intelligenza sociale può essere destinata a due finalità: comprendere fenomeni della società e dall’altro a comprendere le interazioni ed a prevedere le ricadute che i comportamenti individuali e di gruppo possono avere sulle altre persone. Intelligenza sociale è la competenza sempre rinnovabile e migliorabile che ci consente di costruire relazioni soddisfacenti con le altre persone nella più vasta sfera dei rapporti sociali (wikipedia).
Da questo modello di cura orientato alla salutogenesi e al benessere psico-sociale, forgiamo quello che è l’Individuo Olistico: l’uomo e la donna che concentra nell’unità la molteplicità e si ritrova a riconnettere in un’unica nuova narrazione la propria visione del mondo facendo appello a quegli aspetti da sempre trascurati o messi al bando dal mondo accademico e dalle scienze in generale, quali l’intuito, la creatività e le emozioni guardati con tanta ostilità dai razionalisti positivisti. La tendenza dominante è fondata su due valori:
il Wellthiness, composto a sua volta da benessere, salute e felicità. Il benessere è inteso non come ben-avere ma come esperienza olistica che attinge a più campi vitali, interiori ed esteriori all’individuo, da quello psicologico all’emozionale, dal relazionale al sensoriale. La salute assume anch’essa una connotazione olistica in quanto non è più concepita come cura del proprio corpo, ma più ampiamente sia come valore primario a cui ambire modificando il proprio stile di vita e sia come target utile ad una migliore convivenza sociale: la salute di ciascuno dipende dalla salute globale e viceversa. In ultimo, la felicità, viene anch’essa concepita in senso olistico rifacendosi all’antico nozione greca di eudaimonia (2). E’ una felicità non edonistica e autocentrata, ma solidale, relazionale, filantropica, il trarre felicità dal dono della felicità stessa. La qualità di vita del singolo, insomma, non può più essere indipendente da quella altrui. Del resto, questa tendenza dell’uomo nel concorrere alla produzione di felicità è testimoniata anche scientificamente: monitorando i segnali cerebrali di chi decide di essere generoso, di fidarsi dell’altro, si è scoperto che le aree di attivazione del cervello sono uguali a quelle di chi riceve un atto di generosità. C’è una soddisfazione cerebrale nel donare, nel procurare piacere in senso lato che si ritrova nelle radici biologiche della natura umana:
la Natura, è un altro dei grandi valori emergenti. La consapevolezza di vivere su un mondo finito ha allarmato gli ambientalisti che hanno gridato ad uno stile di vita frugale basato sulla sobrietà, richiamando quasi un ritorno al passato poco concretizzabile. La decrescita tanto acclamata e tanto fraintesa, non ha avuto riscontro pratico che ci si aspettava nella realtà. Tuttavia, un inaspettato effetto serendipity materializzatosi con l’inflazione dei beni alimentari, ha riposizionato le priorità degli individui in una nuova scala di valori. Gli attori sociali cercano il risparmio senza rinunciare alla qualità e, quindi, si riversano nei mercati locali, ricercano il rapporto diretto con i produttori, riscoprono l’autoproduzione che illumina nuovamente le menti da quella oscurazione percettiva della natura (Pieroni, 2003).
La rivalorizzazione della natura connessa con lo stato della nostra salute ha permesso il ritorno in auge di antichi metodi di cura e guarigione sepolti da anni di “produzione chimica” della salute. Il counseling è tra questi: un modo innovativo, senza effetti collaterali, pluridisciplinare in grado di produrre salute.
Dott. Sonia Angelisi – sociologa, ricercatrice indipendente, delegata ASI sociologia della salute e delle emozioni.
(2) La parola greca eudaimonia correntemente tradotta con “felicità”, indica uno stato di benessere che comprende sia la soddisfazione personale dell’individuo, sia la sua collocazione nel mondo. Nell’etimologia della parola è implicita l’idea che un buon daimon abbia presieduto all’assegnazione del mio destino, in una sfera più ampia delle sensazioni personali: la mia sorte ha a che vedere con la mia collocazione nel mondo, e non solo con il mio umore, o con i divertimenti della vita privata. Per questo, come spiega Solone a Crespo nel racconto tramandato da Erodoto (I, 21-45), non si può dire di nessuno che sia felice, se non dopo che ha concluso felicemente la sua vita. Nell’etica antica, l’eudaimonia è il bene supremo, quello che vale la pena perseguire per se stesso: ma il benessere in essa implicito è, in sostanza, un buon rapporto con il mondo. Una felicità esclusivamente privata sarebbe stata percepita come una sorta di “felicità degli idioti”. Quando Socrate afferma che chi subisce ingiustizia è meno infelice di chi la commette, sta dicendo che la persona ingiusta, rispetto alla sua vittima innocente, ha un rapporto peggiore con il mondo. Nel mondo moderno, quando si parla di felicità, si intende per lo più la semplice soddisfazione individuale: nella nostra prospettiva, ragionare come Polo non sarebbe scandaloso, perché la nostra “felicità” non dipende in primo luogo dalla nostra “distribuzione” nel mondo, ma dal modo in cui ci sentiamo. Kant, per esempio, tratta la felicità come un’idea i cui contenuti sono empirici e soggettivi: per questo motivo, non si può assumere la felicità come punto di partenza per stabilire quale sia la corretta assegnazione e collocazione degli individui nel mondo; occorre invece trovare una legge morale razionale che possa valere per tutti gli esseri liberi, a prescindere dalle loro sensazioni e opinioni sul piacere. Il problema della felicità, nel senso moderno di soddisfazione personale, si potrà porre solo una volta risolto il problema della corretta collocazione dei soggetti morali nel mondo. Per questo Kant distingue l’uomo virtuoso, cioè colui che fa il suo dovere e si rende degno di felicità, dall’uomo per il quale si realizza il sommo bene, ossia la persona virtuosa che ottiene tutta la felicità che merita. La mia corretta collocazione nel mondo non comporta necessariamente la mia soddisfazione personale: io potrei anche fare il mio dovere senza ricavare la soddisfazione che merito. (http://lgxserver.uniba.it/lei/personali/pievatolo/platone/felix.htm)
Sin dalle sue origini, quella che può essere definita la scienza che studia la società, ha trovato ostacoli alla sua identificazione prima ed alla sua affermazione dopo. Alcuni hanno ritenuto che non ci fosse bisogno della Sociologia perché della società si occupavano altre scienze sociali che si sono sviluppate molto prima: l’economia, la scienza politica, l’antropologia culturale, la psicologia sociale, la demografia, la storia che, evidentemente, trattano esplicitamente o implicitamente della società.
<<== DOTT. Davide Franceschiello
I grandi filosofi dell’antichità (Platone e Aristotele) i filosofi dell’illuminismo (da Hobbes a Montesquieu) non si può dire certo che non abbiano esplicitato osservazioni sui comportamenti sociali. Allora bisognerebbe capire in che cosa si differenzia specificatamente la S. da queste scienze sociali.
La S. è forse una delle poche scienze di cui si può definire l’anno di nascita ufficiale: il 1838 quando, Auguste Comte (1798-1857), nel suo XLVII Cours de philosophie positive, ne parlò esplicitamente, attraverso un neologismo che combinava una parola di origine latina (societas) ed una di origina greca (logos) e siccome il maestro di Comte fu Henry Saint-Simon, va riconosciuto anche a lui il ruolo di fondatore della disciplina. Altri sostengono, molto più genericamente, che la S. nasce quando l’ordine sociale viene sconvolto, quindi nel 1492 con la scoperta dell’America, quando cioè si percepisce che il mondo non è circoscritto e la società passa da tradizionale medioevale di tipo religioso a moderna. La S. nasce dalla rivoluzione scientifica, dalla rivoluzione industriale del ‘700, dalla rivoluzione francese, quindi politica. La S. nasce quindi quando la società si trasforma e ci si pone il problema di capirne le ragioni del cambiamento per riuscire a controllarlo. Possiamo quindi dire che Comte fu il primo a porsi il problema di studiare la società applicando un metodo scientifico che consiste nello sviluppare un’ipotesi, verificarla mediante la raccolta di dati, accertarsi se è vera o falsa
Un altro pioniere fu Herbert Spencer (1820-1903) sociologo inglese che ispirò i primi sociologi statunitensi. La piena maturità arriverà però a cavallo tra il finire del 1800 e i primi anni del 20° secolo, quando operarono: in Francia, Émile Durkheim (1858-1917); In Germania: Georg Simmel (1858-1918), Ferdinand Tönnies (1855-1936) e Max Weber (1864-1929); in Italia, Vilfredo Pareto (1848-1923) e i “fondatori” americani, da Lester Ward (1841-1913) a Charles Cooley (1864-1929). La S. divenne materia di insegnamento universitario in Francia e USA e sul finire dell’‘800 presero il via alcune importanti riviste sociologiche: Revue Internationale de Sociologie (1893), l’American Journal of Sociology (1895), la Rivista Italiana di Sociologia (1897), l’Année Sociologique che Durkheim cominciò a pubblicare nel 1898. Sempre in Francia fu fondato l’Institute International de Sociologie. La S. è quindi un fenomeno espressamente occidentale, dell’Europa occidentale in particolare, sicuramente collocata in un’epoca post rivoluzionaria. Molto difficile quindi che rappresenti solo un caso il fatto che se ne sia sentita l’esigenza all’indomani di forti sconvolgimenti sociali.
Fu l’avvento della società industriale, vista come sinonimo di progresso ed emancipazione, di libertà dalla fame e povertà, ma soprattutto di eguaglianza avverso consolidati rapporti gerarchici di sudditanza e deferenza. Fu il periodo di straordinari processi di migrazione e inurbamento, dei tempi della fabbrica avverso i tempi fisiologici, dei rapporti impersonali e di scambio in sostituzione di quelli naturali a dare il via alla S. che non poteva che nascere a fronte di una radicale trasformazione della società e dal desiderio di doverla studiare, di capirne i nuovi meccanismi regolatori. La S. è quindi figlia del mutamento, dei profondi cambiamenti dei rapporti tra gruppi sociali e individui, tra capitale e forza lavoro. Marx ed Engels, nel Manifesto del partito comunista del 1848, sono i primi a parlare di conflitto di classe come grande forza della storia e motore del mutamento sociale. Tanti altri furono i sociologi che, ovviamente, si susseguirono ai pionieri e anche di grande spessore, così come tanti furono i sociologi italiani che hanno avviato la disciplina non certo senza difficoltà.
Anche in Italia, a cavallo degli ultimi due secoli, si sviluppò una buona tradizione sociologica, d’altronde i temi da affrontare non mancavano certo: l’arretratezza rurale e la miseria diffusa tra i contadini, i punti cardine. Tra i primi “nemici” della S. italiana ci fu Benedetto Croce che ne negava la legittimità di scienza empirica già dal 1898, ritenendo la Storia e l’Economia come uniche scienze destinate ad occuparsi dei fenomeni sociali. Questa negazione rallentò sicuramente lo sviluppo di una S. italiana non ancora affermata. Addirittura, uno studioso crociano, Carlo Antoni, riferì in modo dispregiativo della S. come la “scienza dei manichini”. Nel periodo tra le due grandi guerre la S. sopravvisse sotto altra denominazione e coltivata da specialisti di altre discipline, mentre la “Rivista italiana di sociologia” concluse le sue pubblicazioni nel 1921 e così la Società italiana di sociologia cessò la propria attività. Il regime fascista fece il resto, la “curiosità” della S. non poteva essere certo funzionale agli scopi propagandistici ed ai destini imperiali della nazione. In Germania, invece, il processo di Gleichschaltung impedì una sorta di asservimento al regime nazista. Invero il regime comunista guardò con molto sospetto il presentarsi della S., la quale avrebbe potuto smascherare i problemi che affliggevano la società da questo dominata.
Nel secondo dopoguerra la S. era praticamente scomparsa dal panorama accademico italiano. L’unica cattedra presente nella Facoltà fiorentina di Scienze Politiche era nata dalla trasformazione di una cattedra di Storia e dottrina del fascismo. Non solo, nel mondo universitario si registravano anche molte ostilità, specie da parte dei giuristi e degli storici, soprattutto quelli di formazione crociana che intravedevano nella S. il prodotto della cultura positivistica. Non più teneri erano filosofi, mentre più disponibili al dialogo erano i demografi e gli statistici anche se spesso legati a prospettive organicistiche che ne avevano favorito la collusione con il fascismo. Anche gli economisti mostravano vicinanza ai sociologi, ma poca roba. Insomma, tranne qualche caso vigeva l’ostracismo dell’Università italiana verso la S., né tantomeno c’era spazio per la formazione sociologica. Solo qualche organizzazione privata come l’Ufficio Studi Olivetti favori le indagini di sociologi americani, tutt’al più di origine italiana come Paul Campisi, che, venuti a studiare la società italiana del dopo guerra, no disdegnarono di accogliere diversi giovani che volevano accingersi alla S. Così anche il Centro di Prevenzione e Difesa sociale di Milano, associazione fondata da alcuni magistrati milanesi che annoverava una sezione dedicata alla S. e che nel 1954 ebbe modo di organizzare un congresso internazionale di studio sulle aree arretrate del Paese e negli anni a venire si impegnò anche per nel processo di istituzionalizzazione delle scienza sociali. Pian piano sorsero in tutta Italia altri centri di ricerca: a Portici, per mezzo di un gruppo di economisti agrari guidati da Manlio Rossi Doria e a Roma dove venne fondato un centro di orientamento cattolico, l’Istituto “Luigi Sturzo”.
A seguire la SVIMEZ, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, con giovani studiosi che cominciarono a sviluppare ricerche sociologiche. Nel 1951 poi a Torino, Nicola Abbagnano fondò, insieme al suo allievo, Franco Ferrarotti, i “quaderni di Sociologia”, una rivista che cominciò a pubblicare alcuni rapporti di ricerca e articoli di matrice sociologica. La giovane S. italiana aveva bisogno di importanti riferimenti e questi furono orientati verso la consolidata S. americana: su “The Structure of Social Action” di T. Parsons, che aprì le porte alla conoscenza di Durkheim e Weber; “Social Theory and Social Structure” di R.K. Merton e i saggi metodologici di Paul Lazarsfeld. Nel 1957 si costituì l’Associazione Italiana di Scienze Sociali e nel ’59 si tenne, tra Milano e Stresa, il quarto congresso mondiale di S. La fase pionieristica sembrava essere giunta al termine, ma nelle università la S. stentava a decollare. Cominciò ad entrarvi in “ordine sparso”, sfruttando alcune sensibilità locali e l’appoggio condizionato di alcuni “baroni”. Il prezzo da pagare consistette nella dispersione dei sociologi ed il conseguente isolamento nelle università, unito all’assenza di centri di ricerca. Negli atenei di Torino, Milano, Pavia, Padova, Bologna, Firenze e Roma, tra le facoltà di Lettere e Scienze Politiche, “comparirono” insegnamenti sociologici, ma nulla di definito e direttamente riconducibile alla S.
Purtuttavia è proprio grazie a questi “focolai” di S. che poté sorgere la prima vera e propria facoltà di S. italiana, l’ISSS (Istituto Superiore di Scienze Sociali) di Trento. Non più quindi solo disciplina impartita nelle facoltà umanistiche, ma si istituzionalizza la presenza accademica della S., dotata di propria autonomia, e si avvia il graduale, seppur lento, processo di riconoscimento pubblico, nonché dei titoli di studio e quindi dell’utilità delle conoscenze da essa prodotte. Nel mondo della scienza le novità risultano spesso indigeste però e così le vessazioni verso la S. continuarono: reiterati furono i tentativi di Maranini e Miglio di bloccare la Facoltà di S. e di trasformarla in un indirizzo del corso di laurea in Scienze Politiche. Così come risultavano ancora pressanti le indifferenze da parte degli studiosi di stampo crociano. Grazie a Trento però, alcuni settori del mondo intellettuale, laico e cattolico, cominciarono a percepire la S. come un mezzo per avviare rigorose analisi dei fenomeni sociali in essere: i problemi della crescita economica del Paese e le connesse trasformazioni sociali. Andava via via prendendosi in considerazione l’idea che le altre materie sociali e umanistiche non fossero pienamente in grado di comprendere le trasformazioni sociali e di regolamentarle, ma che per completarsi c’era bisogno della S. Trento quindi aprì le porte dell’accademia alla S e i suoi piani di studio divennero punti di riferimento per i corsi di laurea di S. nate in Italia tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’90
Nel 1970 ad Urbino ed alla Sapienza partirono i corsi di S., trasformati in facoltà nel ’91; all’Università della Calabria parte nel ’72 una Facoltà che aveva l’ambizione di distinguersi dal panorama accademico nazionale: Scienza Economiche e Sociali, che aveva un indirizzo economico ed uno sociologico. Ma i guai non erano finiti perché, nonostante il mondo politico, in un primo momento, aveva intravisto nella S. la disciplina capace di formare i quadri della Democrazia Cristiana (Flaminio Piccoli al Nord e Ciro De Mita al Sud) negli anni di piombo non ebbe difficoltà a prendere le distanze dai sociologi, intravisti come pericolosi terroristi. È stata ancor più screditata da parte di personaggi come Renato Curcio e Tony Negri, qualificatisi come sociologi. Quindi per alcuni Sociologia era la facoltà dei terroristi rossi e dei sovversivi comunisti. Più tardi poi, nel ’94 nasce la facoltà di S. presso la Federico II di Napoli e nel ’98 quella presso Milano Bicocca.
In questi anni la S. italiana cominciò a studiare il processo di trasformazione della propria società, gli squilibri tra Nord e Sud, i fenomeni migratori legati a questi squilibri, la crescita industriale e la conurbazione dovuta allo spopolamento delle campagne, il sistema politico. Con la riforma Berlinguer-Zecchino del 2001 si ebbe poi una moltiplicazione degli insegnamenti sociologici quasi mai accompagnata però da un’altrettanta crescita degli insegnamenti metodologici inerenti la ricerca tout court e le tecniche di raccolta dei dati, tutt’a favore invece della sociologia espressiva. Non posso non essere d’accordo, a tal proposito, con chi sostiene che la S. debba essere una disciplina scientifica, empiricamente fondata, unico modo per verificare le ipotesi di ricerca e mettere a punto rigorose descrizioni della realtà sociale, risorse economiche permettendo! Da qualche anno a questa parte invece le analisi della realtà sociale e le risposte ai problemi da questa emergenti vengono lasciate a più o meno validi “sondaggisti” con competenze oceanografiche, giuridiche o giornalistiche quando va bene. Sempre meno sociologi sono chiamati infatti a leggere la realtà sociale da cui farne derivare opportune politiche pubbliche o esplicite riflessioni sui modi di governare la realtà sociale.
In Italia si organizzano molti festival di studio su letteratura, economia, diritto, storia, ma nessuno sulla S., ma anche in altri Paesi la situazione non è molto diversa: nel libro del sociologo inglese, J.H.Goldthorpe (On Sociology), si mette in evidenza come sempre più governi non finanzino la ricerca sociologica, troppo spesso ricondotta ad espressioni letterarie dei fenomeni sociali o di critica sociale anziché fondate su rivelazioni scientifiche basate: sul paradigma della scelta razionale e/o sulle matrici di dati elaborabili statisticamente, relative a campioni o ad intere popolazioni, quella che lo stesso Goldthorpe definisce QAD+RAT (Quantitative Analysis of Large Scale Tada-Sets + Rational Action Theory). Sulla stessa linea il sociologo Raymond Boudon, il quale ritiene che solo la ricerca scientifica potrà dare nuovo prestigio, e finanziamenti, alla S. In altri termini ci troviamo dinanzi alla dicotomia tra sociologia accademica e sociologia applicata e su quanto risulti opportuna l’una anziché l’altra. Certo è che molti studenti avrebbero preferito che almeno una parte dell’insegnamento fosse orientato alla creazione di professionalità più facilmente spendibili sul mercato del lavoro, ma la perenne crisi occupazionale, in specie quella giovanile, affiancata da un’ottusa visione prospettica degli sbocchi lavorativi ha invece spinto verso la didattica delle ambizioni culturali e accademiche, riducendo la S. ad una scienza di nicchia, da orticello accademico, di contestazione molto teorica e poco pragmatica, distante anni luce dai centri di decisione amministrativa, locale e nazionale. Il prof. Giuseppe De Rita cosi si esprime in merito: “Se la classe dirigente del lavoro sociologico non ha saputo dare contorni e significati precisi alla presenza della S. nelle Università, nonpotevamo aspettarci certo che avessero idee più chiare i giovani che nell’università entravano. E dovevamo in qualche modo aspettarci che i percorsi formativi dei giovani fossero, come certifica la ricerca, percorsi di nomadismo accidentato e incoerente”.
Che la S. abbia perso la sua pragmaticità è riscontrabile anche nelle migliaia di definizione della stessa e di come i tanti interpreti l’abbiano intesa in modi differenti, tanto che i sociologi stessi, ad oggi, hanno difficoltà a circoscrivere i loro stessi ambiti di azione. La S. è una scienza empirica, fondata sulla pratica, non è filosofia, non è speculazione teorica sulla società, Il sociologo, come dice Ferrarotti:”… deve sporcarsi le mani..”, deve inoltre essere curioso di natura e non dare nulla per scontato. In caso contrario smetteremmo di interrogarci sul perché degli eventi, dei mutamenti, delle circostanze, su come controllarli o adattarli alle nostre esigenze e su quali alternative lavorare. La S. è quindi la risposta a mille domande per cercare di comprendere la realtà, alla quale deve affiancarsi per poterla osservare e studiare, analizzare senza pregiudizi o preconcetti. “Una conoscenza critica, scrive il sociologo Marco Omizzolo, che si unisce ad una coscienza consapevole del ruolo sociale del ricercatore e che non si limita a fotografare la realtà o a scomporla per analizzarla, ma interviene in essa organizzando percorsi e agenti di un cambiamento partecipato e innovativo”. Io faccio sociologia nel momento in cui immagino soluzioni ai problemi che incontro, includendo gli interpreti dei fenomeni, ossia metto in pratica quella “osservazione partecipante” che mi permette di essere parte integrante della realtà sociale che sto osservando, di essere io stesso ricercatore e ricercato come scrive Ferrarotti. “Si può restare, continua Omizzolo, solo ricercatori dinanzi ad un uomo che racconta di lavorare quattordici ore al giorno, tutti i giorni del mese per 300 euro?” Si può rimanere solo ricercatori dinanzi alla violenza perpetrata su donne, minori, anziani, disabili, dinanzi alla miseria dilagante delle nuove povertà? Ci si può trasmettere queste nozioni solo tra addetti ai lavori, tra protettori di torri d’avorio, o invece escogitare, pianificare una metodologia di ricerca partecipata e inclusiva! Questa, per me, la nuova frontiera della Sociologia, fatta di coinvolgente prossimità, intrisa di cambiamento e foriera di passione. Elaborativa di una weltanschauung di pace e giustizia sociale, “…di un’azione ispirata alla non violenza per stabilire, in contesti vocati alla violenza, la premessa per il suo superamento (Danilo Dolci).
Il sociologo Francesco Lembo scrive: “le complessità sociali possono diventare risorse compatibili e possono diventare fattori di spinta capaci anche di muovere sviluppo. Da qui l’importanza della S. e del sociologo nei percorsi di ricerca – Il nostro Paese affronta oggi, con grande difficoltà, i temi epocali di una società multietnica ed il non facile rapporto tra individualismo e globalizzazione. Fattori estremamente complessi a cui solo la S. può fornire le risposte adatte”.
Insomma ci sarebbe da lavorare a piè spinto per i sociologi e l’emergenza coronavirus rappresenta un altro profondo mutamento sociale che apre il campo a tantissimi altri studi visto che con la pandemia i comportamenti sociali degli individui, le relazioni umane sono totalmente cambiati e Dio solo sa per quanto ancora. Negli USA o UK, in Germania e Francia, la S. è utilizzata negli studi di mercato, in quelli politici ed elettorali, nonché nella programmazione sociale. Le ricerche sociologiche vengono utilizzate da imprenditori, manager, dirigenti pubblici e soprattutto dai politici. In Italia abbiamo avuto modo di accennare che invece la figura del sociologo è stata, forse troppo facilmente, soppiantata da altre figure professionali a cui è stata ceduta una quota consistente di operatività in cambio di un mero riconoscimento a livello accademico. Politologi, sondaggisti, ingegneri, manager, economisti, forniscono risposte al posto dei sociologi, relegati sempre più ad un ruolo marginale. Nell’immaginario collettivo la S. non riveste un ruolo pratico, la natura del sociologo risulta sempre più indefinita, è tutto e niente allo stesso tempo. Il 90% dei laureati in S. fa mestieri impiegatizi o d’insegnamento che non hanno attinenza con la laurea ed il restante 10% che sviluppa, più o meno, S., parrebbe il più frustrato. Ciò emerge dal libro del prof. De Rita (Immagini e rappresentazioni di una professione non realizzata. Profili formativi e professionali dei laureati in sociologia) secondo il quale: “i laureati che hanno trovato posto nella ASP e nei servizi sociali degli enti locali hanno dichiarato di svolgere un lavoro subalterno, frammentario, accessorio o considerato ingombrante dai responsabili delle istituzioni in cui si trovano ad operare”. La concorrenza poi, come detto, è esponenzialmente aumentata, la Facoltà di Scienze Politiche è stata parificata a quella di S., psicologi, laureati in lettere, si vanno ad aggiungere alle professioni già citate. Ritorna così il problema di definire e circoscrivere la professione del sociologo per impedire “invasioni di campo”. Manca il riconoscimento della figura professionale del sociologo e delle sue attività, che siano di ricerca o di applicazione delle soluzioni derivate dalla ricerca scientifica.
Per l’ISTAT il sociologo è uno studioso dei fenomeni sociali e dei rapporti tra individui, gruppi e organizzazioni; Alberoni ha definito il sociologo come una categoria multiforme, un mostro a 100 teste in pratica, il “sociologo errante”; Ferrarotti riconosce al sociologo il ruolo, oltre che di ricercatore, di facilitatore dei processi economici, sociali e comunicativi, supervisore nel campo dell’assistenza sociale. Per altri ancora potrebbe occupare un ruolo strategico in settori multidisciplinari: nel settore amministrativo, nelle scienze umane e nel settore educativo. In molte cooperative viene impiegato come coordinatore dei servizi educativi e prima che venisse definita l’obbligatorietà della laurea in pedagogia ricopriva il ruolo di educatore vero e proprio. Ma il problema è proprio questo che il sociologo “vaga” o “erra” come scrive Alberoni, non ha una meta precisa, una identificazione specifica che altre categorie professionali hanno. Gli educatori, con la loro associazione, l’APEI (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani) sono riusciti a farsi riconoscere delimitando il loro raggio di azione, e così psicologi e soprattutto assistenti sociali. I sociologi sono attenti, troppo, a conservare il loro spazio unicamente nelle “torri d’avorio” delle università. Negli anni ’70 e ’80 il sociologo veniva impiegato soprattutto nella pubblica amministrazione, la crisi economica ed il blocco dei concorsi pubblici ha ridotto questa possibilità. Ma gli sbocchi lavorativi sono tanti: studioso dei fenomeni sociali, coordinatore/pianificatore dei servizi e delle politiche pubbliche; progettista sociale ed europrogettista, giornalista, esperto in risorse umane e in marketing e comunicazione; come visto può essere impiegato nel campo amministrativo, del welfare e dei servizi sociali, ma anche nelle politiche attive del lavoro; infine, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, conosciamo colleghi sociologi che fanno i CTP e CTU. Il problema, quindi, non è relativo alla mancanza si sbocchi lavorativi, il problema fondamentale è che il sociologo non è una figura professionale riconosciuta dal mondo del lavoro
L’Italia non investe in ricerca, in nessun campo, il settore for profit non offre spazio ai sociologi, pur essendo una figura strategica. In Italia poi abbiamo sulla testa il pesante macigno delle corporazioni di stampo fascista e delle loro “liste di proscrizione”, gli albi. Così l’economista si tiene ben stretto il suo campo di azione, l’assistente sociale ha trincerato il suo con il proprio albo, il consulente del lavoro è stato accessibile al sociologo fino al 2014, oggi non più, mentre ci sono sempre più professioni che rosicchiano giorno per giorno fette di mercato del lavoro ai sociologi che, non essendosi mai nascosti dietro la costituzione di un albo, dinanzi ad un assetto normativo siffatto, dinanzi ad una figura professionale sconosciuta o comunque non meglio identificata di altre, devono sgomitare per affermare la loro professionalità.
Un buon passo in avanti è stato fatto dall’Associazione Sociologi Italiani, ultima arrivata nel panorama delle associazioni di sociologi (2016), ma unica riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come iscritta nell’elenco delle Associazioni non ordinistiche che possono rilasciare ai propri soci l’attestato di qualità e di qualificazione professionale dei servizi prestati, in base agli articoli 4,7,8 della legge 4/2013. Con l’iscrizione all’elenco del MISE viene garantita la tutela dei cittadini in relazione alle prestazioni professionali degli iscritti, la valorizzazione delle competenze attraverso la formazione professionale, il rispetto delle regole deontologiche e quelle sulla concorrenza così come le professioni organizzate in ordini. Ma ora il secondo passo dell’associazione sarà quello del riconoscimento sostanziale della figura professionale del sociologo, della sua centralità all’interno del mercato del lavoro pubblico e privato attraverso la tutela da parte del Diritto. Un riconoscimento de facto per la definizione identitaria del Sociologo, per l’attivazione di strumenti giuridici di tutela come il riconoscimento dell’esercizio abusivo della professione sociologica e la creazione delle condizioni per la promulgazione di una legge che preveda l’assunzione obbligatoria dei sociologi per attività sensibili che riguardano le competenze degli stessi in enti pubblici e privati.
«La Sociologia è la scienza dell’interconnessione dei vari aspetti della vita sociale reciprocamente condizionati. Una disciplina scomoda fondata su curiosità, la cui ambizione folle è quella di arrivare al significato profondo delle cose e chiarire la natura di molte complessità» (Franco Ferrarotti)
dott. Davide Franceschiello – Segretario generale nazionale e Presidente della Deputazione ASI Calabria.