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EDUCAZIONE CIVICA NELLE SCUOLE: IL RUOLO DEL SOCIOLOGO ALL’INTERNO DI QUESTO CONTESTO

Innanzitutto l’educazione civica  è lo studio delle forme di governo di una cittadinanza, rivolgendo la sua attenzione al ruolo dei cittadini, alla gestione e al modus operandi dello Stato e della Statualità in generalis. Essa opera all’interno di una determinata strategia politica (politics/polity/policy) apportando notevoli principi etici alla base della civiltà di un popolo ove vige convivenza e senso di appartenenza ad una comunità.

<<== Francesca Santostefano

Ed è proprio il senso civico (ossia un aggregato di comportamenti e atteggiamenti posti in essere volti al rispetto degli altri e delle regole di vita in una comunità) a garantire un equo atteggiamento conforme  alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. All’interno di una determinata politica o tradizione etica, l’educazione civica consiste nell’educazione attiva dei cittadini. Altresì  la storia dell’educazione civica non è di per sé remota anzi risale alle prime teorie formulate da Platone nell’antica Grecia insieme ad altre illustri menti le quali hanno contribuito ad elaborare i concetti, estremamente innovativi per l’epoca, di giustizia e di diritto (ius) da attuare nella vita pubblica che saranno poi ripresi dalle grandi menti contemporanee.

Oggigiorno il mondo della scuola italiana ha bisogno più che mai di “educare” le nuove generazioni ad un senso civico diciamo tralasciato in quanto a prevalere è stata un società bistrattata e loco di atti spesso vandalici ed incivili frutto di un obietto regredire di un popolo democratico. Pertanto dall’anno scolastico 2010/2011 si è cambiato nome all’insegnamento di educazione civica, passando al nome “Cittadinanza e costituzione“. Esso comprende appunto cinque argomenti: educazione ambientale(rispetto per l’ambiente e la natura), educazione stradale (Codice della Strada), educazione sanitaria(regole basilari di pronto soccorso), educazione alimentare e Costituzione italiana. Si è arrivati ad introdurre di nuovo l’educazione civica, come descritta sopra, dopo un periodo di due anni scolastici di sperimentazione (2008/2009 e 2009/2010).

L’insegnamento è presente per tutti gli istituti di ogni ordine e grado nella misura di un’ora settimanale all’interno delle materie di storia e geografia. Come è noto la legge 20 agosto 2019, n. 92, concernente “Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica” e, in particolare, l’articolo n° 3 ha previsto che con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca fossero definite linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica con le quali individuare, ove non già previsti, specifici traguardi per lo sviluppo delle competenze e obiettivi specifici di apprendimento, in coerenza con le indicazioni nazionali per il curricolo delle scuole dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, nonché con il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari e con le Indicazioni nazionali per i licei e le linee guida per gli istituti tecnici e professionali vigenti. La scuola va vissuta come una comunità educativa e dev’essere il mezzo che, non solo fa imparare le scienze e le tecniche, ma aiuta a crescere in umanità.Il sociologo (esperto analista dei fenomeni sociali e delle sovrastrutture che oggi giorno sovrastano la comunità attuale) , nella moltitudine di ruoli che esso svolge , rientra anche nella sua formazione socio/umanistico giuridica, il computo di poter addivenire all’insegnamento di tale materia e di fornire le basi adeguati in tale contesto.

Chi se non  gli sociologi possono riservarsi tale accortezza ed “avvedutezza” avendo di base un bagaglio formativo riguardante tali tematiche. Cittadinanza è relazione, è qualità della vita, è partecipazione attiva  integrazione ed inclusione nella collettività, è azione culturale per un futuro responsabile. Cittadinanza è senso di appartenenza. C’è un cambiamento in atto che si muove nel solco della Costituzione. E i cittadini ne sono protagonisti. Se il sistema partitico, in profonda crisi, non sembra più offrire efficaci soluzioni ai problemi di interesse generale, la spinta rinnovatrice viene dalla cittadinanza attiva con la nascita della Carta costituzionale e l’introduzione di diritti sociali fondamentali si delineano quei principi che, di lì a poco, avrebbero guidato le forze sociali verso il cambiamento e l’affermarsi di un nuovo modo di essere cittadini. CITTADINANZA intesa come STATUS per cui l’analisi delle reti sociali non può essere asettica, decontestualizzata: “molte discussioni sulle reti informali ignorano spesso le dimensioni politiche ed economiche del supporto informale”. Pertanto questo periodo che i sociologi chiamano modernità ha fatto registrare una fortissima globalizzazione della vita sociale, un processo generale di interconnessione che interessa gli scambi economici, le relazioni politiche il turismo la tecnologia. L’interdipendenza e la mobilità geografica dell’umanità hanno raggiunto oggi livelli senza precedenti.

Dal modello paradossale Hobbesiano di stato di natura si è passati anzi si è trasmigrati allo Stato di Diritto, una relazione che ha visto vari passaggi sociologici ed empirici ed è pertanto l’acutezza dello scienziato sociale il quale riesce a carpire i meccanismi intrinseci che si celano attraverso tali processi di cambiamento (dall’Homo Sociologicus all’ all’Homo Economicus). Il diritto e la sociologia sono discipline interrelate fra di loro le quali mirano  a regolamentare la vita e la condotta di tutti noi e costituiscono il fondamento dell’organizzazione sociale. “Ubi societas ibi ius!” dove c’è la società c’è il diritto ,società e diritto sono inscindibili. Sociologia cittadinanza e costituzione: due facce della stessa medaglia, un legame indissolubile fatto di temi concatenati l’uno all’altro, pertanto è indispensabile che i sociologi si assumano tale onere di poter guidare la nuova generazione verso la costruzione di una nuova società post Covid. La società del rispetto!

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La forza riformatrice della cittadinanza attiva., Un altro modo di costruire la sfera pubblica.

Orizzonte scuola., Educazione civica da settembre.

Rossi L., Cittadini in rete., Rizzoli.  

Senso civico., Atteggiamenti e comportamenti dei cittadini nella vita quotidiana.

 Spazio docente insegnare storia., Formazione del sé ed educazione alla cittadinanza in Platone (prima parte).

Una volta l’educazione civica.


Tre domande a… Giorgio Benvenuto

di Patrizio Paolinelli

Occorre individuare nuovi meccanismi che prevedano la presenza dello Stato nei settori economici strategici del Paese”

<<== Giorgio Benvenuto

Nel mondo politico ha fatto molto rumore l’apertura di Romano Prodi a un governo che includa Forza Italia. Cosa ne pensa

Patrizio Paolinelli ==>>

Mi pare che ci si stia convincendo che non continuare ad andare avanti con un clima di contrapposizione politica come l’attuale. E, badi bene, la contrapposizione non è solo tra maggioranza e opposizione ma anche interna agli stessi schieramenti. Siamo alla guerra di tutti contro tutti. Consideri poi la situazione del Paese. A causa della pandemia c’è disagio, incertezza, confusione e le istituzioni hanno affrontato l’emergenza sanitaria in maniera disarticolata tra di loro. Perciò penso che Prodi abbia voluto lanciare un segnale per riportare la dialettica politica a un confronto tra parti che si rispettano e non si demonizzano a vicenda. Credo anche che abbia voluto richiamare l’attenzione dell’Italia sul fatto che sui temi dell’Europa all’interno degli altri Paesi dell’Unione i partiti sono abbastanza compatti, mentre da noi le divisioni sono profonde e non riusciamo ad approfittare dell’abbandono della linea dell’austerità da parte di Bruxelles. Ritengo che, seppure a una prima lettura l’uscita di Prodi appaia come l’inizio delle grandi manovre in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, si tratti in realtà di un modo per uscire dalla paralisi politica e amministrativa nella quale siamo finiti.

Sul tema delle concessioni autostradali è un corso un confronto tra i 5 Stelle e gli altri partiti della maggioranza. Al di là di come andrà a finire non le sembra che questo confronto abbia il merito di riportare al centro del dibattito politico la questione delle privatizzazioni?

Indubbiamente. Se non ci fosse la stagnazione e la confusione in cui ci troviamo penso che andrebbe fatta da parte di tutti, maggioranza e opposizione, una seria riflessione sul fallimento della politica delle privatizzazioni. Politica che ha portato a escludere la presenza dello Stato in settori cruciali per l’economia del Paese col risultato di dividere l’Italia in un Nord sempre più avanzato e un Sud sempre più arretrato. Vorrei ricordare che con le partecipazioni statali c’era maggiore concorrenza di oggi, c’erano imprese pubbliche competitive a livello internazionale, vennero realizzate infrastrutture che fecero crescere l’intero Paese e così via. Non dico che si debba tornare al passato, però le privatizzazioni hanno dato dei risultati negativi. Tra cui appunto le autostrade. Ma in generale i privati che sono subentrati allo Stato non hanno saputo mantenere l’Italia ai livelli di progettazione, realizzazione e innovazione precedenti. La grande impresa è in decadenza e abbiamo un pulviscolo di piccole aziende che non sono in grado di confrontarsi adeguatamente col mercato globale. Occorre quindi individuare nuovi meccanismi che prevedano la presenza del pubblico nei settori economici strategici del Paese. È così in Francia, in Germania e persino negli ultraliberisti Stati Uniti.

Finalmente è stato varato il decreto semplificazioni. La soddisfa?

No, sono molto deluso. A mio avviso non è un provvedimento che ci permette di correre. Ci sono troppe riserve e troppe contraddizioni e non consente l’avvio di processi decisionali rapidi. Cosa di cui invece ci sarebbe molto bisogno. Come si usa dire gli errori derivano dalla testa. Perché l’esempio che danno governo, maggioranza e persino opposizione è quello dell’inconcludenza. Prenda il caso del Mes: non si riesce a decidere. Mentre la prima semplificazione da fare sarebbe proprio quella di usare queste risorse per attrezzare il nostro sistema sanitario in previsione di una probabile recrudescenza della pandemia. Purtroppo le iniziative che vengono prese somigliano alla propaganda. Ci sarà una vera modifica quando i decisori politici elencheranno le cose che hanno fatto e che stanno facendo non quelle che promettono di fare. Sono mesi che si sente dire faremo questo, faremo quello e poi? E poi il nulla. Ecco, mi pare beffardo che si parli di semplificazione quando non si riesce ancora a fare le cose essenziali. La prima, investire nella sanità utilizzando le risorse che l’Europa ci mette a disposizione. La seconda, mettere al più presto ordine alla cassa integrazione guadagni, che peraltro viene ancora è pagata in ritardo.

Mi fermo qua perché non è mio compito suggerire programmi. Mi permetta però di aggiungere qualche dato di uno studio della Uil proprio sulla cassa integrazione. Ammortizzatore a cui si è ricorsi massicciamente a causa della pandemia e che ha riguardato quasi otto milioni e mezzo di lavoratori, dei quali cinque milioni a zero ore. Conti alla mano in due mesi le buste paga si sono alleggerite mediamente dal 18% al 37% e un dipendente che, poniamo, guadagnava 1.400 euro al mese ne ha persi poco meno di 450. Si tratta di una perdita consistente del potere d’acquisto delle famiglie italiane. Anche per questi motivi più volte il governo ha annunciato che occorre riformare la cassa integrazione perché va semplificata e perché significa una perdita secca in busta paga. Bene, la domanda allora è: quando, come e in che maniera verrà semplificata? Questa è la risposta che si aspettano milioni di lavoratori non decreti graficamente ben confezionati.


RELAZIONI CHE CURANO: QUANDO ASCOLTO E PAROLE DIVENTANO STRUMENTI DI CURA

Il sociologo, in quanto interprete delle trasformazioni culturali e sociali, diviene professionista fondamentale per quella che si definisce umanizzazione delle cure. Dagli ultimi sondaggi, emerge che il cittadino ricerca sempre più percorsi terapeutici in cui la medicina si carica di componenti umane e relazionali. Tale esigenza comporta una radicale revisione dei sistemi sanitari contemporanei, nonché una trasformazione della relazione medico/paziente.

<<=== dott./ssa Sonia Angelisi

Perché il sociologo?

“La sociologia della salute e della medicina ha fra le sue aree applicative la sociologia clinica, l’educazione e la formazione alla salute, la promozione della salute, la comunicazione della salute, la valutazione della qualità dei servizi, la progettazione sociale finalizzata al benessere e ogni altro ambito scientifico, progettuale e operativo che utilizzi gli strumenti e le conoscenze sociologiche per conseguire finalità di prevenzione, formazione, promozione, cura, riabilitazione, intervento territoriale, organizzazione dei servizi e delle prestazioni, programmazione e progettazione del benessere a tutti i livelli.” (Mara Tognetti. Nuovi scenari della salute)

Dalla definizione di cui sopra, appare chiaro come il sociologo possa inserirsi:

sia come figura di intermediazione  tra operatori sanitari e pazienti, incentivando nuove modalità di relazione e formando gli medici, infermieri e OSS secondo i principi dell’ascolto attivo; inoltre, si possono prevedere azioni concertative che seguano una linea di rieducazione della società nei confronti del malato: un’azione sinergica che vede coinvolte istituzioni, ambiente, mondo associativo.  Una sorta di CITTADINANZA SANITARIA definita come quel processo di coinvolgimento dei cittadini nella costruzione del bene salute e nella sensibilizzazione verso chi è meno fortunato di noi – malattie congenite, disabilità, malattie invalidanti.

e sia come professionista della promozione della salute, mettendo in atto nell’ambito della sociologia clinica e della socioterapia, tutte quelle strategie operative in grado di agire in un’ottica salutogenica sia nei confronti del singolo sia all’interno di gruppi, coppie, famiglie. EDUCARE ALLA SALUTE significa insegnare ad apprendere quelle regole necessarie a preservare al meglio il nostro stato di salute, prevendendo tutte quelle situazioni che lo potrebbero alterare. Quindi, stili di vita fatti di corretta alimentazione, attività fisica, sane relazioni sociali. Ma è necessario anche informare sulla eccessiva MEDICALIZZAZIONE E FARMACOLOGIZZAZIONE della vita domestica.

Per umanizzazione delle cure si intende tutto ciò che, pur non guarendo, fa stare meglio perché si basa sull’apertura e sulla comprensione dell’interiorità del paziente, sull’attenzione alla persona come unica e insostituibile, sul malato come essere umano e non numero di posto letto con cui dialogare e apprendere forza e debolezza del trattamento medico. In Italia si parla di umanizzazione in ambito sanitario dal 1992 quando, grazie al Decreto Legislativo n.502, è stato introdotto il principio secondo cui le strutture e le prestazioni devono essere adeguate alle esigenze dei cittadini. 

Un processo di umanizzazione passa in primis attraverso una comprensione della relazione, un riconoscimento dell’altro come entità umana e non solo come sintomo da curare. L’intervento medico, dunque, non si limita alla diagnosi e alla terapia in senso stretto, ma amplia il suo raggio d’azione, il suo sguardo clinico, facendo delle parole uno strumento di cura.

Le parole sono creature viventi
prigioni sigillate dal mistero
(Hugo von Hofmannsthal)

La citazione di questo scrittore austriaco ci serve per mostrare quella che è la potenza intrinseca delle parole, spesso sottovalutata e ignorata. La parola, come ogni allegoria e metafora, non è mera descrizione, ma è un’entità creativa: scegliendola si sceglie e genera una realtà. Un’azione così potente ha un impatto incredibile sulla vita umana: migliore è il nostro uso delle parole, migliore sarà il nostro potere sulla nostra realtà. Esprimere con le parole è curativo:

“Robert Levy, antropologo statunitense, negli anni ’50 condusse degli studi sullo strano alto tasso di suicidi che affliggeva Thaiti. Così scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva la concezione del dolore, fuorché di quello fisico. Davanti al dolore interiore (che ovviamente provavano) i thaitiani non sapevano come reagire, era qualcosa di anormale, non avevano parole per esprimerlo, e reagivano col suicidio.” (https://unaparolaalgiorno.it/significato/parola)

Del resto, parola significa proprio Rivelazione: la parola che apre alla verità, che invita a scoprire.

È  attraverso il linguaggio, da un punto di vista strettamente sociologico, che noi ci mettiamo in relazione con l’altro. Il linguaggio è la prima fonte di socializzazione, il più importante sistema di comunicazione umana e la principale forma di mediazione simbolica. È lo strumento attraverso cui comprendiamo, costruiamo e de-costruiamo la realtà soggettiva. Il contesto sociale ha un’importanza enorme nello sviluppo del linguaggio (Bruner, Vygoskij), poiché tutti i processi mentali, incluso il linguaggio, hanno un fondamento sociale, cioè sono influenzati dalla cultura e si realizzano attraverso le relazioni sociali. Dunque, il linguaggio ha una forte valenza sociale, in grado di organizzare qualitativamente le categorie di pensiero. Il linguaggio determina forme e modi di pensiero, modelli culturali e, quindi, strutture sociali. Dunque, linguaggio come strumento di socializzazione e come  prodotto del contesto sociale di riferimento.

I linguisti Searle e Austin affermano che enunciare una frase significa anche compiere un’azione, quindi abbiamo: atti locutori: l’atto che si compie nel parlare, nel descrivere cose; atti illocutori: corrisponde all’enunciazione performativa, cioè come viene pronunciata la frase: per esempio atti di ordinare, promettere, consigliare; atti perlocutori: descrivono gli effetti più lontani (dalla semplice azione immediata) cioè quelli sui pensieri e sui sentimenti. 

Atti illocutori e perlocutori sono oggetto primario del processo di umanizzazione delle cure, in quanto il come si dicono le cose e i “nervi” che vanno a toccare riguardano proprio la sensibilità di chi parla e di chi ascolta. Le parole, di fatti, sono impegnative per chi le dice e per chi le ascolta. Comunicare una diagnosi infausta non è semplice per il medico il quale cerca di distaccarsi dall’oggetto del suo discorso (la diagnosi in sé) finendo, però, per distaccarsi anche dal soggetto (paziente) a cui è diretto il suo discorso. L’equilibrio empatico da mantenere non è semplice, ma non si può sottovalutare, anche perché le parole hanno un valore curativo, come è stato dimostrato da studi recenti: una ricerca del 2001 ha dimostrato, ad esempio, come le parole del medico concorrano nel modificare la risposta dei pazienti agli stimoli dolorosi e quanto l’aspettativa positiva sull’assunzione di determinati farmaci, migliori l’effetto dei farmaci stessi.

Come attuare una umanizzazione delle cure?

Se tanto è stato fatto in ambito sanitario a livello informativo, riempiendo l’utenza di opuscoli informativi, ponendo attenzione all’ampiezza degli orari di visita giornalieri, e al rapporto tra posti letto e servizi igienici, poco è stato fatto a livello culturale e formativo, come se ancora una volta il problema della umanizzazione delle cure fosse argomento a sé rispetto al rapporto medico/paziente. Eppure, abbiamo visto come è proprio al livello del linguaggio che si deve intervenire in maniera precisa.

Agire sul linguaggio, quindi, capendo innanzitutto che bisogna rendersi comprensibili al paziente. La non comprensione, genera confusione e la confusione genera paura, alimentando così uno stato di ansia che rallenta la capacità di ragionamento, causando così un circolo vizioso. Quindi, come prima azione, è importante evitare di utilizzare un linguaggio troppo tecnico e complesso, perchè rischia di dare luogo a fraintendimenti e confusione.  Inoltre, non rendersi comprensibili con un linguaggio tecnico, rischia di metter in imbarazzo il paziente il quale eviterà di fare domande per non apparire sciocco di fronte al suo medico, il quale sbrigativamente (soprattutto nell’ambito pubblico in cui si accumulano file chilometriche di pazienti), non troverà le parole adatte e la pazienza necessaria per spiegare al proprio paziente cosa accade al suo corpo.

Un dialogo così prospettato, non farebbe altro che minare il rapporto di fiducia medico /paziente e caricare i familiari di uno stress improvviso che non sono in grado di gestire a causa di questa asimmetria informativa.

La comunicazione, dunque, dovrebbe:

essere semplice, no al linguaggio tecnicistico; essere completa, senza tralasciare nulla riguardo all’iter di cura; essere attenta al paziente (comunicare guardando negli occhi, non distrattamente dando ad intendere che si è in procinto di fare altro); verificare la comprensione, chiedendo al paziente di riassumere quanto detto; essere continuativa, cioè non risolversi nell’atto della visita medica, ma garantire un’assistenza al  paziente anche quando torna a casa, attraverso app, messaggistica, qualsiasi strumento che possa far sentire il paziente protetto in una rete di ascolto e cura.

Le parole diventano cura. Ma anche questa affermazione non è propriamente corretta. Non sono le parole in sé a curare, ma è l’atteggiamento globale della persona, il suo rapportarsi all’altro. Forse, allora, sarebbe il caso di parlare di “relazioni che curano”, visto che la comunicazione si fonda sulla relazione, sul riconoscimento dell’altro, ed è proprio la relazione medico/paziente ad essere oggetto del processo di UMANIZZAZIONE DELLE CURE.

Del resto, le parole senza ascolto e senza attenzione fisica (lo sguardo e la gestualità accogliente), diventano parole vuote.

Lo psichiatra Borgna, focalizzandosi sull’uso delle parole, scrive quanto sostiene l’oncologo francese David Khayat: “La chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia sono ovviamente strumenti di cura essenziali per i tumori, ma a esse è necessario aggiungere un altro strumento: quello delle parole. Le parole si dicono, come quelle che si ascoltano; le parole che si condividono, che ci uniscono, che confortano, che feriscono. Le parole sono dotate di un immenso potere: sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare la speranza o la disperazione nel cuore dei malati che, nel momento in cui scendono nella voragine della sofferenza, hanno un infinito bisogno di dare voce alle loro emozioni e al loro dolore, che è dolore del corpo e dolore dell’anima. Quante persone ferite dalla malattia sono lacerate dalle persone troppo violente, troppo dure, troppo inumane che i medici rivolgono loro. Una diagnosi comunicata in un corridoio o a una segreteria telefonica, un gesto ambivalente che lascia presagire indifferenza o preoccupazione, uno sguardo sfuggente al momento di rispondere a una domanda: tutto può causare angoscia o disperazione. Così bisogna scegliere parole che possono essere subito comprese e che non feriscano. Questo è il compito di cura: creare relazioni umane che consentano al malato di sentirsi capito, accettato nella sua fragilità e nella sua debolezza. (…) Le parole non sono incolori, non sono uniformi. (…) Ma le parole, certo, non bastano: se i pazienti hanno la sensazione che non si sia avuto il tempo di ascoltarli, di comprenderli, di prendere coscienza delle loro sofferenze, penseranno che non tutto sia stato fatto per essere loro d’aiuto.” (da Le parole fragili, Borgna)

Ecco, allora, che prima ancora dell’uso delle parole, viene l’ascolto: quello attento, quello empatico, quello attivo in cui il paziente si sente considerato come persona nella sua interezza. Esistono realtà, come quella del Counseling Sociolistico, che potrebbero attivarsi in tal senso prevedendo percorsi formativi per il personale sanitario in modo da vedere finalmente realizzata la volontà di cooperare sinergicamente per una cura più sensibile alle esigenze interiori del malato.

(Sonia Angelisi – sociologa)


APOCALISSE CULTURALE E SOCIOLOGIA CLINICA, DIAGNOSTICA DEL DISAGIO

di Federica Ucci

In generale, quando lo scienziato sociale scende sul campo deve mettere impegno diretto all’interno della società, quindi l’attore sociale diventa centrale sia come singolo che all’interno di gruppi o organizzazioni. Questo è ancora più evidente nel caso della sociologia clinica, nell’ambito della quale il sociologo cerca di cogliere i segnali del condizionamento sociale in atto facendo in modo che ve ne sia consapevolezza da parte dei soggetti sociali.

<<== dott.ssa Federica Ucci

Coinvolgendo anche la loro appartenenza sociale cerca di produrre forme di conoscenza in grado di generare azioni e reazioni a catena che li spingano ad un utilizzo attento di atteggiamenti e comportamenti, con una accentuata capacità di regolazione dei propri interventi, pensando anche alle conseguenze individuali e sociali che ne derivano. La sociologia clinica è pratica, i primi utenti sono i sociologi stessi che però, di fatto agiscono in nome e per conto dei destinatari/utenti finali e possono essere definiti, quindi, dei mediatori scientifici.

Si può parlare di azione-ricerca, invertendo volontariamente l’ordine di questi due termini, in quanto il sociologo clinico svolge in primo luogo un’azione volontaria di sguardo rivolto all’attore sociale, e solo dopo giunge l’operazione di ricerca che stabilisce una circolarità. La sociologia clinica contribuisce ad una acquisizione agevole da parte degli individui sociali della loro identità e del loro ruolo per favorire processi di coesione e solidarietà in modo che il sociologo clinico sia anche agente di cambiamento in grado di rendere i propri interlocutori individuali e sociali a loro volta dei protagonisti del mutamento sociale. Lo specialista di sociologia clinica è quasi un meta-sociologo poiché va al di là della psicologia sociale, dell’antropologia,della psichiatria, dell’etnologia e di altre discipline ancora[1].

L’importanza del ruolo del sociologo di prossimità sta facendosi sempre più strada nell’ambito del lavoro svolto sul campo, soprattutto laddove la relazione d’aiuto diventa fondamentale per superare delle difficoltà strettamente legate alle situazioni di vita all’interno dei contesti di riferimento degli individui.Solo poco tempo fa lo sconvolgimento portato dal Covid-19 ha scosso l’immaginario di tutti facendo riemergere timori ancestrali legati addirittura all’estinzione della specie umana.

Il termine “Apocalisse” (o apocalissi), in latino  apocalypsis ed in greco ἀποκάλυψις vuol dire «rivelazione».Viene usato come titolo o designazione di scritti, canonici o apocrifi, contenenti rivelazioni relative ai destini ultimi dell’umanità e del mondo[2] oppure è utilizzato per indicare una catastrofe, rovina totale, la fine del mondo.[3]

Sono passati quattro mesi dalla dichiarazione dello stato di pandemia, la specie umana è sopravvissuta e si accinge a tornare a quella normalità tanto rimpianta nei mesi di isolamento, quell’ottimismo e quella solidarietà di allora, come ogni cosa nell’epoca postmoderna, stanno diventando sempre più liquidi e si stanno contaminando con le solite routines, se davvero il mondo sarà un posto migliore per gli insegnamenti ricevuti da questa esperienza lo sapremo soltanto quando il tempo deciderà di rivelarcelo inaspettatamente.

Non si è trattata, dunque, di una fine del mondo in senso letterale, ma di quella che il filosofo Ernesto De Martino chiama Apocalisse Culturale in riferimento alla fine di un mondo specifico, nel senso che tutti i mondi possono e devono finire, pensiamo ad esempio all’apocalisse marxiana, che verte non sulla fine generalizzata del mondo, ma sulla fine di una organizzazione socio-economica del mondo.

Possiamo dire che questa visione è molto attuale e di pertinenza sociologica non solo perché nel rapporto Io-mondo entrano in gioco anche la dimensione sociale e quella culturale, ma anche perché a livello ideologico lo stato di attesa di una fine imminente si ripercuote nei rapporti sociali, influenzandoli, diversificandoli, costruendone di nuovi, introducendo contraddizioni all’interno dei gruppi. L’Apocalisse Culturale porta con se una “crisi della presenza” speculare a una “crisi della ragione” o meglio una “crisi di valori”.

A livello ontologico, il “qui e ora dell’esserci” genera relazioni che risentono sia della presenza all’interno del mondo sia del fatto che esse sono inserite in contesti socio-culturali determinati, costantemente minacciati dal rischio di crollare, facendo crollare con essi anche ogni presentificazione,anche l’“esserci”. Questo rischio antropologico costante subisce una continua reintegrazione culturale che garantisce un progressivo e continuo rinnovarsi dell’esserci-nel-mondo, De Martino lo chiama “ethos superumano del trascendimento”, ovvero un essere insieme, caratterizzato come necessità doverosa di schierarsi con quelle forze sociali e culturali che oggi si battono per la costruzione di un mondo migliore. L’essere nel mondo è legato in maniera indissolubile al concetto di domesticità, ovvero ciò che fa sentire il mondo come “proprio”, allontanandolo da ogni inquietante estraneità e facendolo percepire, quindi, come “normale”.

La nostra identità è dunque inscritta in tutto ciò che la circonda, nella propria comunità culturale. Quando un fenomeno assume rilevanza collettiva, genera casi di crisi della presenza al mondo che si configurano entro i termini spazio-temporali di un disagio della civiltà. Quando non si riesce ad opporre alcuna forma di soluzione culturale è la fine, al contrario, quando l’ethos del trascendimento risulterà vincente in tutte quelle situazioni, storicamente individuate, in cui la collettività sia giunta al controllo e al superamento culturale della crisi c’è progresso.

La perdita della normalità del mondo avviene quando si esce dal cammino che dal privato porta al pubblico, poiché il «privato», l’intimo, ha un senso fisiologico quando racchiude una promessa di pubblicizzazione, quando è immesso come momento in una dinamica di valorizzazione intersoggettiva, quando diventa, prima o poi, parola e gesto comunicanti. L’incomunicabilità è uno dei disagi oggi più che mai avvertiti, il contesto circostante cambia così velocemente che gli individui non riescono a prendere coscienza agli stessi ritmi delle loro debolezze in quanto sono costantemente immersi in un flusso di ansie, paure, incertezze che distoglie l’attenzione dalla problematica specifica e a volte può impedire di spiegarla correttamente a se stessi e agli altri.

A livello psicologico la percezione di un crollo del mondo è percepito come un parallelo crollo del Sé, De Martino parla di una “crisi radicale” che nell’uomo si declina a livello psichiatrico ma che noi sociologi, senza avere la pretesa di entrare in merito alla patologia individuale, attualmente potremmo ricollegare allo stato di panico e al senso di precarietà in cui molte persone sono scivolate a causa del lockdown. Il grande problema della nostra età è quello della “salvezza” dell’individuo all’interno della società umana, all’interno di una socializzazione che non sia massificazione, burocratizzazione, statolatria ma che si concentri, appunto, sul sostegno reale della persona.

Il dramma dell’Occidente mostra paradossalmente i tratti caratteristici delle apocalissi psicopatologiche: due antinomici terrori segnano il profilo della nostra epoca, quello di “perdere il mondo” e quello di “essere perduti nel mondo”, la presenza entra in rischio nel momento in cui perde i confini della sua patria esistenziale, quando perde “l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare”.[4]
Poiché la cultura non influisce solo sulla vita sociale ma anche su parti significative di quella individuale, molti casi di disagio possono originarsi da disfunzioni nei sistemi culturali in due modi.

Parliamo di disagio sociale quando ci sono problemi nella sfera socio-strutturale, quindi tra attori sociali o fra essi ed istituzioni: questi eventi generano conflitti ed incomprensioni fra diversi modelli culturali, per esempio, si può leggere la violenza sulle donne non solo come un problema di aggressività incontrollata da parte degli uomini ma anche come rappresentazioni della realtà che orientano il comportamento maschile in quanto raffigurano le donne come inferiori o come oggetti di proprietà. E’ indispensabile che ogni modello culturale sia efficace, cioè con una coerenza interna che permetta agli attori di usarlo nell’interpretazione e nell’interazione con il loro ambiente, diversamente non sarebbero in grado di capire cosa succede attorno a loro e si genera un disagio sociologico, perché c’è compromissione della capacità degli attori di interpretare la realtà esterna[5].

La sociologia attualmente deve essere in grado di diventare diagnostica del morbo culturale, in modo da contribuire a rendere l’individuo cosciente della crisi valoriale del mondo contemporaneo.La parola “clinica”rinvia all’intervento su situazioni particolari considerate problematiche e riconduce al concetto di problema sociale.


I problemi sociali sono qualcosa di tipicamente moderno, non perché non siano esistiti nelle società pre-moderne ma perché erano considerati o frutto di processi naturali o effetto di punizioni divine o ancora risultati di sconfitte che non prevedevano interventi terapeutici da parte di istituzioni della collettività (caso mai solo interventi volontaristici di un eventuale “buon samaritano”). Con l’accelerazione dello sviluppo economico e del mutamento sociale dovuti al capitalismo da un lato, e con la centralità che il principio di eguaglianza ha acquisito nel mondo modernizzato dall’altro, ma soprattutto con la secolarizzazione trionfante (che ha tolto ogni legittimazione religiosa alla sofferenza), le situazioni penose sono diventate problemi di cui la collettività si deve fare carico in vista di una loro soluzione e di un loro superamento.[6]


Esiste un legame inscindibile tra l’individuo e la comunità: nel momento in cui si avverte la perdita dell’orizzonte simbolico, garantita all’interno di quella specifica comunità, anche il singolo vacilla, con lo smarrimento di riferimenti simbolici stabili si incorre nel rischio di desertificazione di ogni memoria culturale. Di conseguenza, la perdita dell’orizzonte domestico, che caratterizza il nostro essere al mondo, porta a smarrire anche l’ethos, determinato dal crollo dell’orizzonte culturale comunitario. L’unico strumento per superare la crisi, per evitare il rischio della dissoluzione è quello di volgere lo sguardo alla stessa comunità e ritrovare, all’interno di essa, la salvezza. Le sorti del mondo, infatti, possono essere cambiate solo dall’uomo in quanto tale ma all’interno della comunità culturale.[7]


Una sociologia utile deve essere necessariamente vicina all’essere umano, diventa clinica quando il proprio metodo si concentra sullo studio del caso individuale ed è orientata a produrre un cambiamento in chi diventa “partecipe” di tale intervento.Il singolo, la comunità, l’organizzazione, la società possono essere accompagnati in processi di emancipazione da situazioni di conflitto, di sofferenza, di emarginazione.

La ricerca sociale in sociologia clinica ha l’obiettivo di diventare un momento diagnostico in cui definire insieme all’individuo i fattori che influenzano o determinano i propri schemi interpretativi della realtà o la definizione della propria situazione. La sociologia clinica, perciò, interviene per cambiare, diventa “vicina” al problema della persona stabilendo una specifica relazione che determinerà metodi e modalità di intervento.Il sociologo clinico, all’interno dell’interazione con l’altro, ne esplora la percezione e progetta con esso una possibile soluzione per migliorare la propria condizione.

L’inquadramento diagnostico ed il relativo percorso di emancipazione è sociologicamente orientato nel senso che viene decodificato utilizzando le conoscenze sociologiche e soprattutto considerando i problemi personali come problemi sociali, prospettando poi le varie possibilità di soluzione ad essi. Nella definizione del problema vengono considerate le variabili che nell’utente, nell’organizzazione, nel gruppo, nella comunità hanno determinato la sociogenesi dei comportamenti dei singoli e dei gruppi: non solo le variabili classiche della sociologia come l’età, il sesso, l’istruzione ma anche lo schema di relazione, il concetto di realtà, il modello interpretativo, la rappresentazione, le auto- ed etero-interazioni ecc. Fattori, questi, intercettati e decodificati all’interno di un modello sociologico e con strumenti sociologici come l’intervista, il colloquio esplorativo, l’analisi narrativa, l’analisi biografica ecc.

Le soluzioni vanno cercate più nell’analisi della situazione che mirando alle strutture o alle cause antecedenti un dato fenomeno, dall’esame accurato della loro lista, sviluppata anche attraverso tecniche come il brainstorming, si deve arrivare alla definizione delle alternative realmente praticabili.

L’integrazione dell’approccio dal basso nel paradigma relazionale evidenzia in ogni modo gli aspetti socio-culturali e propriamente umani della vita quotidiana, di conseguenza, senza volere contenere una tale prospettiva separata della relazione e del rapporto dialettico con altre dimensioni, è possibile privilegiare quella intersoggettiva interessandosi dei mondi vitali. Il ricorso alle fonti orali permette di dare voce alle comunità ricostruendo attraverso il linguaggio, la memoria e l’immaginazione, le logiche inter-soggettive ed i loro significati rispetto alla storia del corpo sociale. L’approccio socio clinico muove, dunque, dalla prospettiva dei singoli, dal punto di vista degli stessi operatori sociali e culturali che operano nel settore dei servizi alla persona e inter-agiscono con le realtà possibili.[8]


Purtroppo la figura del sociologo “pratico” è ancora troppo poco coinvolta nell’ambito dell’intervento territoriale, spesso chi è in possesso di una laurea in sociologia viene impiegato per ricoprire ruoli diversi e si ritrova a svolgere mansioni anche inferiori. Tuttavia, nell’esecuzione del lavoro la sociologia resta sempre presente, seppur sotto mentite spoglie in quanto la società può essere intesa come un grande laboratorio sul campo, nel quale si creano continuamente spazi di incontro-attivazione tra soggetti per intercettare l’emersione di eventuali problematiche. E’ necessario restituire al sociologo il proprio ruolo in ottica di collaborazione con le altre professionalità in quanto è una figura strategica per l’orientamento dell’individuo verso la riscoperta e la riappropriazione del senso della propria presenza nel mondo.

Inoltre, sollecitando alla consapevolezza e all’interpretazione attiva del mutamento che investe il proprio io, il proprio corpo e l’ambiente non solo può supportare l’educazione spontanea legata al processo del vivere ma anche quella intenzionale per la motivazione e ri-motivazione finalizzata a metabolizzare i cambiamenti. Infine, laddove intercettasse stati di necessità particolari, il sociologo potrebbe contribuire anche ad accompagnare le persone verso forme di sostegno professionale più specialistico, in quanto spesso gli individui non sono coscienti del fatto di averne bisogno perché non sanno riconoscere o definire il loro disagio.

Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali

NOTE

(1)Roberto Cipriani, Professore ordinario di Sociologia nell’ Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, pagg. 7-11 in “Sociologia Clinica e Terapia Sociale”, (a cura di) Massimo Corsale, Franco Angeli, 2010
(2) Ad esempio, l’Apocalisse di Abramo, di Mosé, di Paolo, di Pietro, ecc. In particolare, il libro che ha questo titolo, accolto nel canone del Nuovo Testamento, è attribuito tradizionalmente a s. Giovanni Evangelista.
(3) www.treccani.it
(4) E. De Martino, “La fine del mondo.Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”,(a cura di) Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, brano 271, pp.479-480.
(5) M. Corsale, 2010, Op. Cit.

(6)M. Corsale, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli e La Sapienza, Roma, pagg. 13-29, 2010, Op. Cit.
(7) E. De Martino, 2002, Op. Cit.
(8) Giuseppe Gargano, Presidente Associazione Sociologia Clinica, pagg. 127-147, in M. Corsale, 2010, Op. Cit.


Educazione: dalle origini ai giorni nostri

di Denisa Alexandra Cojocario

Etimologicamente la parola educazione deriva dal verbo educere, ossia trarre fuori, tirar fuori ciò che sta dentro. L’educazione è l’attività influenzata nelle diverse epoche storiche dalle varie culture, finalizzata allo sviluppo e all’acquisizione di conoscenze, di facoltà mentali, di comportamenti in un individuo.

<<== dott./ssa Denisa Alexandra Cojocario

Gli studi effettuati in campo sociologico e psicologico, hanno portato alla luce i fattori che influenzano lo sviluppo della persona in modo positivo o negativo. L’educazione diviene la libertà di espressione o la negazione del bambino.  L’educazione assurge a legge di condotta del bambino e lo strumento di attuazione del suo sviluppo.

Si distinguono fattori legati all’ambiente, fattori familiari, fattori socio-culturali e fattori scolastici.

I primi si identificano in classe sociale di appartenenza, lo stato socio-economico, il livello d’istruzione, i modelli linguistici, le aspirazioni future e le relazioni interpersonali nel contesto familiare. I secondi, afferiscono ai legami tra gli stimoli affettivi e la crescita mentale, agli impulsi del linguaggio e della cultura

I fattori socio-culturali fanno un chiaro riferimento sia alla società odierna quanto alla crisi di valore e delle istituzioni ed ai conflitti da queste generati. Gli ultimi quelli scolastici, in cui l’istituzione scolastica diventa strumento di condizionamento sociale: metodi autoritari ed atteggiamenti rigidi, una didattica il cui fulcro centrale è il programma e non l’alunno, con una tendenza alla mediocrità e al conformismo.

Il termine educazione si presta a differenti accezioni. Spesso viene identificato nell’insegnamento o nell’istruzione che vuole indicare la metodologia attraverso la quale si trasmette il sapere.

Una definizione ottimale, di educazione, è quella fornita dalla psicoanalista francese Françoise Dolto: ‹‹…è innanzitutto un modo di essere che ispira al bambino fiducia o mancanza di fiducia in se stesso, che gli indica la fierezza del suo sesso e delle sue iniziative, gli dà l’assicurazione che qualunque cosa faccia è sempre amato, anche se talvolta rimproverato.››[1]

Lo sviluppo dell’educazione, risale al 400 a.C., nella Grecia antica. Nel cuore di Atene il sistema educativo era di tipo militare, a Sparta l’educazione dei giovani era mediata dalla ginnastica e dalla musica, considerate discipline fondamentali nell’educazione del cittadino.

Il fine dell’educazione è quello di guidare l’educando alle proprie propensioni e all’affermazione del proprio sé consistente nell’acquisizione di caratteristiche più complesse rispetto a quelle iniziali e la specializzazione di alcune funzioni e congiuntamente all’apertura verso l’altro. L’educazione si configura quale variabile dipendente di un sistema più che complesso.

Denisa Alexandra Cojocario – sociologa

[1]  M. Postic, La relazione educativa, Armando, Roma, 1983, pp. 15-16.


LE NUOVE FRONTIERE DELLA SOCIOLOGIA: LA NEUROSOCIOLOGIA

di Sonia Angelisi

Grazie alle scoperte in ambito neuroscientifico, molti concetti sociologici iniziano ad avere riscontro anche dalla fisiologia. Uno di questi è il concetto di coscienza collettiva postulato da Durkheim. La coscienza collettiva indica  l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società e spiega che per capire la società bisogna partire da un gruppo di organismi legati da vincoli di solidarietà.

<<== dott.ssa Sonia Angelisi

Questo passaggio è importante se teniamo conto dei limiti imposti di quanto i limiti imposti dalla scienza nella scelta delle prospettive, restringevano di molto il campo di osservazione dei fenomeni, primo di tutti quello sociale perché difficilmente inquadrabile nel cosiddetto metodo scientifico. Oggi sappiamo che le relazioni sociali giocano un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, poiché i neuroni si modificano biologicamente e le strutture cerebrali si trasformano attraverso le nostre esperienze di socializzazione. Le relazioni sociali sono fondamentali, quindi, per la nostra salute e la qualità della vita. Scienze biologiche e scienze sociali tentano di stringersi la mano dando vita a un connubio impensabile fino a qualche decennio fa riassumibile nel termine: neurosociologia. La neurosociologia  appartiene alla branca interdisciplinare delle neuroscienze sociali secondo cui i comportamenti umani influenzano la fisiologia dell’uomo e l’ambiente circostante e viceversa. Le neuroscienze sociali nascono orientativamente nei primi anni ’90  con un articolo pubblicato su “American Psycologist” da parte del filosofo Cacioppo e dello psicobiologo Berntson. Questa scienza  cerca di comprendere come i sistemi biologici implementano i processi sociali, utilizzando i metodi delle neuroscienze, dando vita a un’alleanza tra scienze biologiche e scienze sociali.

Il primo a parlare di neurosociologia fu David D. Franks, sociologo alla Virgina Commonwealth University, il quale pone in relazione le strutture cerebrali con gli aspetti sociologici, scrive il primo libro scientifico sulla neurosociologia per portare all’attenzione dei più come il cervello umano influenza l’interazione umana e, viceversa come i processi mentali influiscono sulle funzioni neuronali. La base teorica della neurosociologia di Franks si basa sulla teoria microsociologica dell’interazionismo simbolico. L’interazionismo simbolico pone l’accento sulla creazione dei significati nella vita e nelle azioni umane, sottolineando la natura pluralistica della società, il relativismo culturale e sociale delle norme e delle regole etiche e sociali e la visione del  come socialmente strutturato (W: James, Weber, Schutz, Mead); tale approccio fa da apripista alla psicologia sociale, quella branca della psicologia che studia l’interazione tra l’individuo e i gruppi sociali. Tuttavia, dire branca della psicologia non è propriamente corretto, visto che le interazioni  tra individuo e gruppi sono strettamente pertinenti all’analisi sociologica e i confini tra psicologia sociale e sociologia non sono stati definiti dalla comunità scientifica internazionale, bensì dagli ordini professionali in Italia, generando quella separazione che non è sicuramente di supporto ad una crescita cooperativa della scienza.

L’interazionismo si basa su tre assunti principali:

  1. gli esseri umani agiscono nei confronti delle “cose” (oggetti fisici, esseri umani, istituzioni, idee…) in base al significato che attribuiscono ad esse;
  2. il significato attribuito a tali oggetti nasce dall’interazione tra gli individui ed è quindi condiviso da questi (il significato è un prodotto sociale);
  3. tali significati sono costruiti e ricostruiti attraverso un “processo interpretativo messo in atto da una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte”.

In un’intervista del 2012 a Giacomo Rizzolatti. Colui che scoprì i neuroni -specchio, in merito alle applicazioni pratiche della sua scoperta lo scienziato afferma:  “…in generale non ci siamo occupati molto delle applicazioni pratiche della scoperta dei neuroni specchio. Dovrebbero essere i sociologi a puntare su questo aspetto per migliorare l’empatia”.

Questa affermazione ci è utile per comprendere come i campi di applicazione della sociologia sono sempre più vasti. La sociologia è una scienza e un’arte che si estende continuamente i suoi confini comprendendo e contaminandosi con nuove discipline, perché tutto ciò che riguarda l’uomo e la sua socialità non può prescindere dagli studi sociologici. Dda quando si è appurata l’interconnessione tra uomo e ambiente, del suo rapporto circolare, delle reciproche influenze, di come le emozioni modificano le risposte fisiologiche e, a loro volta di come queste emozioni dipendano dalle interazioni con l’ambiente esterno, tutto diventa SOCIOLOGIA.

La neurosociologia è una sfida avvincente, un orizzonte al quale bisogna tendere, una disciplina da integrare alle terapie di supporto come quella del counseling, sganciando la relazione di aiuto da approcci scientifici predefiniti ed aprendo a nuovi paradigmi di cura, o meglio, paradigmi della salute.

L’interesse della sociologia alle neuroscienze deve essere ancora più impellente se pensiamo a come il cervello umano sia principalmente un cervello sociale (Dunbar). Con cervello sociale indichiamo quelle strutture e quelle funzioni cerebrali coinvolte nelle interazioni e relazioni sociali. Noi umani siamo gli unici esseri viventi a trascorrere più tempo con i nostri caregiver; questo significa che le nostre interconnessioni neuronali sono frutto non tanto di fattori biologici innati, quanto da esperienze di socializzazione (M. Blanco, 2016) . Le nostre capacità relazionali e le nostre intelligenze multiple sono le nostre armi di sopravvivenza e di evoluzione. Inoltre, l’apprendimento tramite l’esperienza dell’uomo viene potenziato da quella che è definita neuroplasticità-esperienza dipendente, ovvero i cablaggi neuronali si ristrutturano a seconda delle esperienze vissute; la neurogenesi, cioè il processo attraverso cui vengono generati nuovi neuroni, è un processo che dura tutta la vita: le sinapsi del cervello crescono e si modificano grazie alle esperienze di socializzazione.

“La neuroplasticità cerebrale conferma la tesi che la socializzazione è un processo che prosegue per tutta la vita. L’esperienza derivante da ogni ambiente o gruppo sociale in cui un essere umano si inserisce ovvero si reinserisce, comporta delle modificazioni della struttura del cervello e, ovviamente, delle sue funzioni” (Blanco, 2016)

Ogni volta che due individui interagisco tra loro si crea un’esperienza emotiva collettiva; questo significa che non possiamo interagire con un altro essere umano senza esserne influenzati emotivamente, poiché viviamo di connessioni emotive, connessioni che si modificano e perfezionano attraverso la crescita personale dell’essere umano. Non bisogna trascurare, dunque, lo sviluppo dell’intelligenza emotiva accanto a quella cognitiva, poiché è proprio il nostro quoziente emotivo ad essere determinante nelle relazioni sociali, nel riconoscimento della nostra intersoggettività e nello sviluppo dell’empatia.

A questo punto, preme fare una distinzione tra interazione sociale e relazione sociale. L’interazione sociale è quella che si realizza quando die o più individui (soggetti agenti) si influenzano e orientano reciprocamente le loro azioni; l’interazione sociale si crea tanto con i nostri familiari e persone che frequentiamo abitualmente, quanto con persone che incontriamo fugacemente, occasionalmente o casualmente. Lo psicologo statunitense Louis Cozolino, paragona l’interazione sociale all’interazione fra due neuroni che formano una sinapsi, tanto da parlare di sinapsi sociale in cui al posto dei neurotrasmettitori ci sono i comportamenti che portano l’informazione sociale, e al posto dei neuroni troviamo i soggetti agenti. Tali comportamenti (un sorriso, una stretta di mano, uno sguardo, un dialogo qualunque) producono trasformazioni biologiche a livello cerebrale.

Le relazioni sociali, invece, sono quelle interpersonali che si creano dal susseguirsi di una storia interazioni sociali, permettendo lo stabilirsi di un legame. Non sempre una storia di interazioni sociali crea una relazione sociale.

L’intersoggettività, invece, è la capacità di riconoscere se stesso e l’altro come due soggetti distinti che interagiscono. Posso riconoscermi in un altro attraverso il rispecchiamento delle azioni. Non può esistere l’intersoggettività senza le interazioni sociali.

Dell’empatia, parlerò in modo più approfondito in un articolo a parte poiché è un concetto fondamentale del counseling tradizionale e, ovviamente, anche di quello sociolistico di cui l’ASI si fa promotore.

Quanto desidero sottolineare in questo scritto, è l’esigenza di slegare la sociologia da una sorta di vittimismo e rimetterla al centro della scienza, come disciplina complementare in grado di apportare un contributo indispensabile alle scoperte scientifiche, così come la neurosociologia, campo appena germogliato e bisognoso di esplorazione, indica a noi studiosi di scienze sociali.

Sonia Angelisi, sociologa


IL RUOLO DEL SOCIOLOGO

di Italo Caruso

Il sociologo nasce come ricercatore sociale, osservatore imparziale e impersonale, dotato di neutralità assiologica, uno studioso attento alla ricerca dei fenomeni e dei conflitti sociali, sia attraverso la letteratura che sul campo e i luoghi di lavoro, dotato di uno spiccato nous che fa la differenza.

<<== dott. Italo Caruso

Gli studi sociologici danno una formazione sociologica di base, una forma mentis che proietta il sociologo a professionalizzarsi in diverse discipline in funzione del piano di studio, in base ai tirocini e ai master conseguiti. Il laboratorio focus carcere ritiene indispensabile pertanto conseguire una specializzazione per esercitare la professione sociologica nei vari settori. Sono diversi gli ambiti e i ruoli che, a mio avviso, può rivestire il sociologo professionista, al di là dei ruoli canonici di sociologo formatore, sociologo docente, sociologo delle ricerche sociali.

In particolare nel settore giudiziario Focus carcere intravede l’importanza del sociologo professionista nei diversi ruoli di:  sociologo sentinella delle devianze sociali negli istituti penitenziari (ma anche in enti pubblici, nel mondo del lavoro e mondo della scuola); sociologo specialista nell’Ufficio UEPE, come coordinatore nel progetto di recupero attraverso le pene alternative; sociologo specialista tutor iscritto negli elenchi del tribunale come consulente tecnico del giudice, che accompagna il detenuto a fine pena nel mondo del lavoro; sociologo specialista formatore nel carcere, inserito nell’area educativa, per la formazione alla comunicazione, al dialogo, alla rieducazione, alla capacità di evadere dal carcere non fisicamente, ma mentalmente.

Mi soffermerò in particolare sull’importante ruolo che il sociologo professionista potrebbe svolgere in tema di pene alternative al carcere e nel reinserimento del detenuto a fine pena nel mondo del lavoro.  Già in un articolo precedente, trattando delle funzioni svolte dall’UEPE, Ufficio Esecuzioni Penali Esterne, ho accennato a tale ruolo, evidenziando quello che a mio parere è l’anello debole legislativo dell’esecuzione penale esterna.

 La documentazione prodotta dall’ UEPE e inviata al Giudice di Sorveglianza è carente a mio avviso di un documento non previsto dal Ordinamento giuridico, ma fondamentale ai fini della buona riuscita di tutto il percorso detentivo della persona appena liberata, ovverosia manca la relazione del sociologo per l’inserimento sociale.

Le forme alternative alla carcerazione non sono rieducative se non viene redatto un progetto riabilitativo ad personam con il concorso degli operatori UEPE e del sociologo professionista, strutturato o nominato dal tribunale. In pratica se non vengono potenziati gli uffici UEPE con professionisti del settore si rischia di vanificare le misure alternative.

Anche nel fine pena   il sociologo professionista, iscritto negli elenchi del tribunale come consulente tecnico del giudice,  potrebbe avere un ruolo sostanziale  nell’orientamento sociale delle persone  ristrette, prossime alla libertà,  un ruolo da influencer, in quanto conoscitore e studioso delle dinamiche sociali ed economiche del paese, un professionista in grado di spaziare nel mondo del lavoro, che segue le dinamiche, i cambiamenti, i bisogni della società che evolve velocemente e che la persona ristretta non può conoscere. Un sociologo informatizzato al passo con i tempi, interattivo, che vive la globalizzazione. Un sociologo osservatore del fenomeno dello spostamento demografico alla ricerca del lavoro. Un lavoro che non deve essere una concessione del politico di turno, che crea assoggettamento e una coercizione spirituale.

In sostanza bisogna che la persona libera si liberi da certi condizionamenti culturali e sociali che la racchiudono in un mondo di sbarre e cancelli invisibili, il mondo della dipendenza.

 Occorre restituire la libertà a trecentosessanta gradi al detenuto, consentendogli di riacquistare la dignità che solo il lavoro può offrire. Alla persona appena liberata si dovrebbe consegnare un vademecum di orientamento alla vita, al sociale, al lavoro, in definitiva affidarlo al Sociologo professionista Tutor che lo seguirà per un determinato periodo di incarico.

Il laboratorio sociologico Focus carcere di Rende, osservatore delle problematiche del fine pena, ritiene che il ricorso alle pene alternative è attualmente in crescendo e auspica che in futuro diventi sempre più frequente.

Parrebbe che lo Stato non punti a far scontare la pena in carcere, ma sul territorio, avvalendosi a tale scopo del contributo dei volontari penitenziari e delle comunità di recupero. Le pene alternative diventeranno uno strumento vantaggioso anche dal punto di vista economico, considerando che una giornata di detenzione costa allo Stato €120,00, oltre che dal punto di vista etico e politico. Il ruolo del volontariato penitenziario diventerà un valido supporto di accompagnamento alla vita sociale. Occorre prepararsi professionalmente ad affrontare questo tipo di pena in quanto conveniente per lo Stato e per i condannati. Necessitano quindi figure professionali che sappiano occuparsi di questa tipologia di detenzione che è completamente diversa da quella praticata nel carcere.

In tale ottica il sociologo professionista potrebbe diventare per lo Stato una cerniera di accompagnamento per i detenuti verso il sociale, il mondo del lavoro, atteso che abbia contezza delle capacità cognitive e formative del detenuto, delle sue esperienze lavorative fuori e dentro il carcere, la sua età, il suo stato di salute, le sue aspettative di vita ed aspirazioni.

Il sociologo professionista diventa una figura istituzionalizzata nello Stato e per lo Stato.

Occorre restituire al sociologo un ruolo professionale attualmente occupato arbitrariamente da altre figure che non ne hanno titolo a causa della politica del malaffare, non certo per la meritocrazia.

Dott. Italo Caruso – direttore ASI-Lab Sociologia “FOCUS CARCERE”


Il mito della rivoluzione digitale

di Patrizio Paolinelli

Come tutti gli eventi destinati a incidere sulla società anche la rivoluzione digitale ha necessità di un’origine mitologica. La cui narrazione prevede tempi, eroi, saperi, luoghi, azioni e scopi. I tempi: gli anni ’70 del XX secolo; gli eroi: una pattuglia di giovani imprenditori; i saperi: la padronanza dell’informatica; i luoghi: la Silicon Valley; le azioni: applicare la tecnologia digitale all’elettronica di consumo; gli scopi: realizzare profitti.

<<=== Prof. Patrizio Paolinelli

La sequenza appena illustrata è un modo non celebrativo di inquadrare il mito della rivoluzione digitale. Cosa che fino a qualche tempo fa avrebbe infastidito parecchio i cantori della futura civiltà del silicio. E dal loro punto di vista a ragione: i grandi successi commerciali realizzati negli anni ’80 con la nascita della new economy lasciavano presagire l’avvento di una nuova età dell’oro per l’intera umanità. Un’età in cui gli eroi delle nuove tecnologie ci assicuravano che il lavoro sarebbe stato meno faticoso, si sarebbe inquinato meno e la vita di tutti avrebbe fatto un eccezionale salto di qualità.

Molta acqua è passata sotto i ponti e l’età dell’oro ha arriso solo a una ristrettissima cerchia di imprenditori. Rispetto alla vecchia società industriale sul fronte della fatica, dell’ambiente e della qualità della vita la situazione non è migliorata. Anzi, per molti aspetti è peggiorata anche grazie alle nuove tecnologie, che hanno permesso un migliore sfruttamento di ogni risorsa: umana, naturale, sociale. A oltre cinquant’anni di distanza dalla commercializzazione del primo microprocessore (1971) la giornata lavorativa si è dilatata a tal punto da far evaporare il confine tra tempo libero e tempo di lavoro; siamo a un passo dal collasso ecologico planetario; le disuguaglianze sociali sono aumentate, così pure la povertà e per la maggioranza degli abitanti dei Paesi sviluppati la vita quotidiana è un’affannata caccia al reddito per tirare avanti.

Queste e molte altre regressioni non cozzano affatto con una tecnologia sempre più avanzata. E il mito della rivoluzione digitale ha la funzione di mantenere attiva questa contraddizione senza farla esplodere. Una delle sue colonne portanti è il determinismo tecnologico. Ossia l’idea secondo la quale l’innovazione tecnologica è in grado, da sola, di cambiare la società. È una convinzione sbagliata perché nessun passaggio da un modo di produzione a un altro, da un modello sociale a un altro, da una civiltà a un’altra è possibile senza che l’innovazione tecnologica si combini con altre forze trainanti del mutamento sociale: forze economiche, politiche, valoriali e demografiche. Ironia della sorte questa conclusione è alla portata di tutti e si apprende nei manuali introduttivi di storia e di sociologia. Eppure è bellamente ignorata. E al suo posto il mito fa appello al seguente costrutto: le rivoluzioni industriali sono generate esclusivamente dal passaggio da una tecnologia all’altra: dalla macchina a vapore ai robot di ultima generazione tanto per capirci. Secondo questa vulgata la successione di invenzioni ha permesso il passaggio dall’artigianato alla meccanizzazione della manifattura alla fine del XIII secolo, successivamente alla produzione di massa all’inizio del XX secolo, all’automazione alla fine degli anni ’50 del ‘900, fino a arrivare ai sistemi cibernetici oggi.

Come si vede da questa ricostruzione il determinismo tecnologico è teoria della storia assai miope. In realtà le rivoluzioni industriali furono e sono fenomeni sociali molto complessi in cui interagiscono e confliggono molteplici fattori, non ultimi i rapporti di forza tra le classi. Per esempio, sul piano politico in Inghilterra la prima rivoluzione industriale fu possibile grazie alle leggi che permisero la recinzione delle terre comuni creando così una massa di contadini disoccupati da destinare alle fabbriche; sul piano valoriale il protestantesimo favorì l’accumulazione di capitali; sul piano del conflitto sociale la contestazione operaia innescò l’automazione nelle fabbriche; sul piano dell’ordine del tempo il progressivo aumento di ore extralavorative permise l’incremento dei consumi. Dunque, la tecnologia da sola serve a poco. Tantomeno a spiegare i grandi mutamenti sociali.

Ma vediamo due casi. Primo caso: nel XV secolo in Cina la scienza e la tecnologia erano molto avanzate. Tuttavia non sfociarono nello sviluppo industriale perché mancavano le condizioni politiche, economiche e culturali. E così la Cina finì preda delle mire coloniali occidentali ed è uscita dall’arretratezza solo di recente. Secondo caso: ci si potrebbe chiedere come mai ancora oggi l’Europa è a rimorchio degli Stati Uniti sul fronte dell’alta tecnologia. Eppure non ci mancano né le competenze né le risorse economiche. La risposta è semplice: dopo due rovinose guerre mondiali non siamo più il centro del mondo. E così gli Stati Uniti ci impongono i loro monopoli dell’hi-tech impedendoci, tanto per dirne una, di avere un competitivo motore di ricerca. In altre parole ci tengono sotto la loro dipendenza. Se poi l’Europa si azzarda anche solo a ipotizzare una blanda tassazione delle corporation del Web a stelle e strisce è minacciata di ritorsioni dal governo statunitense. Perciò non se ne fa nulla e Amazon, Google e Facebook spadroneggiano nel Vecchio continente.

La geopolitica del digitale dà il colpo di grazia al determinismo tecnologico e nel crollo si porta dietro altre colonne del mito della rivoluzione digitale. Vediamone alcune. Iniziamo dalla pretesa autonomia della rivoluzione digitale, solitamente presentata come un evento generato in California da eroici imprenditori-innovatori. In realtà la rivoluzione digitale è figlia della terza rivoluzione industriale avvenuta tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900. Perciò, per quanto breve, ha alle spalle una storia. Storia che per di più non nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico ma nei centri direzionali della grande industria statunitense. I quali avviarono una prima grande ondata d’automazione nelle fabbriche e negli uffici. Novità che comportò lunghe e appassionate discussioni sull’impatto negativo che avrebbe avuto sull’occupazione. Argomento tornato oggi di grande attualità per l’introduzione nel mondo del lavoro dell’intelligenza artificiale, della robotica, dell’Internet delle cose e così via.

A questo punto troviamo un interessante reperto. Quando si affronta il tema del rapporto tra tecnologia e occupazione ancora oggi si ricorre alle medesime argomentazioni degli anni ’60. La più gettonata: gli occupati di un comparto non più al centro del sistema produttivo passano a un altro; non è avvenuto così col passaggio dall’agricoltura all’industria e poi dall’industria al terziario? Negli anni ’60 Pollock chiamò questo meccanica equazione “teoria della compensazione”. Se oggi si fa notare a un apostolo della rivoluzione digitale che la disoccupazione tecnologica ha già ridotto drasticamente i posti di lavoro nell’industria manifatturiera e sta iniziando a minacciare seriamente il terziario ci si sentirà regolarmente controbattere: nessun problema, le nuove tecnologie creeranno più posti di lavoro di quanti ne distruggano. Come? E qui casca l’asino: non si sa. Il mito però non si arrende ed è un produttore infaticabile di parole. Quando si affronta il tema della disoccupazione tecnologica esperti, convegnisti, giornalisti, accademici, imprenditori, manager, conferenzieri, scienziati e visionari finiscono regolarmente per rinviare a un ottimistico domani: l’età dell’oro ci attende, abbiate fede.

Nel frattempo da decenni i fatti smentiscono il mito: a causa della robotica le fabbriche si svuotano sempre di più; nel terziario l’intelligenza artificiale sta iniziando a minacciare persino le attività a elevato contenuto intellettuale; le nuove professioni nate con l’economia digitale non sono minimamente in grado di assorbire la forza-lavoro espulsa dall’industria e dal terziario tradizionali; l’alta tecnologia ha generato nuove figure professionali che, a parte pochi fortunati, dal punto di vista del reddito vivono in gran parte nella più assoluta incertezza e addirittura sono sottoposte a forme di lavoro para-schiaviste come nel caso dei riders. In quanto alle leggendarie micro e piccole imprese negli atelier digitali il livello di autosfruttamento è altissimo. E nelle grandi corporation dell’hi-tech? Il lavoro non si è trasformato in un gioco come annunciavano tanti profeti della new economy, ma vigono le vecchie gerarchie industriali adeguatamente aggiornate per sfruttare meglio tecnici e ingegneri legandoli tramite vari benifts ai destini dell’azienda.

Naturalmente il mito oppone alla realtà il suo racconto. Tra i più astuti troviamo il seguente: è vero, l’automazione provoca la perdita di posti di lavoro, ma così le imprese diventeranno più produttive creando in tal modo nuovi capitali per nuovi business i quali a loro volta daranno vita a nuove aziende che occuperanno la forza-lavoro espulsa dagli altri comparti. Affinché questo teorema si realizzi occorrerebbe che le persone abbiano un buon reddito e la sicurezza del posto di lavoro, mentre con l’avvento del neoliberismo da circa quarant’anni si va nella direzione opposta. E comunque neanche questa è una tesi nuova e Luciano Gallino la smontò più di vent’anni fa sostenendo, dati alla mano, che è impossibile ipotizzare uno scenario in cui tra il 75 e l’83 per cento della forza lavoro sarà impiegata nei servizi perché anche questi saranno in buona misura automatizzati. E così, grazie all’innovazione tecnologica, nel medio-lungo termine il 20% della popolazione in grado di lavorare basterà per tenere in moto l’intera economia mondiale. Il resto come si procurerà da vivere? Gallino: “Una parte … svolgerebbe saltuariamente lavori di servizio a bassa qualificazione. Una quota sostenuta navigherebbe – o appunto già naviga – nelle profondità dell’economia sommersa. Altri vivrebbero in condizioni di insicurezza estrema, nel migliore dei casi ricavando per qualche anno un reddito elevato, a prezzo di orari da 70-80 ore la settimana, saltando come forsennati da uno spezzone di lavoro all’altro, senza mai poter dire cosa gli riserverà il domani, o fino a quando gli reggerà il cuore o la testa. Un’altra quota ancora – ma sicuramente di questo mercato del lavoro vi sarebbe un andirivieni ininterrotto – camperebbe di sussidi, d’indennità temporanee di disoccupazione, di pensioni sociali, di assistenza per mano del terzo settore, di salari minimi elargiti per lavori finti. Sarebbe […] il dominio della disoccupazione, dell’occupazione precaria e della mala occupazione”.

Le profetiche parole di Gallino ci conducono a una prima conclusione. La rivoluzione digitale non ha mutato i rapporti di produzione, che rimangono saldamente capitalistici; pertanto non ha condotto a una nuova formazione sociale così come avvenne col passaggio dal mondo della nobiltà feudale a quello dell’imprenditoria borghese. In tal senso parlare di rivoluzione quando si parla di digitale è del tutto improprio perché la tecnologia informatica è nuova ma la società rimane vecchia. L’innovazione tecnologica in atto più che cambiare il mondo cambia le forme del dominio capitalistico sul mondo. Ciò non significa negare che la data-economy ha effettivamente innescato profondi sconvolgimenti nella sfera della produzione e del consumo, della comunicazione e della socializzazione. Ma tali sconvolgimenti sono avvenuti all’insegna della continuità col passato industriale, così come il neoliberismo è in continuità col liberismo.

Non sarà certo l’opera di smascheramento del mito a far cadere il capitalismo digitale. Per quanto ci riguarda non ci facciamo illusioni: a differenza di un tempo le armi della critica servono ormai a poco. Non perché ci sia tolta la libertà di parola. Ma perché il mito ha una forza tale da oscurare qualsiasi esercizio della ragione volto a disvelare la realtà. Situazione interessante perché i miti contemporanei non sono il risultato di processi culturali che emergono dalla notte dei tempi. Ma vengono scientificamente costruiti a tavolino: il logos è messo al servizio del mithos. Si pensi alla Silicon Valley. Nell’immaginario collettivo è considerata come l’olimpo della pura iniziativa imprenditoriale. In realtà deve la prosperità delle sue corporation a massicci finanziamenti pubblici del governo statunitense. Bisogna prenderne atto: oggi il falso è più vero del vero. Siamo dunque destinati a entrare in una sorta di medioevo elettronico fatto di masse di creduloni in messianica attesa della nuova età dell’oro? Al momento sembrerebbe di sì. Quanto durerà sarà la storia a dirlo.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 27 giugno 2020.


Tre domande a… Giorgio Benvenuto. “Dagli Stati Generali dell’economia molte parole e nessun piano operativo”

di Patrizio Paolinelli

Gli Stati generali dell’economia volgono al termine. Che bilancio si può fare?

Si ricorda quando nella Tv in bianco e nero s’interrompeva la programmazione e compariva l’Intervallo in cui si succedevano immagini agresti accompagnate da sonate di musica classica? Ecco, come nell’Intervallo della vecchia Tv a me gli Stati generali dell’economia hanno dato l’impressione di un’interruzione dal normale corso delle cose. Che per un governo significa decidere, programmare, agire. Insomma, si è trattato di una tanto encomiabile quanto generica kermesse da cui purtroppo non è venuta fuori nessuna indicazione concreta. Da giorni assistiamo alla sempre più stanca manifestazione di tanti buoni propositi, tante richieste e i problemi reali come quelli dell’Alitalia, delle acciaierie di Taranto e delle altre centinaia di vertenze sono rimasti fuori dalla porta. Da una settimana stiamo vedendo esponenti delle più diverse categorie produttive e delle forze sociali succedersi a Villa Pamphili. Ognuno dice la sua, il governo dà ragione a tutti e poi si torna a casa.  Dunque un bilancio di questa iniziativa non si può fare. Manca la materia prima, ossia un’idea progettuale per il Paese. Mi pare che gli Stati generali abbiano evidenziato una mancanza generalizzata di tale idea: non ce l’ha il governo, non ce l’hanno gli industriali e neanche le forze sociali. Dove, come secondo quali priorità spenderemo le nostre risorse e quelle ben più cospicue che verranno dall’Europa per rilanciare la nostra economia? Come me credo che molti cittadini si aspettassero dagli Stati generali una discussione intorno a questo tema.

Per diversi osservatori gli attacchi della Confindustria al governo sembrano parte di una strategia volta sia a drenare risorse pubbliche che a dettare l’agenda della politica. È d’accordo con questa interpretazione?

Cosa vuole che le dica… Più che strategicamente mi pare che la Confindustria si muova ancora come nella fase 1 della pandemia. Invece siamo nella fase 3, quella che deve rilanciare l’economia del Paese. E per questo rilancio oltre alle rivendicazioni di categoria, come hanno fatto tutti, occorre immaginare nuovi rapporti tra sindacato e imprenditori, lanciare idee per l’economia verde, organizzare il lavoro a distanza.  Invece si fa un gran rumore sul rimborso delle accise. Le quali, per carità, andranno pure rimborsate ma i problemi sono ben altri. Quello che mi lascia perplesso è vedere attori economici così significativi pensare in via prioritaria al proprio orticello. Certo, i titoli delle cose da fare li ripetono tutti, dall’ammodernamento delle infrastrutture agli investimenti nel digitale passando per lo snellimento della burocrazia, ma poi le pagine restano bianche. Nessuno svolge il tema e per di più i titoli dell’elenco si spostano in base agli interessi di questa o quella categoria.  D’altra parte non sono state definite prima le priorità e non ci si poteva aspettare molto di più. Si è discusso, il che va bene, ma non sono emerse novità. Nel frattempo i cittadini misurano uno scarto notevole tra le tante parole e i pochi fatti. Il risultato è lo stallo. Ogni tanto sento parlare di piani operativi, uno d’assaggio a luglio, poi a settembre si formuleranno delle ipotesi. E nel frattempo?

Da quanto dice mi sembra di capire che a suo giudizio ci troviamo in un pantano di parole e zero fatti…

Esattamente. La scuola non ha riaperto, gli impiegati del settore pubblico sono in larga misura ancora a casa, gli autobus vanno in giro vuoti. Siamo fermi in attesa che l’Europa metta mano al portafogli. Ma nella migliore delle ipotesi i finanziamenti arriveranno l’anno prossimo, peraltro in data ancora da definire. Anche il recentissimo summit europeo è finito in maniera interlocutoria nonostante gli entusiasmi di Conte. Questa è la situazione mentre da noi si parla di questi fondi europei come di un tesoro da distribuire.  In realtà si dovrebbe parlare di risorse da investire. La differenza è sostanziale. Perché se parliamo di investimenti dobbiamo decidere le direzioni verso cui indirizzarli. Detto in altri termini, bisogna fare delle scelte. Prenda i finanziamenti dell’Unione per il settore sanitario, che sono quelli più a portata di mano. Concretamente per cosa li useremo? Ancora non mi pare che le idee siano chiare. Mentre a settembre-ottobre potrebbe esserci una recrudescenza della pandemia e non possiamo continuare a confidare nell’eroismo del personale sanitario. Dobbiamo farci trovare preparati. L’equivoco di fondo è che l’Europa ci sosterrà solo se ci saranno dei progetti operativi. Cosa ci cui finora non s’è vista traccia. E non c’è da farsi illusioni: l’Unione non permetterà che il Piano di recupero si trasformi in una distribuzione a pioggia delle risorse che ci verranno assegnate.

Patrizio Paolinelli – giornalista e sociologo


LA SMART EDUCATION POST COVID E LA RISORSA DEI MOOC

di Federica Ucci

Dopo molte settimane di stop a causa del Coronavirus, quel futuro professionale che per molti era solo una delle tante ipotesi delle conseguenze della post modernità, si è concretizzato con il definitivo superamento di quel precedente contesto in cui anche le attese di vita erano più basse e l’apprendimento si limitava allo studio tradizionale degli anni scolastici fino all’università, per poi entrare nel periodo lavorativo e infine in quello del pensionamento.

<<== dott.ssa Federica Ucci

Di modalità lavorative alternative e svolte attraverso l’utilizzo della tecnologia si parlava per lo più sui libri, in ottica di potenzialità e come eccezioni, spesso virtuose e rivoluzionarie laddove iniziava a comparire qualche tentativo di riorganizzazione aziendale. Attualmente, la maggior parte dei lavoratori è immersa in un processo di continuo cambiamento delle proprie abitudini rispetto all’attività lavorativa, la cui dimensione si è allargata, mutando parallelamente a quella della formazione.

Lo Smart Working è figlio della Smart Education, cioè un apprendimento online in cui si lavora e si migliora anche attraverso la formazione: lavorare da casa, infatti, vuol dire anche imparare mentre siamo operativi. Questo fenomeno esisteva già prima della crisi ma ne stiamo prendendo realmente coscienza in questo delicato periodo storico, prima era un qualcosa di residuale che incontrava anche molte resistenze in quanto non erano chiare le modalità di attuazione, oggi invece tutti siamo stati in qualche modo costretti a porci il problema di come fare e come farlo meglio.

Secondo il Censimento Permanente delle Istituzioni Pubbliche(1), in tempi non sospetti rispetto al covid-19 solo il 4% della formazione era erogato in modalità e-learning, il 3,1% utilizzava videoconferenze e webinar, solo il 2,8% prevedeva formule blendede(2) il 73% della formazione era svolto in aula.

Alcuni principali ostacoli al processo di digitalizzazione sono la mancanza di adeguata formazione ICT, di un Referente della Trasformazione Digitale e la rigidità al cambiamento nell’organizzazione degli uffici, queste informazioni palesano il dato di fatto che la pandemia ha permesso un’ ascesa della Smart Education che in condizioni “normali” avrebbe richiesto ancora anni.

Il Decreto Legge n.34/2020 o Decreto Rilancio ha previsto il diritto fino al 31 luglio a lavorare in modalità Agile, in ottica di un suo incremento da parte del Governo anche nel periodo successivo alla fine dell’emergenza, stabilita al 31 dicembre 2020. Oltre che nella Pubblica Amministrazione, anche per le altre tipologie di azienda si aprirà l’opportunità di riconsiderare i propri approcci organizzativi, perciò il gap culturale in termini di Smart Working del nostro paese non si può che colmare con la Digital Education.

Sicuramente il lavoro in presenza continuerà ad essere svolto, ma parallelamente proseguirà anche la digitalizzazione, la quale non potrà più essere considerata in maniera occasionale e questo conduce a riflettere sul concetto di Life Long Learning,il quale è al centro dell’attenzione dei governi alla luce delle pressioni provenienti dal mercato e della pressante necessità di adeguamento delle competenze dei lavoratori alle esigenze del lavoro.

L’universo della Didattica Digitale è un ecosistema in forte espansione che dopo essere stato a lungo valutato in maniera negativa oggi è considerato un amplificatore del cosiddetto Apprendimento Permanente. Oltre ad accrescere le competenze è necessario anche migliorare la capacità di adattamento alle innovazioni sul luogo di lavoro, soprattutto in un contesto di aumento dello Smart Working e stimolare l’attitudine all’apprendimento continuo.

L’educazione che avviene nell’arco di tutta la vita attiene alle prime fasi dei percorsi di studio ma poi prosegue per consentire un upgrade continuo delle conoscenze e delle capacità in generale. L’apprendimento non termina più con la formazione universitaria ma riguarda tutto il vissuto lavorativo e perciò la chiave per rendere la conoscenza sempre più specialistica a livello verticale è “imparare ad imparare”, come si sviluppa dipende dalla capacità del mondo del lavoro di farla propria, soprattutto in ottica di questa nuova realtà storica.

La Smart Education svolgerà un ruolo centrale nel favorire l’upgrade delle competenze per facilitare la trasformazione organizzativa, lo sviluppo di nuove abilità legate alle modalità lavorative e l’accesso ad ambienti di apprendimento coerenti con le nuove abitudini di lavoro e di vita.

I numeri della trasformazion e del lavoro ormai sono noti, secondo i reports del World Economic Forum ( 3) e di McKinsey,(4) nell’arco di 10 anni circa il 50% delle professioni subirà un cambiamento radicale, entro il 2022 più della metà dei lavoratori dovrà rinnovare le proprie competenze, nel 2030 circa 400 milioni di lavori saranno a rischio automazione e dal 3 al 4% della forza lavoro globale cambierà il proprio percorso lavorativo. L’impatto di macchine ed Intelligenza Artificiale sarà massiccio, con conseguente richiesta di un upskilling e/o un reskilling delle competenze lavorative delle risorse umane che richiederanno da 1 mese a un anno di formazione.

In riferimento all’aggiornamento professionale ci sono due approcci alla formazione che sono complementari: uno che di volta in volta ripropone degli approfondimenti per migliorare costantemente le proprie competenze specifiche (microlearning) e uno che invece richiama il lavoratore a misurarsi col contesto per creare una forma mentis che permetta di affrontare bene le continue richieste di acquisizione di competenze specialistiche mirate al cambiamento (macrolearning).

Le varie competenze tendono ad interagire sempre più tra loro per la trasversalità, oltre alle hard skills, cioè quelle competenze che possono essere valutate rapidamente, come il livello dello studio, delle lingue, delle competenze, ecc. sono oggetto di valutazione anche le soft skills, ovvero quell’ampio spettro di competenze che vanno da comunicazione, negoziazione, gestione dei gruppi e gestione dello Smart Working fino alla mindfullness, che permettono di comprendere il comportamento che la risorsa umana adotterà all’interno dell’ azienda e del gruppo.

Negli ultimi anni si sono moltiplicate le piattaforme per lo Skills Development Training, all’interno del mondo della didattica a distanza i MOOC, vale a dire i Massive Open Online Courses, hanno segnato nel 2011 l’inizio di una vera e propria rivoluzione nel mondo della formazione. Attraverso la capacità di innescare una forte collaborazione tra università, mondo aziendale e istituzioni pubbliche l’ascesa delle grandi piattaforme internazionali (ad esempio Udacity e Coursera), ma anche italiane – ome Eduopen o Federica.EU(5) -ha conosciuto un rapido incremento.

Dal 2016 la tendenza principale dei Mooc è rappresentata da pacchetti tematici e certificati per la formazione extra e post universitaria che offrono la possibilità di costruire percorsi formativi modulari. Attraverso l’accesso alle aule online per la fruizione di docenza e contenuti di alta qualità e al mantenimento del formato del corso, il successo di questa modalità di apprendimento si è consolidato permettendo da una parte di continuare a sviluppare una formazione più minuta delle competenze e dall’altra una collaborazione con le corporate e le università internazionali, al fine di creare dei percorsi formativi che iniziassero ad intercettare l’esigenza intermedia di una formazione professionale più sofisticata rispetto all’aggiornamento specifico delle competenze ma anche più agile e flessibile rispetto ai percorsi tradizionali.

All’interno dei MOOC è possibile passare da singoli corsi a pacchetti di corsi con un principio scalabile in cui da un piccolo elemento di competenza si può costruire un portfolio personale per completare il proprio curriculum di formazione, testimoniando così non solo un aggiornamento professionale ma anche la propria generale attitudine all’apprendimento continuo, elemento che nel mercato del lavoro e del reclutamento professionale è sempre più importante.

Tutto questo rappresenta un potenziale enorme in autoformazione in quanto si tratta di corsi ad accesso libero sulle grandi piattaforme internazionali.In un momento storico in cui il cambiamento viaggia a ritmi velocissimi la capacità di allenarsi ad individuare liberamente ciò che può contribuire al proprio miglioramento culturale e professionale non può che essere una marcia in più per riuscire a padroneggiare le modalità di lavoro del futuro.

Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali

Note

[1] www.istat.it ;

[2] Per Blended Learning, o apprendimento misto, si intende un mix di formazione in aula e formazione online;[

3] https://www.weforum.org/agenda/2020/01/future-of-work/;

[4] https://www.mckinsey.com/featured-insights/future-of-work;

[5] https://www.federica.eu/ In particolare, il corso “Smartworking. Sfide & Opportunità” approfondisce gli argomenti di questo articolo, tratti dalla prima lezione.


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