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L’essere umano e l’accettazione del “rischio”

di Federico Carlino

L’essere umano è una creatura estremamente abitudinaria, è un animale che ricerca costantemente la ripetizione della routine, la certezza di ciò che gli è familiare e conosciuto. Riesce a vivere, salvo alcuni casi, felice e tranquillo solo ed esclusivamente nell’iterazione di un ciclo a lui congeniale e sicuro. È l’abitudine alla situazione, la tranquillità di ciò che è consueto, sia esso piacevole o meno, che fornisce la stabilità necessaria alla psiche umana.

<<== Dott. Federico Carlino

Appena questa invariabilità viene meno, lo stato di quiete e immobilità che cullava il soggetto subisce un pesante contraccolpo, richiedendo molte volte un’enorme quantità di tempo per potersi riposizionare. E questo accade sia a livello della comunità, sia a livello del singolo.

Questa certezza, questa sicurezza della ripetizione, e questa indisposizione al mutamento delle nostre consuetudini, viene riflessa anche sui pericoli e sui rischi che oggigiorno siamo disposti a correre, o che accettiamo come tali, senza mostrare una preoccupazione eccessiva. Il numero delle minacce derivanti dal nostro comportamento è certamente alto, ma siamo disposti ad affrontarle solo nel caso in cui posseggano alcune caratteristiche particolari e ben definite.

Come argomentato da Ulrich Beck, la società moderna è una società che si basa sul rischio, una società che deve, per forza di cosa, accettare tutti i pericoli, o ancora meglio, tutti gli effetti collaterali che il nostro stile di vita comporta, specialmente per quell’ambito legato al settore scientifico e tecnologico, che, a maggior ragione, può avere conseguenze catastrofiche e deleterie per la salute. Questo, ovviamente, non esclude la presenza di numerosi rischi legati alla sicurezza internazionale o a possibili crisi finanziarie (Beck, 2000).

Ulrich Beck ==>>

Il periodo di saldo ottimismo legato al positivismo, quando la fiducia cieca e costante nel progresso e nell’avanzamento delle possibilità umane verso posizioni migliori guidava la nostra vita, è finito definitivamente. I disastri, primo fra tutti l’incidente verificatosi a Chernobyl nel 1986, ma anche il più recente di Fukushima del 2011, hanno completamente annientato lo spirito ottimistico nell’essere umano. Inoltre, il mondo ha più volte visto come, anche senza incidenti di sorta, il potenziale tecnologico possa venire utilizzato in forma offensiva, con tutte le conseguenze oggi note.

Ma a differenza delle teorizzazioni fornite da Beck, i rischi da noi accettati non sono totalmente svincolati da un nostro controllo, o da una nostra volontà, e non bisogna necessariamente porre una distinzione netta tra rischi globali e singoli, considerando i primi come collegati a una rassegnazione rispetto a una situazione completamente indipendente e i secondi come decisi attraverso una consapevolezza completa. È per questo che nell’utilizzo della parola “rischio”, in questa sede, non s’intende la classificazione del sociologo tedesco, ma il pericolo che ogni azione umana, sia singola sia collettiva, possa comportare. L’una incide sull’altra.

Tuttavia, nonostante la presenza di questi effetti collaterali, e la piena consapevolezza da parte nostra della loro minaccia, l’essere umano non sembra essere particolarmente preoccupato del pericolo a cui viene esposto da un comportamento che lui stesso mantiene imperterrito. L’abitudine alla presenza di determinati rischi ha fatto sì che, ormai, anche la percezione degli stessi sia superata e presa sottogamba. Non bisogna commettere l’errore di considerare ogni rischio su un medesimo livello, ma è necessario differenziare effetti collaterali che si è disposti ad accettare, ed effetti collaterali di cui, invece, non è possibile sopportare la presenza.

Tutti quelli che rientrano nel primo gruppo, generalmente, possiedono tre caratteristiche principali: la non presenza nell’immediato futuro, la conoscenza della loro esistenza da parte della popolazione e la provenienza da un comportamento profondamente radicato. Per quanto riguarda il primo punto, un rischio, per essere accettato e per non creare panico nella società, deve necessariamente muoversi a una velocità differente dalla suddetta. In questo caso, non deve avere effetti nelle immediate vicinanze, ma in un futuro lontano o, ancora meglio, indefinito. Il mondo moderno è estremamente accelerato. Ogni cosa si muove con costanza senza giungere fondamentalmente a nulla, e senza, soprattutto, guardare oltre il tempo più prossimo possibile. Viviamo nell’adesso e pensiamo solo a un futuro estremamente limitato, che non riesce ad estendere il proprio sguardo oltre il domani. I rischi che perciò siamo disposti a correre sono quelli che non hanno nessun tipo di collegamento con l’oggi, ma che sono localizzati in un periodo lontano e/o indefinito. Sono quelli che noi non possiamo percepire se non nell’analisi di un lasso temporale considerevolmente esteso, che in genere comprende anni, se non decenni.

Prendiamo, per esempio, il caso dell’inquinamento. Sappiamo perfettamente che l’uso massiccio e costante di prodotti derivanti dal petrolio comporterà un costante e graduale aumento dell’inquinamento ambientale, che altro non farà se non aggravare la già critica situazione del pianeta. Siamo perfettamente consci che, senza un repentino cambiamento della situazione, non potremo altro che avere effetti negativi. Eppure, il mondo, tranne alcuni singoli casi o iniziative dettate dalla futura situazione, non si lascia prendere dal panico, né si abbandona a momenti di isteria collettiva o di rivolte in nome della salvezza del pianeta.

Tutto questo perché l’inquinamento non possiede un effetto immediato. Lo slogan che più viene ripetuto è: “Per il bene dei nostri figli”, ed è senza dubbio vero. Ma proprio perché comprende un lasso di tempo estremamente lungo per mostrare la totalità dei suoi effetti, impossibile da ipotizzare per un uomo abituato a vivere e pensare nella nostra società, non è di facile comprensione. Per la maggioranza delle persone sembra impossibile vedere oltre il breve periodo.

Tutte le proiezioni di disastri e di effetti collaterali, per suscitare un effetto anche minimo, dovrebbero presentare risultati allarmanti massimo in un anno di tempo. Oltre questo limite non sembrano avere minimamente presa sul pubblico. Il nostro cervello è oramai abituato a procrastinare ogni azione necessaria per migliorare le attuali condizioni. Vivendo sempre e solo nell’oggi, in un singolo giorno perenne, anche solo venti anni sembrano un tempo praticamente infinito, oltre che quasi inimmaginabile.

Ci sono, però, rischi che potrebbero verificarsi in un lasso di tempo relativamente breve, come è stato per gli incidenti nucleari sopracitati, e che quindi dovrebbero avere una maggiore presa sulla coscienza comune. Ma, anche in questo caso, il rischio non corre sulla nostra stessa percezione temporale. Infatti, mentre per il fattore dell’inquinamento il problema risiede nel quando gli effetti saranno maggiormente visibili e gravi, nel discorso di un possibile disastro nucleare non si discute tanto il quando ma il se questo avverrà mai. Nonostante venga costruita una centrale nucleare, non è detto che questa necessariamente esploda, il che colloca il problema di un disastro atomico in un tempo incerto e forse anche inesistente.

Quello che si può riscontrare in ambito globale, può essere rilevato anche nella vita del soggetto singolo e nelle azioni di tutti i giorni. Ogni uomo è figlio del suo tempo, e ogni essere umano è totalmente influenzato dalla società in cui cresce e vive. Perciò, anche i danni che noi stessi possiamo arrecare al nostro corpo possono essere facilmente sorvolati quando mostrano una lunga data di scadenza. Prendiamo, per esempio, il danno delle sigarette. Oggi che il fumo sia cancerogeno non è un segreto per nessuno, e, certamente, legato al vizio del fumo vi è tutto un corrispettivo e un fortissimo collegamento sociale, ma vi è anche una consistente campagna di sensibilizzazione.

Il fumo provoca, tra gli altri dannosi effetti, soprattutto la formazione di cancro a polmoni, pelle, lingua ecc. oltre che a rischi di ischemie, infarti e altre patologie, ma tutto questo viene tranquillamente accettato da qualunque fumatore moderno. Questo perché i danni più gravi provocati dal consumo delle sigarette non possiedono una manifestazione certa, e se compaiono lo fanno solo nel lungo periodo.

Si potrebbe controbattere che il fumo possieda anche degli effetti immediati, o perlomeno in un lasso temporale considerevolmente breve, ma per molti di quelli ci sono rimedi repentini, che sono alla portata di tutti e che sopperiscono a questo problema.

Come seconda caratteristica, invece, un rischio accettato deve essere necessariamente conosciuto, e, perciò, deve essere possibile mettere in conto la sua manifestazione a un nostro ipotetico comportamento o sistema.

L’accettazione, dopotutto, è necessariamente collegata alla conoscenza. Nel momento stesso in cui veniamo a prendere consapevolezza della pericolosità di un determinato comportamento, acquisiamo quasi una sorta di potere su quest’ultimo, spesso mal soppesando l’effettivo potenziale, e non ponderando correttamente gli effetti.

La conoscenza del rischio, però, comporta la nascita di un fasullo senso di controllo sull’effettiva presenza della scelta o meno operata dal soggetto. Conoscere gli effetti collaterali ci fornisce la possibilità di soppesarli e decidere spontaneamente di perseguire una specifica azione, o di abbandonarla quando il pericolo sia effettivamente superiore al beneficio. Questa sensazione di scelta, però, altro non è se non il risultato effimero di una mera illusione.

La terza caratteristica necessaria al rischio è legata alla sua origine, ovvero al comportamento da cui potrebbe scaturire l’effetto collaterale. Infatti, nonostante il potenziale pericolo soddisfi le caratteristiche precedenti, senza la presenza di quest’ultimo punto è piuttosto raro che sopravviva alla trasformazione che potrebbe essere messa in atto dalla società.

Un rischio, per potersi mantenere saldo e continuativo, deve essere il risultato di un’azione o di un processo estremamente radicato e stabile all’interno delle abitudini globali, oppure, essere il risultato o l’effetto di un sistema che sembra incancellabile o inalienabile dalla routine umana. Il rischio dell’inquinamento, per esempio, è collegato allo stile di vita e ai sistemi di consumo globali, e una sua scomparsa richiederebbe un lavoro e una fatica dal peso non ignorabile. Questo, ovviamente, senza contare tutti i legami con il mondo economico.

È come se gli effetti collaterali del comportamento assumessero una posizione di second’ordine rispetto all’impossibilità stessa di alterazione del suddetto. L’abitudine e l’incapacità di immaginare un sistema alternativo riescono ad acquietare le coscienze umane, che si cullano nella scusa dell’impossibilità di apportare un rimedio. La fatica che andrebbe messa in gioco diviene peggiore degli effetti collaterali a cui si rischia di andare incontro, soprattutto perché la prima andrebbe attivata in un periodo immediato.

Ci sono casi, però, in cui i pericoli derivanti da un’azione umana possono essere eliminati sospendendo o modificando l’azione in questione. Questo può accadere o per il semplice motivo che si tratti di un’operazione che non risulti essere indispensabile, o, molto più probabile, perché è possibile apportare alcune modifiche alle caratteristiche delle suddette operazioni. Un esempio potrebbe essere il cambiamento sull’utilizzo di un determinato materiale piuttosto che un altro.

Nell’accettazione di questi rischi e di questi effetti collaterali, però, il problema risiede proprio nel senso di abitudine che si sviluppa nella consapevolezza della loro presenza. La reale incidenza di queste ultime, nonostante sia oramai estremamente diffusa, non riesce a suscitare più il senso di pericolo e di attenzione che risulterebbe invece necessario. Lo stesso Beck parlava di rischi inevitabili. Questa considerazione del pericolo, e la consuetudine della presenza di minacce collegate ad azioni che, anche se globali, rispondono pur sempre a un sistema organizzativo umano, hanno fatto sì che si creasse il principio dell’inevitabilità del rischio (Beck, 2000).

In un processo che può essere ricollegato a quello teorizzato da Seligman dell’Impotenza appresa (Seligman, 1992), anche se con evidenti differenze, la demoralizzazione e l’arrendevolezza, a cui oramai siamo abituati, nell’accettare pericoli che potrebbero essere sistematicamente ridotti, è piuttosto allarmante nell’ambito dello sviluppo umano.

Alla base della presenza di questi rischi gioca proprio quel senso di ineluttabilità e lontananza che alimentano la riproduzione degli stessi, in una visione deterministica e fatale del futuro. Ma questa considerazione è esclusivamente frutto di un pensiero che vede la società come totalmente separata e slegata dal comportamento umano del singolo. Visione che incoraggia una passività e un totale senso di impotenza nell’azione umana, aumentando la riproduzione di comportamenti negativi per un illusorio pensiero racchiudibile nella frase: “è inutile fare qualcosa”. Questo pensiero, però, che risponde a una fatalistica teoria che si auto-avvera, non fa che peggiorare la già grave situazione attuale. Situazione che necessiterebbe di una svolta sociale concreta.

Federico Carlino – sociologo

Bibliografia

Beck U., La società del rischio, Carocci, Roma 2000.

Ghisleni M., W. Privitera (a cura di), Sociologie contemporanee, Milano 2009.

Privitera W., Tecnica, individuo e modernità. Cinque lezioni sulla teoria di Ulrich Beck, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.

Seligman M. E. P., Helplessness: On Depression, Development, and Death, W.H. Freeman & Company, U.S.A. 1992.

Simmel G., La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1996.


LA BELLA E LA BESTIA: STEREOTIPI CULTURALI E DINAMICHE RELAZIONALI

di Federica Ucci

In sociologia, per stereotipi si intendono schemi di classificazione sociale che attribuiscono ai membri di una determinata categoria oltre che specifiche caratteristiche anche sfumature valutative, positive o negative. Essi si trovano nella sottocultura di classe e spesso si sono formati storicamente nel corso di molte generazioni, per cui sono basati su esperienze non dirette e individuali, ma assorbite nel processo di educazione sociale con beneficio d’inventario.

Un individuo li acquista prima di entrare personalmente in contatto con i rappresentanti della categoria stereotipizzàta, in altre parole se ne appropria prima di fare esperienze personali. Parte notevole degli atteggiamenti umani è dovuta non tanto al diretto comportamento di altri uomini, quanto agli stereotipi che vengono messi in moto nella coscienza nel momento in cui l’uomo si rende conto di essere venuto in contatto con i rappresentanti della categoria determinata. Si può dire, generalizzando, che una delle condizioni essenziali per la durevolezza e la stabilità del modello di comportamento dei membri di una determinata classe, in determinate situazioni sociali, è proprio l’approvazione degli stereotipi di cultura(1).

Il termine “stereotipo” è stato introdotto nelle scienze sociali da Walter Lippman nell’ambito degli studi dei processi di formazione dell’opinione pubblica in cui il rapporto conoscitivo con la realtà esterna è mediato dalle immagini mentali che ognuno si forma di essa e che sintetizzano, come “scorciatoie”, la complessità del reale in modo da renderlo di più semplice comprensione. Questa visione distorta della quotidianità e della vita associata è un’etichetta che viene portata avanti attraverso gerarchizzazioni socio culturali che possono aprire le porte al pregiudizio, un giudizio “prematuro” basato su un’informazione incompleta e insufficiente, che talvolta può sfociare in un sentimento negativo proprio per la mancanza di informazioni. Citando Lippman, gli stereotipi sono “fortezze della nostra tradizione entro la cui cinta possiamo professare con sicurezza le nostre opinioni di sempre”(2).

In questa sede, possiamo definire stereotipi di genere quelle rappresentazioni o immagini comuni e semplificate della realtà che, in ogni cultura, attribuiscono determinate caratteristiche alle donne, agli uomini e ai rapporti fra loro. Il loro uso conduce ad una percezione rigida e distorta della realtà che si basa su ciò che noi intendiamo per femminile e maschile e ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Gli elementi propri degli stereotipi di genere, secondo i quali le donne e gli uomini presentano “naturalmente” determinati elementi caratteriali, specifiche attitudini e competenze, influiscono in modo significativo nelle loro scelte di vita, creando inoltre in loro la tendenza ad esercitare la propria soggettività attraverso gli stereotipi stessi.

Sappiamo che per capire il comportamento degli adulti occorre conoscere il loro background infantile, la famiglia infatti è la prima agenzia di socializzazione dell’individuo, è al suo interno che il bambino inizia a farsi un’idea di se stesso, degli altri e del mondo e a capire come funziona la vita all’interno di un gruppo, almeno fino a quando inizia a frequentare la scuola. All’interno di queste agenzie la trasmissione culturale degli stereotipi avviene in diversi modi e attraverso diversi prodotti culturali, come ad esempio le favole, le quali influenzano profondamente l’immaginario infantile e, di riflesso, la costruzione dell’identità. Presentando una componente descrittiva e una componente prescrittiva, secondo cui si devono possedere determinate caratteristiche per essere accettati, le favole contribuiscono a confermare, tramandare e riprodurre modelli sociali tradizionali e forti differenziazioni di genere che i bambini interiorizzano grazie a un linguaggio simbolico immediatamente fruibile.

In questa epoca ipermoderna, nell’ambito delle relazioni sociali, in generale nei rapporti di amicizia, ma anche in quelli lavorativi o più nello specifico, in quelli di coppia, si tende a ragionare in termini egoici, ci si percepisce nella relazione con l’altro come due “Io”, due entità distinte che devono sforzarsi di unirsi, invece che come un “Io duale”, ovvero una singola identità interconnessa in cui la coppia sente e pensa mediante mappe neurali identiche, attivate da un corso di comunicazione continuo. L’individuo umano dipende naturalmente da una controparte per esistere, crescere e definirsi, quando sperimenta le prime esperienze infantili in strutture familiari caratterizzate da forti stati ansiosi, in esso può ingenerarsi una eccessiva paura del mondo esterno che lo fanno percepire come incapace di affrontare le grandi sfide della vita. Tuttavia, ci sono delle dinamiche ancora più nocive che possono plasmare il comportamento del futuro adulto e fare in modo che esse siano “replicate” nelle relazioni sentimentali e interpersonali in generale, le quali possono essere caratterizzate da dipendenza emotiva.

Statisticamente questo fenomeno risulta riguardare maggiormente la popolazione femminile, infatti, dalla letteratura risulta che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi sono di sesso femminile (D. Miller, 1994). l tema delle donne che hanno bisogno di essere al servizio di qualcuno e di “salvarlo” e degli uomini che ricercano donne capaci di controllare il loro comportamento per essere “salvati” non è un’idea moderna, ma è rafforzata da alcune favole che, dando corpo alle lezioni più importanti della cultura che le crea e le perpetua, continuano ad offrire da secoli diverse versioni di questo dramma.

Prendiamo, ad esempio, la favola “La Bella e la Bestia”, in cui una giovane carina e innocente incontra un mostro repellente e spaventoso.

Per salvare la propria famiglia dalla sua collera, accetta di vivere con lui e, conoscendolo meglio riesce a superare la sua ripugnanza arrivando persino ad amarlo. A questo punto, accade una magia: la Bestia si libera dall’incantesimo che gli aveva fatto assumere quelle sembianze per tornare ad essere un principe, compagno grato e desiderabile. Così Belle vede ripagata la sua accettazione, restando accanto a lui per condividere una vita meravigliosa. La Bella e la Bestia, come molte altre favole ripetute nei secoli, incarna una profonda verità spirituale, e questo tipo di verità di solito è già molto difficile da cogliere e capire, ancor di più da mettere in pratica, perché molto spesso cozza con i valori contemporanei.  Perciò, nella maggior parte dei casi, c’è una tendenza a interpretare questa favola in modo che rinforzi il pregiudizio culturale e, così facendo, è facile fraintendere il suo significato più genuino o perderlo del tutto. Il pregiudizio culturale che la favola sembra confermare è che una donna può cambiare un uomo se lo ama abbastanza intensamente.

Questa credenza è pervasiva nella psiche individuale e collettiva, più volte riflessa nei nostri comportamenti quotidiani e rappresenta il tacito assunto culturale che possiamo cambiare qualcuno in meglio con la forza del nostro amore e che, se siamo femmine, è nostro dovere farlo. Quando qualcuno a cui teniamo molto non risponde con le azioni o i sentimenti come noi vorremmo, cerchiamo di escogitare qualcosa per cambiare il suo comportamento o il suo carattere, talvolta seguendo i consigli degli altri, amici e parenti, ai quali chiediamo pareri volutamente o, ancor peggio, che si prendono autonomamente il diritto di elargire suggerimenti contraddittori non resistendo alla tentazione di volerli dare: tutti si concentrano sul problema di aiutare e come aiutare.

In questo contesto, anche i mass media entrano in azione, non solo per riflettere questo sistema di credenze, ma anche per rinforzarlo e perpetuarlo con la loro influenza, continuando a delegare questo compito alle donne. Le riviste femminili, ad esempio, pubblicano spesso articoli su “come aiutare il vostro uomo a diventare..”, mentre articoli analoghi su come andrebbero aiutate le donne raramente appaiono sulle riviste per uomini. Perché l’idea di trasformare una persona infelice, intrattabile o ancora peggio abusante in un partner perfetto è un concetto così affascinante per le donne?

Nell’etica giudaico-cristiana è insito il concetto di aiutare quelli che sono meno fortunati di noi, ci insegnano che il nostro dovere sono la compassione e la generosità quando qualcuno ha dei problemi: non giudicare, ma soprattutto aiutare è per noi un obbligo morale. Questi argomenti virtuosi non sono sufficienti a spiegare il bisogno di controllare le altre persone per riuscire a cambiarle, esso nasce da un’infanzia sottoposta a troppe emozioni schiaccianti: paura, rabbia, tensioni insopportabili, senso di colpa e vergogna, pietà per gli altri e per se stessi. Un bambino verrebbe distrutto in un ambiente di questo tipo se non sviluppa delle difese. I due meccanismi di autoprotezione più potenti sono la negazione e il controllo. Il meccanismo della negazione è molto utile per ignorare verità che non vogliamo prendere in considerazione, questo tipo di rifiuto della realtà avviene  su due livelli:  su quello di ciò che effettivamente accade e su quello dei sentimenti.

Facciamo un esempio per capire a livello pratico cosa succede in queste situazioni e quali potrebbero essere le ripercussioni sull’individuo.

Una bambina con un padre che rincasa tardi la sera o non rincasa affatto a causa di una relazione extraconiugale dice a se stessa, oppure le viene detto da un altro membro della famiglia, che il motivo è il lavoro. In questo modo, la bambina nega che tra i genitori ci siano problemi ed evita il senso di paura per la stabilità della propria famiglia e del proprio benessere personale che, altrimenti, sarebbe inevitabile. Inoltre, al posto della rabbia e della vergogna che sperimenterebbe affrontando la realtà, prova compassione se pensa che il padre lavori duramente, negando così sia la realtà che i suoi sentimenti: si crea una fantasia che rende la vita più facile. Così facendo, diventerà sempre più abile nel costruire questo tipo di difesa contro il dolore, ma allo stesso tempo perderà la capacità di fare scelte libere ed autentiche. Il meccanismo di difesa agisce automaticamente nell’inconscio, in una famiglia problematica spesso c’è una negazione condivisa della realtà, indipendentemente dalla gravità dei problemi, se esso non si attivasse il nucleo ne risentirebbe a livello psichico.

Inoltre, se un membro provasse ad opporsi a ciò, mostrando le cose per come realmente sono, probabilmente gli altri componenti gli si opporrebbero con fortissima resistenza e, talvolta, anche con la sua emarginazione. Il meccanismo della negazione porta ad evitare di attuare una scelta consapevole per adattarsi alla realtà e a sottrarsi dal sentire le proprie emozioni: tutto si limita ad “accadere” quando l’ego, nella sua lotta per proteggersi da conflitti, responsabilità e timori schiaccianti, cancella le intuizioni e le informazioni troppo dolorose e inopportune. Questo meccanismo porta anche ad evitare chiunque o qualsiasi cosa minacci di smantellare quella difesa contro il dolore, non si vuole provare senso di abbandono, panico, disperazione, risentimento e disgusto perché sono le emozioni tragiche e conflittuali che si dovrebbero affrontare se ci si permettesse di provare qualche sentimento. Meglio non provare nulla del tutto, da qui nasce il bisogno di controllare persone ed eventi, quel senso di sicurezza che genera conduce a una relativa tranquillità perché non ci si aspetta sorprese. E’ inevitabile che i bambini si assumano la responsabilità dei problemi familiari perché con la loro fantasia di onnipotenza credono sia di essere la causa della situazione e sia di avere il potere di cambiarla, in meglio o in peggio. Un comportamento disinteressato, come aiutare sempre gli altri, in realtà potrebbe essere un tentativo di controllare la situazione e non una propensione altruistica, dietro questa “bontà” possono esserci diverse motivazioni. Credere di riuscire a controllare una persona, ad esempio consigliandola o cercando di convincerla di qualcosa, può essere un modo per contare di riuscire a fare lo stesso con i propri sentimenti, quando la propria vita si intreccerà alla sua. Ovviamente, più ci si sforza di controllare e meno ci si riesce, ma non si può smettere e talvolta i meccanismi che si innescano sono simili a quelli della crisi di astinenza.

La negazione alimenta il bisogno di controllare e l’inevitabile insuccesso del controllo alimenta il bisogno di negazione, si cercheranno sempre situazioni che richiedono questo atteggiamento per essere gestite, è una sorta di circolo vizioso.

Quando da bambini non ci si permette di provare emozioni forti, da adulti i sentimenti profondi spaventeranno, negazione e controllo mettono a tacere il sistema di allarme emotivo. I modi in cui i bambini cercano di “salvare” la loro famiglia sono tre: rendersi invisibili, ovvero non chiedere mai nulla e non dare fastidio per non aggiungere altro stress; diventare cattivi, essere i ribelli o i capri espiatori delle sofferenze famigliari così che l’attenzione si sposti su di loro invece che sul problema reale da risolvere ed, infine, essere bravi ovvero dimostrarsi sempre il più perfetti possibile, soprattutto all’esterno, di fronte al pubblico.

La favola della Bella e la Bestia sembra voler confermare che con la forza dell’amore si possa cambiare un uomo, e quindi negazione e contrasto sono degli strumenti che permettono di raggiungere la felicità: Belle, amando ciecamente il mostro (negazione), sembra avere il potere di cambiarlo (controllo). Tale interpretazione appare corretta perché si adatta ai ruoli sessuali che la nostra cultura stabilisce, tuttavia, se questo racconto resiste nei secoli non è perché rinforza gli stereotipi culturali di una determinata epoca, ma perché incarna una legge metafisica di vitale importanza che fa riflettere su come vivere bene e con saggezza. E’ come se la favola contenesse una mappa segreta fatta di simboli che se si è abbastanza svegli da riuscire a leggere, cercherà almeno di spiegarci il segreto per ottenere una serenità interiore. Il suo significato centrale è l’accettazione, cioè antitesi di negazione e controllo. Accettazione è disponibilità a riconoscere la realtà per quello che è e a permetterle di esistere senza bisogno di cambiarla.

Questa è la chiave per una felicità che non viene dalla pretesa di manipolare le cose e le persone che ci circondano ma dalla capacità di sviluppare una pace interiore, anche di fronte alle provocazioni e alle difficoltà.

Nella favola, Belle non aveva alcun bisogno che la Bestia cambiasse, la valutava realisticamente, l’accettava per ciò che era e apprezzava le sue buone qualità.Non aveva cercato di trasformare il mostro in principe, la lezione sta in questo: lasciava libera la Bestia di sviluppare il meglio di se stessa. Per questa sua accettazione, l’essersi ritrovata accanto un principe dimostra simbolicamente che lei aveva ricevuto una grande ricompensa dalla vita. L’accettazione è l’aspetto più profondo dell’amore, alla base del nostro desiderio di voler cambiare l’altro c’è una motivazione egoistica del voler trovare, così, la felicità. Non c’è nulla di male nel desiderio di essere felici, ma mettere la sua realizzazione nelle mani di un’altra persona o di una circostanza esterna a noi significa negare la nostra responsabilità di cambiare in meglio la nostra vita.

Migliorare se stessi, invece, è un lavoro esilarante perché permette di costruirsi una vita soddisfacente per conto proprio, eliminando il risentimento e la frustrazione che si generano quando ci si ostina a non capire che solo l’altro, se vuole, può decidere di cambiare.

Smettere di investire energie nel controllo ed orientarle su se stessi conduce a una reale indipendenza che ci rende capace anche di liberarci di quelle cose della vita che ormai non vanno più[3], non bisogna avere timore ne sentirsi in colpa di lasciar andare qualcosa o qualcuno che, semplicemente, non risuona più con il nostro modo di vivere.

Ogni tanto è bene liberare un po’ di spazio affinché si crei posto per ciò che può farci evolvere interiormente.


Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali

[1] Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista. La prima grande opera del teorico della società liquida, Pgreco Edizioni, Milano, 2017.

[3] R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, 2013.


ASSEGNO DI MANTENIMENTO ALLA MOGLIE E ASSEGNO DIVORZILE: DUE PRONUNCE DELLA CASSAZIONE

di Martina Grassini

Assegno di mantenimento della moglie? Diminuisce se il marito contrae un mutuo.

<<== Avv. Martina Grassini

Se il marito contrae un mutuo, diminuisce l’assegno in favore della moglie.

Con l’ordinanza n. 13184/2020 la Suprema Corte si è pronunciata sul ricorso presentato da una moglie contro la pronuncia dei Giudici di primo grado, i quali, in sede di separazione personale tra i coniugi, avevano ridotto l’assegno di mantenimento disposto in favore della moglie. Tale diminuzione trovava giustificazione nel fatto che il marito avesse ridotto la propria capacità economica, a causa della stipulazione di un contratto di mutuo e dell’accollo integrale delle spese relative ai figli con lui conviventi.


In ordine al mutuo contratto dal marito la Suprema Corte ha rilevato come tale elemento deponeva per una diminuzione di reddito dell’uomo, piuttosto che per un suo incremento, dovendo egli pagare le rate del finanziamento. La Cassazione, quindi, ha rigettato il ricorso della donna.

La Corte di Cassazione si pronuncia in tema di assegno divorzile.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 15774 del 23 luglio 2020, si è nuovamente pronunciata sul tema “assegno divorzile”, rafforzando i principi già espressi con la pronuncia a Sezioni Unite n. 18287 del 2018. La Corte conferma la funzione compensativa e perequativa dell’assegno divorzile. Abolito, invece, il criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

I Giudici di Legittimità hanno dunque annullato la decisione della Corte d’Appello di Milano, che aveva riconosciuto un assegno divorzile alla moglie determinato sulla base “del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. Ciò che deve oggi essere accertato ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile sono le reciproche condizioni economiche delle parti considerato “l’apporto fornito dal richiedente l’assegno divorzile alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”.

Le regole dell’assegno rivolto all’ex sono quindi assolutamente restrittive: questo spetta solo in caso di effettivo bisogno e in misura proporzionata alla durata della vita coniugale, all’età dell’avente diritto ed all’impegno profuso nel matrimonio. La disparità economica non è dunque motivo di attribuzione automatica del diritto dell’assegno divorzile.

Quanto ai figli, la Suprema Corte ribadisce il diritto del minore di essere mantenuto da entrambi i genitori in proporzione alle rispettive possibilità e di mantenere lo stesso tenore di vita a prescindere dall’assegno di mantenimento per l’ex coniuge.

Avv. Martina Grassini , Assistente Prof. Avv. Michele Miccoli


“A Bruxelles abbiamo ottenuto più soldi di altri perché ci ritroviamo col maggior debito d’Europa”

Tre domande a… Giorgio Benvenuto.

<<= di Patrizio Paolinelli

L’ultimo Consiglio europeo si è concluso con un accordo che molti hanno definito storico. Anche lei la pensa così?

Preferirei che la storia venisse scomodata quando avremo visto i risultati. Intanto registro che il dibattito pubblico seguito all’accordo di Bruxelles è stato assai povero. Sia da parte dei partiti di maggioranza e di opposizione sia dal sistema dell’informazione.

Per questo nessuno ha notato che l’Europa ha attuato l’indicazione data da Mario Draghi all’inizio della crisi: ossia, aumentare il debito. A parte ciò, se proprio si vuole segnare uno spartiacque fra ieri e oggi direi che va cercato nel ribaltamento della linea di politica economica dell’Europa. Una linea passata dalla fredda austerità contabile a una politica di solidarietà che affronta la crisi senza tagliare. Guardi, se le risorse fossero state divise in proporzione all’andamento dei Pil l’Italia avrebbe ottenuto molti meno fondi. Invece l’Unione ha deciso di investire laddove i problemi economici sono maggiori. E parlo di problemi strutturali non direttamente correlati con la pandemia in corso. La quale semmai li ha fatti emergere in tutta la loro drammaticità. Mi sembra che dopo l’accordo raggiunto a Bruxelles si siano fatti dei passi in avanti verso l’integrazione europea. Certo, resta ancora molta strada da fare. Basti pensare ai temi del lavoro, del fisco e della politica estera. Però, a differenza di quanto è accaduto con la Grecia anni fa, il metodo di intervento dell’Europa è radicalmente cambiato e Paesi in difficoltà come il nostro o la Spagna ne beneficiano. Però attenzione: la svolta dell’Europa c’è stata, adesso tocca a noi svoltare. Intendo dire che le risorse ottenute devono essere utilizzare per tornare alla pari con gli altri partner del continente.

Restiamo sul tema. Vede delle novità nel modo con cui si è raggiunto l’accordo a Bruxelles?

Direi proprio di sì. La prima novità è che in questa operazione di rilancio dell’economia continentale si è rafforzato il potere della Commissione. La quale, a differenza del Consiglio europeo, è uno strumento assai più agile perché le decisioni che assume non necessitano dell’unanimità, non devono passare attraverso la discussione dei singoli parlamenti e perché fa prevalere i valori europei su quelli nazionali.

C’è poi un secondo elemento che credo sia importante sottolineare. Una parte delle risorse assegnate ai vari Paesi sono a fondo perduto. Bene, se dunque si mettono in comune i debiti inevitabilmente si creano le condizioni per realizzare una maggiore omogeneità fiscale e l’Europa può iniziare ad avere entrate proprie senza essere completamente soggetta ai contributi vengono inviati dai singoli Paesi così come è accaduto fino a oggi.

Una terza novità mi sembra costituita dal ruolo delle donne. Mi riferisco a Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Nella gestione dell’ultimo Consiglio europeo e più in generale della crisi provocata dalla pandemia hanno proceduto in sintonia e con determinazione. Se la settima scorsa l’Europa ha fatto un passo in avanti lo dobbiamo anche e soprattutto a queste tre donne.  

Al Consiglio europeo l’Italia ha strappato la maggior quota di fondi, ben 209 miliardi di euro. Siamo stati particolarmente bravi nel trattare?

Guardi, le capacità negoziali di Conte non c’entrano niente. I fondi destinati all’Italia sono il risultato di una scelta precisa da parte dell’Europa: ridurre le distanze economiche tra i Paesi dell’Unione. Noi abbiamo ottenuto più soldi di altri perché ci ritroviamo il debito pubblico più alto d’Europa. Detto in parole povere: siamo stati aiutati di più perché siamo messi peggio di tutti. Negli ultimi vent’anni la crescita media dell’Italia è stata dello 0,2 per cento. Ciò significa che da una generazione siamo in stagnazione se non in decrescita. Oggi abbiamo un’occasione irripetibile per uscire da questa fase e non possiamo permetterci di sprecarla. Pertanto dobbiamo impegnarci affinché la crescita del Pil sia superiore al tasso di interesse medio sul debito pubblico. Allora che fare con questi benedetti 209 miliardi? Mi auguro non vengano distribuiti a pioggia, ma investiti al fine di generare ricchezza, di favorire la il passaggio del nostro Paese dalla stagnazione allo sviluppo. Tenendo presente che la Commissione vigilerà su come ogni singolo Paese spenderà le risorse che gli sono state assegnate credo che noi dovremmo investire con decisione nella transizione ecologica e in quella tecnologica. Oltretutto come ben sappiamo la maggior parte dei fondi che abbiamo ottenuto sono prestiti che andranno restituiti, seppur in tempi lunghi e con tassi agevolati. Ma in ogni caso per restituirli il Pil deve aumentare. Purtroppo anziché fare progetti e piani di investimento condivisi con le parti sociali il governo ha costituito l’ennesima task-force che fornirà delle idee a metà ottobre. Ancora una volta si sceglie di non scegliere.

https://www.jobsnews.it/2020/07/patrizio-paolinelli-tre-domande-a-giorgio-benvenuto-a-bruxelles-ottenuti-piu-soldi-di-altri-perche-ci-ritroviamo-col-debito-pubblico-piu-alto-deuropa/


RIAPERTURA SCUOLE E POST COVID: LA COMPLESSA QUESTIONE DELLA DISABILITA’ E DEL PERSONALE DI SOSTEGNO

Il complesso quanto emblematico sistema scolastico del nostro Paese versa, da qualche decennio a questa parte, in una situazione non molto tranquilla per molteplici motivazioni concernenti la crisi economica e la conseguente carenza  nel mercato del lavoro di sbocchi idonei ad operare in tale circostanza. Peraltro, il virus ha acuito maggiormente tale momento di stasi per il mondo scolastico italiano.

<<= dott.ssa Francesca Santostefano

Si prevede un già complicato ritorno nelle cattedre sia da parte degli insegnanti, del personale scolastico e soprattutto da parte degli alunni, i quali si troveranno a fronteggiare, tra norme di sicurezza e distanziamento sociale, una nuova modalità di approcciarsi a vivere la “classica” giornata scolastica. Assodata è la questione della carenza di insegnanti, ivi compresi quelli di sostegno, conseguentemente ci troviamo di fronte ad uno scenario paradossale: insegnanti di storia, matematica, tecnica, precetti lontani ed ineguali anni luce dalle basi e requisiti predisposti per il sostegno, vedono tali insegnanti a cimentarsi in queste vesti, con una classe magari già di suo superiore ai 20 alunni col compito di tenere a bada un bambino o adolescente il quale vive con problematiche fisiche o comportamentali. Oggigiorno diventare insegnante di sostegno tuttavia è un compito abbastanza arduo.

Nell’anno scolastico 2019-2020 in Italia sono “100 mila” gli insegnanti di sostegno, di cui “70 mila” sono cattedre in deroga, cioè non parte dell’organico stabile della scuola, quello che in gergo scolastico si definisce “di diritto”. Il problema, generalizzato a tutto il Paese, è più accentuato in alcune regioni, soprattutto in Piemonte dove la media degli insegnanti che vengono formati ogni anno è inferiore a quelle di Sicilia e Sardegna e supera di poco quella dell’Abruzzo, territorio più piccolo in cui i posti da occupare sono di meno. Nella sola provincia di Torino gli alunni disabili sono passati da “7.740” lo scorso anno a “7.957” e, a fronte di “70” mila posti in deroga attualmente presenti in Italia, bisogna considerare pensionamenti e trasferimenti che faranno aumentare la richiesta. Il virus ha lasciato un’impronta senza dubbio inequivocabile nell’economia del Paese, e gli strascichi a sua volta saranno permanenti nel decorso del tempo. Nel fronteggiare tale questione paradossale e complicata nella formazione in particolare dei futuri insegnanti di sostegno, da recuperare sarà anche la formazione di docenti specializzati: ad esempio all’Università degli Studi di Torino, ogni anno vengono formati “20” insegnanti di sostegno per l’infanzia, “50” per la scuola primaria, “65” per la secondaria di primo grado e “70” per la secondaria di secondo grado.  Il Piemonte è, pertanto, la penultima regione italiana per numero di posti riservati alla formazione (ultima la Valle d’Aosta con 90 posti). Dei “19.585” totali sommati tra tutti gli atenei italiani sono “205”, poco più dell’”1%”. I nuovi corsisti, cui erano stati aggiunti altri “230” posti, che avrebbero dovuto iniziare la specializzazione, sarebbero entrati in lista per l’assunzione dell’anno scolastico 2021-2022. E’ stato complesso durante il lock down e con la chiusura delle scuole, cercare di interagire e di impartire ammonimenti alle categorie di alunni con disabilità. In proposito, federazioni ed associazioni hanno fronteggiato tale problematica offrendo aiuto e sostegno da un lato al personale scolastico e dall’altro alle famiglie alle prese con la FAD.

Prime fra tutte la FIRST (Federazione Italiana Rete Sostegno e Tutela dei diritti delle persone con disabilità) è intervenuta sulla questione chiedendosi “comegarantire il diritto allo studio delle persone più fragili, che come tale hanno bisogno di essere sostenuti e assistiti da personale specializzato, con rapporti spesso ad personam, con la garanzia primaria del diritto alla salute e alla vita”. Queste sono state le soluzioni proposte dalla Federazione:

>Per tutti coloro che possono lavorare a distanza, tenuto conto della particolare condizione di funzionamento della disabilità dell’alunno/a, si attui la predisposizione di un progetto condiviso con il consiglio di classe e la famiglia, di potere svolgere le proprie funzioni di assistenza specialistica, direttamente legata alla didattica di competenza dei docenti, di offrire la prestazione a distanza per tutte le ore indicate nei rispettivi PEI in sinergia con i docenti, anche a supporto e/o consulenza agli stessi docenti e ai familiari;

>Per tutti coloro che non saranno nelle condizioni di lavorare, neppure a distanza, a motivo del particolare funzionamento della persona con disabilità, garantire il diritto agli ammortizzatori sociali o altre forme di integrazione del reddito, come pare si stia prevedendo;

>Qualora non fosse possibile garantire integralmente a distanza tutte le ore da PEI, garantire la stessa retribuzione prevista anche per le ore non lavorate per cause non imputabili;

>Sia il MIUR a dettare delle linee guida in ordine alle modalità attraverso le quali le scuole devono predisporre delle piattaforme telematiche per consentire agli operatori senza oneri a loro carico la prestazione a distanza;

>Si predisponga il progetto educativo a distanza elaborato dal GLHO, con il contributo degli assistenti all’autonomia e comunicazione e la partecipazione della famiglia e degli alunni mediante collegamenti telematici;

>Per gli assistenti igienico personale, essendo la loro funzione strettamente collegata alla presenza dell’alunno, appare ovvio che ad essi possa essere garantita solo la misura degli ammortizzatori sociali.

La chiusura delle scuole, dei centri diurni e riabilitativi ha portato un drastico cambiamento delle routine e un obbligato isolamento sociale. Inoltre ha determinato l’interruzione delle terapie e delle attività del tempo libero che per le persone con autismo sono occasioni importanti per esercitare e mantenere competenze sociali, comunicative e autonomie acquisite nel corso degli anni.
In questo periodo di emergenza per i terapisti non è stato possibile incontrare di persona i propri pazienti con disturbi dello spettro autistico; solo in pochi casi si è riusciti mettersi in comunicazione con loro attraverso sistemi di comunicazione a distanza.. Per evitare che le importanti conquiste sul fronte delle abilità sociali vengano perse, è necessario che le attività con i terapeuti vengano riprese al più presto nelle strutture, ove possibile, o nel contesto domestico. Fondamentale è infine supportare gli insegnanti nell’individuare e gestire nuove forme di didattica a distanza in vista del prossimo anno scolastico. L’obiettivo è promuovere strategie e interventi in grado di favorire, anche a distanza, l’inclusione di tutti gli alunni e gli studenti all’interno della classe, anche quelli con autismo o altre patologie fisiche. La tematica dell’inclusione sociale è stata messa in discussione dalla chiusura delle scuole, fondamentale è ora trovare una soluzione permanente per la carenza degli insegnanti di sostegno e che vengano garantite preventivamente le norme di sicurezza a favore di tutto il personale scolastico. Non sarà semplice adattarsi a questa predisposizione, tuttavia la responsabilità che assumeranno sia le famiglie che il personale docente sarà un aiuto concreto per risollevare il paradosso della crisi scolastica.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Erickson.it., Mondo Erickson autismo-covid 19 ruolo dei professionisti nella fase post-emergenza; La stampa.it., Coronavirus insegnante di sostegno con gli autistici anche a distanza ce la faremo., Alessandria; Tecnica della scuola.it., Coronavirus diritto allo studio degli alunni disabili, le soluzioni proposte dalla first.

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.


Le differenze di genere in tempo di Covid-19

Report Questionario a cura di Mirella e Imma D’orsi

Nell’ambito delle attività del Comitato Pari Opportunità Nazionale A.S.I, è stato elaborato un questionario, dalle sociologhe Mirella D’Orsi e Imma D’orsi, membri della rappresentanza Campana con la supervisione del Direttore Scientifico ASI, Prof. Luigi Caramiello.

<<== dott.ssa Mirella D’Orsi

L’obiettivo del gruppo di lavoro è stato quello di riflettere sul tema della disparità e delle discriminazioni di genere entro le mura domestiche, del se e del come queste siano riconosciute, percepite e perpetuate dalle donne stesse. Spunto d’indagine è stato il recente periodo di lockdown, reso necessario per il contenimento dell’emergenza sanitaria Covid-19, che ha chiuso l’intera popolazione nelle proprie case praticando una “convivenza forzata” scevra dai vari impegni sociali, istituzionali e lavorativi. Un’articolazione non convenzionale della routine domestica e di una libertà “cintata” per la Tutela della Salute propria e della collettività.

Un’ indagine sulla “nuova” quotidianità familiare a cui la pandemia e le relative misure di contenimento, hanno in modo inaspettato, costretto a ridefinire. Il nostro intento precipuo è stato quello di evidenziare se ed in che misura la “clausura” dovuta al lockdown abbia influito e/o modificato le percezioni delle differenze di genere all’interno del nucleo familiare.

dott.ssa Imma D’Orsi ==>>

La ricerca è rivolta a donne madri lavoratici conviventi con il proprio partner a cui è stato somministrato, dal 28 aprile al 7 maggio 2020, un questionario on line. Hanno risposto 159 donne le cui informazioni, totalmente anonime, sono state trattate nel pieno rispetto della legge sulla privacy GDPR 679/18, D.lgs. 916/2003 e successive modifiche 101/2018. La distribuzione delle singole frequenze sono state raccolte automaticamente mediante il modulo Google Drive. Successivamente alla raccolta è stata data una lettura sociologica dei dati incrociati anche nel tentativo di delineare una piccola piattaforma empirica sulla quale poter strutturare analisi d’indagini successive.

Il questionario è stato articolato in 5 sezioni.

La Prima Sezione è costituita da items incentrati su una descrizione socio-anagrafica delle partecipanti all’indagine e sulle informazioni relative alla composizione del loro nucleo familiare.

Il campione, come si legge nella Tabella – Descrizione del campione, è costituito prevalentemente da donne di età compresa dai 40/50 anni (44%), coniugate (71%) che hanno conseguito un titolo di laurea (60.9%) e che svolgono un lavoro come dipendete, con una leggera prevalenza nel settore pubblico.

Tabella – Descrizione del campione

La maggior parte delle donne coinvolte nell’ indagine dichiara di vivere in una famiglia di tipo nucleare con almeno due figli di cui 1 oltre i 15 anni.

Nella seconda Sezione sono state raccolte informazioni specifiche sull’attività lavorativa, sulle eventuali modifiche legate all’emergenza sanitaria e sulla intersezione tra vita privata e pratica professionale. Le tematiche indagate si sono focalizzate principalmente sulle percezioni riguardanti la soddisfazione del proprio lavoro e sull’utilizzo degli strumenti straordinari di conciliazione offerti dal D. P. C. M.  Cura Italia.

Tra i dati più significativi in questa sezione emerge che il 57.1% delle donne partecipanti al questionario è “abbastanza” soddisfatta del proprio lavoro e che il 90.8% non ha fatto domanda del congedo parentale straordinario previsto dal decreto Cura Italia (non richiesto neanche dai rispettivi partner). Non emergono grosse differenze di genere tra le variazioni subite sull’esercizio delle professioni, (sia come modalità sia come retribuzione) a causa del lockdown ad eccezione di un tendenziale aumento del lavoro femminile che è maggiormente intensificato per le donne (14.3%) rispetto a quello degli uomini (6.8%), per i quali inoltre risulta più alta la percentuale di modalità “orario ridotto” (10.9% rispetto al 5.8% delle donne)

Gli items della Terza Sezione hanno indagato sul grado di “comfort” avuto durante la cosiddetta “convivenza forzata”.

Sono state raccolte informazioni sull’adeguatezza degli spazi domestici, il 55.8% degli intervistati risulta “abbastanza” soddisfatto e ampiamente diffusa la possibilità di usufruire almeno di un balcone come spazio esterno; sulla dotazione tecnologica, oltre il 55% dichiara di possedere in casa più di 1 devices a persona; e sull’impegno delle cure domestiche misurandone a riguardo eventuali variazioni pre e intra-pandemia. Il 29.7% delle donne intervistate ha dichiarato di non usufruire di alcun aiuto esterno prima del lockdown mentre il 32.7 ha dichiarato che il proprio ruolo all’interno della famiglia ha subito variazioni.

Nello specifico è da rilevare che l’impegno delle donne alle cure domestiche durante la quarantena risulta “molto” aumentato soprattutto nelle attività di pulizia tout court, di preparazione dei pasti e di spesa alimentare.  Similmente a quello riferito dei rispettivi partner in cui, sempre nelle stesse dimensioni, si registra un incremento delle attività del valore di “abbastanza”. Verosimilmente durante il lockdown la casa è stata più vissuta da ogni suo abitante e ciò avrà conseguentemente comportato un aumento concreto delle faccende domestiche che però si è distribuito diversamente tra i generi componendosi in “molto” nelle donne e in “abbastanza” tra gli uomini.

Il tempo dedicato all’educazione scolastica dei figli rimasti a casa è stato più bilanciato nella distribuzione. Il 51% delle donne del questionario ritengono che il peso delle faccende domestiche non sia distribuito in modo uguale contro il 19% che invece ritiene che sia distribuito equamente.

La Quarta Sezione ha raccolto informazioni sulla qualità percepita delle relazioni familiari durante la quarantena. Più della metà delle intervistate conviene che la forte contenzione sociale imposta dal lockdown sia stata “un’opportunità per stare insieme”, un’occasione per occuparsi delle proprie relazioni e ripensare ai propri valori. Soprattutto nella dimensione sul rapporto con i figli, è stata registrata un’influenza positiva con un abbassamento dei livelli conflittuali.  Aver avuto più tempo da trascorrere con e per i propri figli ha probabilmente intensificato le interazioni migliorandone la relazione affettiva.

Il 44% delle donne dichiara che “non sa” se il periodo di restrizione abbia influito sui propri rapporti intimi. Il 25% sostiene che ci sia stata un’influenza di segno positivo mentre per il 19% di segno negativo; il 5% hasegnato la modalità “altro” ed il 7% ha preferito astenersi dal rispondere. Ciò potrebbe indicare il persistere di una   scarna consapevolezza della propria femminilità da parte delle donne attraverso cui passa anche l’emancipazione sessuale? Uno spazio d’indagine suscettibile di ulteriore approfondimento.

Le donne ritengono che il proprio impegno domestico sia “abbastanza” apprezzato dal partner e dai propri figli; ed il 50 % di esse su una scala da 1 a 5   valuta “il livello di soddisfazione della propria vita familiare in questo momento” con una distribuzione tra il 2 e il 3.

La Quinta Sezione infine, ha raccolto informazioni più specifiche relative alle credenze, alle percezioni eagli episodi di discriminazione di genere sia all’interno della famiglia che fuori.

Durante il lungo periodo di “sosta” forzata il carico di lavoro di cura per le donne risulta più impegnativo, visto il maggiore numero di persone presenti in casa e l’impossibilità a ricorrere ad aiuti esterni. Ciò indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro, dalla sospensione dell’attività lavorativa, dalla pratica di smart working e dall’entità della retribuzione! 

Il 23.1% delle donne che hanno partecipato al questionario ritiene che la gestione familiare e le relative responsabilità non abbiano “per niente” influito sul proprio lavoro, contro il 17.3% che invece sostiene il “molto”; optano “abbastanza” il 30, 8% e per il “poco” il 28.2%. Il 71.3% delle donne ritiene che gli uomini hanno possibilità migliori di realizzarsi in ambito lavorativo contro il 9.6% che risponde “non saprei”. Il 39.7% dichiara di sentirsi “qualche volta “discriminata in quanto donna sul lavoro ed il 31.8% ritiene di non esserlo “mai”. Le percentuali si abbassano se la percezione di discriminazione di genere è riferita all’ambiente domestico: il 23.9% di sente discriminata “qualche volta” e il 32.9% “mai”! Il 69.9% ritiene che le faccende domestiche dovrebbero essere divise in modo uguale ed il 90.3% ritiene che durante il periodo di contenimento del Covid-19 non abbia subito alcun forma di discriminazione.

Conclusioni

Come da più parti evidenziato durante il tempo “sospeso” che forzatamente il lockdown ha portato ad “apprendere a vivere”, sono stati solcati spazi intra e inter-relazionali. Tralasciando gli aspetti più drammatici e nefasti del virus, è stata per molti un’occasione per riscoprire i propri valori e la propria capacità di stare in famiglia.  Di abitare spazi e relazioni; di ri-scrivere significati assistendo a trasformazioni inedite, come quello di un “nuovo” tempo disponibile da poter gestire in maniera più oculata e libera, rispetto a cosa fare o non fare; o quella della propria casa che da semplice luogo di “passaggio”, quale era ridotta nei ritmi frenetici pre-covid, è divenuta luogo “sicuro e protetto”, ove poter curarsi e prendersi cura degli altri.

Un tempo sospeso vissuto in luogo “protetto” in cui, come si evince dai dati emersi, le disparità di genere sembrano dilatarsi! Poiché anche nel confinamento sociale, talvolta anche lavorativo, è sempre sulle donne a gravare la maggior parte del peso della gestione domestica e della cura; mentre agli uomini è chiesto di “collaborare” a varia misura a ciò che tuttavia appare, alle donne in primis, una missione dipinta di rosa.

Seppur funambole delle mille risorse le donne stesse sembrano rappresentarsi come protagoniste indiscusse del “focolaio domestico”; se da un lato infatti, sembrano chiedere una maggior collaborazione dei partner auspicando una più equa, e quasi fantomatica, divisioni dei compiti dall’altro lato difficilmente le stesse ritengono di essere soggette a discriminazione di genere in famiglia.

L’indagine e i risultati del Report in tal senso, danno un quadro significativo del periodo di quarantena. Seppur non esaustivo, è stata considerata infatti solo una parte della popolazione sociale con precise caratteristiche, il lavoro ha evidenziato alcune tracce significative su cui poter costruire altre indagini. Un primo passo di ricerca utile per poi allargare il campo di azione sociale.

Si ringraziano tutte le donne che hanno donato il loro tempo alla somministrazione del questionario. E si ringrazia l’Addetto Stampa ASI, dott. Antonino Calabrese, per il sostegno offerto.

Dott./sse Mirella e Imma D’Orsi, componenti Commissione Nazionale Pari Opportunità dell’Associazione Sociologi Italiani


Il mistero della bocca

di Patrizio Paolinelli

Chi siamo? Ecco una delle più antiche e insolute domande della filosofia. Fortunatamente le risposte sono tante. Tra queste una appare tra le più spiazzanti: siamo i nostri sensi. Per sviluppare questa direzione di ricerca Aldo Meccariello ha dato alle stampe un piccolo e pregevole tascabile intitolato, “Bocca. Ouverture enigmaticamente ovvia” (Fefè Editore, Roma, 2019, 121 pagg., 12,00 euro).

<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Il lettore non può fare a meno di interrogarsi immediatamente sul significato del sottotitolo: perché la bocca è un ovvio enigma? Se la bocca è evidente, data, cosa mai può nascondere? E se nasconde qualcosa, di che si tratta? Dove risiede il suo mistero? Risponde Meccariello: nella sua molteplicità. Per il filosofo romano la bocca costituisce “l’organo più completo, polivalente, multiuso della nostra struttura di esseri umani”. Tramite la bocca infatti ci si nutre, si parla, si bacia, si ride, si sorride, si esprimono sentimenti e emozioni. Tale versatilità fa della bocca un organo camaleontico: muta di continuo, è in perenne trasformazione, non smette mai di comunicare.

Chi siamo, dunque? Nient’altro che bocca sostiene Meccariello sulla scorta di una poesia di Rainer Maria Rilke. Ma è davvero così? Non è una forzatura assegnare alla bocca un tale primato? Sembrerebbe di no e per dimostrarlo Meccariello scrive una piccola enciclopedia portatile in cui scioglie l’enigma dell’ouverture enigmaticamente ovvia. Nel corso dalla sua indagine osserva la bocca praticamente sotto ogni profilo: anatomico, naturalistico, letterario, artistico, antropologico, psicologico, semiotico, mitologico e così via. Come ci riesce in un tascabile talmente esile che può scomparire nella tasca di una giacca? Attraverso l’analogia. “Bocca” si caratterizza infatti come una preziosa collana di citazioni che offre al lettore un panorama di interventi di autori appartenenti a epoche e campi disciplinari diversissimi: da Freud a Oscar Wilde, da Dante a Canetti, da Desmond Morris a Roland Barthes, da Aristotele a Pirandello, da Omero a Giobbe e tanti altri ancora.

Ma perché Meccariello ha scelto l’analogia come grimaldello per forzare lo scrigno che custodisce l’enigma della bocca? Probabilmente perché l’analogia stimola la ricerca e invita il lettore ad aprire altri libri. E forse anche perché l’analogia può persino disorientare. Come quando Meccariello passa in poche battute dalla commedia di Pirandello “L’uomo dal fiore in bocca” alle giovani assaggiatrici dei cibi che verranno poi serviti a Adolf Hitler e alla cerimonia di apertura della bocca delle mummie egizie per chiudere poi tali accostamenti con una riflessione di Bataille.  

Meccariello studia la bocca soprattutto attraverso testi scritti. Ma sono diverse le sue incursioni nella cultura visuale, in particolare nel cinema: spazio che offre allo sguardo dello spettatore i lunghi baci tra Ingrid Bergman e Cary Grant, tra Humphrey Bogart e ancora Ingrid Bergman, tra Marlon Brando e Eva Marie Saint. Poi il teatro, con “La voix humaine” di Jean Cocteau. E ancora il cinema con il mediometraggio di Roberto Rossellini intitolato “La voce umana” fino a giungere all’inquietante Hannibal Lecter, il protagonista del film “Il silenzio degli innocenti”.

E proprio con il cannibalismo Meccariello conclude inaspettatamente la sua rassegna. Un capitolo del genere dovrebbe stare all’inizio del libro e non alla fine. Perché Meccariello rovescia un consolidato ordine testuale? Perché lasciare il lettore con quest’atto ferino? Ci abbiamo riflettuto. E abbiamo concluso che sì, il cannibalismo costituisce l’indice inequivocabile di un primitivismo ancestrale. Ma allo stesso tempo tale atto non si traduce in assenza di civiltà, come ci ricorda Marvin Harris in quello splendido libro sulle origini delle culture che è “Cannibali e re”. Si tratta allora di una provocazione intellettuale? Di un monito? Forse entrambe le cose anche se propendiamo per la seconda ipotesi. E propendiamo per la seconda ipotesi perché la bocca (come peraltro i cinque sensi) è sia un dato della natura sia un dato della cultura. Lo dimostra proprio il caleidoscopio di analogie offerto da Meccariello. Il quale si sforza continuamente di ricordarci che con la bocca si può amare e si può ferire, persino uccidere: sia con le parole sia con atti ripugnanti quali il cannibalismo.

Forse il messaggio filosofico che Meccariello ci consegna con la traumatizzante conclusione del suo libro è quella di guardare al nostro drammatico presente. Un presente in cui gli esseri umani si divorano civilmente tra loro e in fondo ancora oggi non sono poi così dissimili dall’orda primitiva di cui parlava Freud. Siamo cannibali ma coi libri e i tablet sottobraccio? Potremmo diventarlo sembra ammonire Meccariello. Ma possiamo ancora scegliere. Scegliere tra il bene e il male, tra la bocca che ama e la bocca che odia.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 18 luglio 2020.


Devianza: tra medietà e anormalità

di Davide Costa

La devianza è data dalla sommatoria degli scarti dalla media ovvero dalla differenza tra ciascuna modalità e la media al quadrato.  Essa è un indice di dispersione ossia esprime il grado di variabilità all’interno di un collettivo.

<<== dott. Davide Costa

Quante volte ci sarà capitato di sentir parlare di “devianza” oppure di “atto deviante”? Nella società del click anche termini molto complessi, e talvolta non particolarmente agevoli, diventano sempre di più di uso comune. In particolare, il termine devianza, è quasi esclusivamente impiegato con un’accezione negativa e/o dispregiativa.

 Deviare significa “andare contro”, ma fino a che punto questo “andare contro”(chi e cosa?), è negativo?

E’ per tali ragioni che è intendo avviare un ciclo di articoli dedicati alle diverse forme di devianza  portate sul grande schermo,  sotto forma di pellicole, nella piena convinzione che le rappresentazioni sociali siano tra le più grandi lenti con le quali poter analizzare il mondo sociale. Ma prima di fare tutto ciò è fondamentale fornire un quadro definitorio e metodologico che possa essere utile non solo agli addetti ai lavori ma anche, e soprattutto, ai profani, precisando sin da ora che quanto segue lungi dall’essere una trattazione esaustiva.

Dobbiamo partire dal presupposto che la sociologia, in primis, ha più volte cercato di fornire risposte più o meno esaustive sul piano semantico a proposito del fenomeno di cui stiamo parlando. E’ per questo motivo che bisogna partire dalla definizione, a nostro avviso, più autorevole, di devianza, ovvero quella di Luciano Gallino,  secondo cui la devianza è qualsiasi: Atto o comportamento o espressione, anche verbale, del membro riconosciuto di una collettività che la maggioranza dei membri della collettività stessa giudicano come uno scostamento o una violazione più o meno grave, sul piano pratico o su quello ideologico , di determinate norme o aspettazioni o credenze che essi giudicano legittime o a cui di fatto aderiscono, ed al quale tendono a reagire con intensità proporzionale al loro senso di offesa”(Gallino, 2014).

Secondo quanto detto fino ad ora, la devianza ha insita nella sua stessa natura una forma di scostamento da un “qualcosa” di collettivamente(o meglio socialmente) definito; si tratta di un evento o situazione  perturbante che fa vacillare il sistema delle “comodità sociali”, ossia valori, credenze, norme  e cioè la “cassetta degli attrezzi” del vivere in società; si tratta, però di uno strumentario particolarmente semplicistico, perché improntato su un approccio, per così dire inferenziale, e quindi volto verso la  generalizzazione, o meglio, basato sulle generalità, o per essere più “statistici” sulla medietà.

Non è affatto casuale il richiamo alla statistica, dal momento che si avvale di un indice di dispersione omonimo, appunto la devianza, con il quale si designa il valore di uno scostamento rispetto all’andamento medio di una distribuzione. Il che ci porta a paragonare la medietà con il concetto di normalità; a questo proposito dobbiamo ricordare che Quételet già nella metà dell’Ottocento parlava di uomo medio, ossia l’individuo nel quale si manifesta la media delle qualità di una collettività. Anche se normalità e medietà sono due locuzioni molto “pericolose” e non semplici da maneggiare, soprattutto in questo periodo in cui ogni parola viene utilizzata come un corpo contundente con cui colpire e ferire, anche a morte, l’altro!

Ma ritornando al concetto di medietà/normalità, spesso in statistica, a questo proposito, si ricorre alla poesia di Trilussa(2015):

…te tocca un pollo all’anno

e, se nun entra nelle spese tue

t’entra ne la statistica lo stesso

perché c’è un antro che ne magna due…”.

In questi pochi versi è racchiusa un grande osservazione statistico-sociologica perché “Trilussa aveva ragione: la media aritmetica fra 0(polli mangiati dal protagonista della poesia) e 2 polli(mangiati dall’antro della poesia) la media aritmetica svolge molto male il suo lavoro di valore medio di sintesi poiché dà un informazione contraria alla realtà”(Mecatti, 2015).

Dove si vuole andare a parare con ciò? Al fatto che nella medietà non vi è effettiva realtà, non vi è la possibilità di cogliere la variabilità, ovvero quell’attitudine insita nella natura, alla diversità, che molto spesso, è minoritaria ma non per questo meno rilevante, anzi, in diversi casi sono state proprio le minoranze, le “devianze”, ad aver cambiato il mondo.

Il concetto di devianza, così, assume un significato duale, nella piena convinzione, però, che ogni fenomeno sociale sia per la sua stessa essenza, governato da una pluralità di sfumature, poiché si tratta di prodotti umani, e sappiamo bene quanto l’umano sia poco “fungibile” e di conseguenza “variabile” e mutevole. Pertanto, non si vuole “difendere a spada tratta” sempre e comunque la devianza, ma più semplicemente vogliamo sottolineare come questo fenomeno sia anche e non solo  pericoloso per l’individuo e la collettività. A questo proposito, alla stregua di questo pseudo dualismo(tra normalità e anormalità, tra medietà e devianza) dobbiamo ricordare che “(…) anormalità non è una constatazione effettiva ma una valutazione. (…)– perciò vanno distinte-le personalità anormali come semplice deviazione dalla media, dalle personalità veramente malate, che sono scaturite dall’alterazione di una disposizione per il sopravvivere di un processo morboso”(Jaspers 2000).

Il confine tra normalità e devianza è labile, perché labile è il parametro al quale si fa riferimento per poter “giudicare” un qualsiasi evento come deviante; ci riferiamo alla norma, che per sua stessa definizione è in generale uno strumento di controllo del comportamento umano. Ecco dunque il nocciolo della questione, se il confine, tra anormalità e normalità è sancito dallo strumento in cui viene impressa l’impronta di chi l’ha prodotta, significa che nella norma è implicita la sua propensione a generale una qualche forma di disuguaglianza.

Perché ciò? Perché l’atto di normare, o meglio di porre in essere una norma(sociale o giuridica) è un atto di potere, ma ogni qualvolta si ricorre al potere si riproducono gli schemi di disuguaglianza, e quindi di ineguale distribuzione delle risorse, che renderà minoritaria la a rilevanza di alcuni gruppi, e quindi rappresentatività di determinate ideologie nella norma che si intende produrre ed applicare. Il che ha portato, e continua a farlo, ad un iper-dominio del pregiudizio, degli schemata, ovvero di tutte quelle forme mentali e sociali, volte ad anticipare e prevedere l’agire dell’altro, impregnate di intolleranza verso la diversità. Si badi bene, però, che la diversità non necessita di ostentazione o spettacolarizzazione, altrimenti il rischio è quello di aumentare ancora di più il grado di riprovazione sociale, e con essa la totale non accettazione della devianza(in senso positivo ovviamente!).

Deviare, quindi, non per forza è solo un qualcosa dal quale bisogna tutelarsi, anzi “(…) del criterio della norma(…) si può abusarne per etichettare o escludere tutti quelli che, apparentemente sono fuori norma, sono invece normalissimi sotto altri rispetti antropologici e morali. Tutti gli individui geniali, i riformatori, i fondatori, ecc., entrano necessariamente in conflitto con la “normalità mediocre” e con il sistema  socio-politico del momento, e si pongono come modelli di rinnovamento critico  e di progresso, sebbene siano visti dagli altri come modelli negativi da non seguire, come modelli destinati al fallimento, come modelli per certi aspetti patologici”(Bilotta 2017).

A questo punto dovremmo rivedere, con uno spirito sociale e sociologico rinnovato, il concetto di devianza, poiché in alcuni casi è proprio ciò che si discosta che stimola e innova, due azioni che oggi più di ieri, per un domani diverso, dovremmo iniziare a realizzare. Dovremmo, sempre sotto un profilo positivo e all’insegna del pluralismo, cominciare a ricercare quel lato unico, che ci caratterizza, che ci rende soggetti nella società in grado di adattarsi ma al contempo stesso di differenziarsi anche  perché come ci ricorda Aristotele “Non c’è mai stato un vero genio senza un pizzico di pazzia”.

Davide Costa- Sociologo e segretario regionale dell’Associazione Sociologi Italiani

Riferimenti bibliografici

Bilotta B.M., (2017), Elementi di sociologia dei conflitti, Cedam, Milano.

Gallino L.(2014) “Dizionario di Sociologia”, De Agostini Libri S.p.A, Novara.

Jaspers K.,(2000), Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma.

Mecatti F., (2015), Statistica di base: come, quando, perché, McGraw-Hill Education, Milano.

Trilussa, (2015), Tutte le poesie, Mondadori, Segrate.


TRAFFICANTI DI MENZOGNE. COS’E’ SUCCESSO AD AMANTEA NEI TRE GIORNI DI PROTESTA?

di Sonia Angelisi

foto pubblicata dal quotidiano Gazzetta del Sud

Quanto è accaduto in questi ultimi giorni ad Amantea, lascia spazio  a molte riflessioni che meritano attenzione. Troppo superficialmente è stata liquidata come “razzista” una protesta popolare che affondava le sue radici non soltanto in un malumore diffuso, ma anche  in un senso di incertezza che ha fatto sorgere una serie di interrogativi.

Amantea, uno dei maggiori centri turistici e commerciali della costa, si è vista piombare improvvisamente addosso la decisione di sistemare 13 persone positive al Covid-19 in una struttura di accoglienza per immigrati in pieno centro città, struttura sulla quale già si nutrivano da tempo forti dubbi sulla idoneità. La decisione calata dall’alto su un comune commissariato, ha provocato una reazione da parte di alcuni cittadini, i quali pretendevano risposte congrue e documentate.

Le domande si sono delineate nel corso dei tre giorni di protesta, giorni in cui la cittadinanza ha avuto la possibilità di incontrare i tre commissari prefettizi a guida della città e un funzionario dell’ASP di Cosenza. Dall’incontro non sono arrivati i responsi che i cittadini si aspettavano, anzi sono stati alimentati dei dubbi, avallati anche dalle testimonianze di alcuni sindaci dei paesi limitrofi, i quali sostenevano di essere a conoscenza, già dalla sera stessa del trasferimento dei migranti, della positività degli stessi al Coronavirus.

L’incertezza, quindi, era l’unica costante di fronte alla quale i cittadini potevano misurarsi. L’esigenza di avere riscontri attendibili aumentava sempre più.

dott./ssa Sonia Angelisi == >>

I dubbi dei cittadini in protesta si sono, dunque, concentrati attorno a tre questioni:

  1. La richiesta di documentazione attestante l’idoneità dello stabile.
  2. La richiesta di trasferimento dei 13 positivi in una struttura idonea possibilmente non in centro città, data l’inopportunità di creare una mini-zona rossa in una città a forte vocazione turistica.
  3. L’accesso agli atti pubblici relativi al trasferimento delle 13 persone.

Tuttavia, la percezione globale che l’Italia ha avuto in merito alla protesta, non ha avuto riscontro con la realtà dei fatti. Perché? Sicuramente il fatto che la manifestazione non fosse organizzata ma nata “di pancia”, è stata una delle cause principali. A questo aggiungiamo: l’errore di  non aver saputo individuare dei portavoce in grado di esporre con chiarezza quanto i cittadini chiedevano, e la spettacolarizzazione mediatica emersa nei servizi giornalistici in cui si è dato probabilmente troppo spazio alle (per fortuna) rare derive razziste da cui una moltitudine ordinata e rispettosa prendeva le distanze. Tutto ciò, non ha fatto altro che creare confusione e distorcere le ragioni sottese alla protesta.

In molti, da lontano, esterni alla protesta, non interessati realmente a dialogare per comprendere, hanno liquidato come razzista e fomentata dalla paura una protesta che, invece, voleva razionalizzarsi, alimentando in questo modo un traffico di menzogne su un tema che meritava dignità e serietà di trattazione.

DOVE CI TROVIAMO? CONTESTUALIZZIAMO LA PROTESTA

Bauman sostiene che ci troviamo  nella società della prestazione ovvero quella società della prestazione individuale, imperniata sulla cultura individualista in cui o stai a galla o affondi. La vita quotidiana precaria costringe l’individuo a tenersi costantemente pronto, seguendo parametri (reddito stabile, impiego fisso, ecc) ormai impossibili e non garantiti da una forma di governo non più legittimato da una promessa di protezione e sicurezza. In sostanza, i poteri se ne lavano le mani del dover rendere la vita vivibile (Bauman, 2016), le incertezze della vita umana vengono privatizzate e la responsabilità di affrontarle vengono caricate sulle esili spalle del singolo. Di fatto “individualizzazione” è un altro modo per definire l’insistenza da parte dei poteri costituiti di “subappaltare” a ciascun individuo il compito di affrontare i problemi  che scaturiscono dall’incertezza. Gli individui, in sostanza, si trovano a dover trovare soluzioni individuali a problemi creati dalla società. Gli esseri umani sono abbandonati alle loro sole risorse. Questo accade quando abbiamo un sistema amministrativo e politico che funziona; questo è ciò che accade nella sua versione peggiore quando abbiamo un paese abbandonato a se stesso.

COSA ACCADE? PAURA O SENSO DI RESPONSABIITA’?

Alla globalizzazione del potere (cioè la capacità di far fare), non è corrisposta una globalizzazione politica (cioè la capacità di decidere cosa fare). Questo significa che la sovranità territoriale delle entità politiche superstiti è completamente erosa. La conseguenza di ciò, è che una comunicazione col potere è sempre più remota. Impossibile.

  Da questa situazione di abbandono e incertezza, nasce la paura cosmica. La paura cosmica è stata usata in passato dalla religione per annullare la persona e la sua coscienza. Si trasforma secondo  Bauman in  paura ufficializzata quando questa diventa funzionale agli interessi dei poteri costituiti: il potere genera una situazione di pericolo, che a sua volta genera paura, al fine di raggiungere i propri obiettivi. Può accadere in un contesto del genere, che la folla ansiosa si raduni attorno al cosiddetto “Uomo o Donna forte”, ovvero colui o colei che possa rendere di nuovo sicuri i cittadini. Chi si appella al concetto di paura, deve avere ben chiaro che la protesta di Amantea non si è affatto basato su una paura di questo tipo. Se c’è una cosa che i manifestanti di Amantea hanno fatto, è stato proprio di non essere funzionale agli interessi costituiti; non sono state appoggiate le decisioni prese dall’alto, non per paura di confrontarsi con l’Alterità (d’altronde Amantea da anni accoglie migranti e si dimostra solidale e inclusiva), quanto perché travolti da un senso di incertezza che ci ha richiamati ad un senso di responsabilità: chi avrebbe vigilato sul rispetto della quarantena dei 13 individui se già durante il lockdown non si era stati in grado di rispettarla? Qual era il quadro clinico dei 13 contagiati? Perché era stata scelta proprio quella struttura dove già erano presenti altri immigrati, decidendo di mettere altri 13 positivi al Covid-19  e 6 casi di scabbia? Domande legittime, frutto di disorientamento e rabbia verso chi non ha tenuto conto delle istanze di un tessuto sociale che, a fatica, sta cercando di ricomporre i propri pezzi.

Non è stata una insofferenza alle differenze, ma una intolleranza all’oscurantismo.

È vero, anche Amantea, come tutto il mondo, è vittima di un processo di securitizzazione, ma ciò non significa che la protesta del 12 luglio non possa essere l’anno zero di una nuova consapevolezza. Anzi, mi auguro che lo sia date le criticità che affliggono Amantea e che meritano soluzioni immediate ed adeguate. La securitizzazione consiste nel dirottare l’ansia di problemi che i governi non sanno e non vogliono risolvere (per esempio: protezione contro l’umiliazione sociale, posti di lavoro di qualità, aumento dell’occupazione, garanzia alla salute), verso problemi su cui gli stessi governi si mostrano intenti a lavorare alacremente  (per esempio, la lotta al terrorismo). Con la securitizzazione i governi non hanno interesse a placare le ansie del cittadino, al contrario le gonfiano di inquietudine, facendo in modo che il cittadino si aggrappi dove ci sono maggiori occasioni di visibilità per il politico di turno. È un trucco da prestigiatori: creo la paura e te la faccio sparire, lasciandola sempre lì.

Pur in balìa delle contraddizioni del nostro tempo, una parte di Amantea, quella che ha manifestato, seppur crocifissa dai suoi stessi concittadini, si è rifiutata di partecipare al Carnevale Morale della solidarietà ad opera dei “disfattisti moralizzatori”, come lo definisce Bauman, ovvero quella esternazione di effimere esplosioni di solidarietà in cui comunque si continua a vivere ponendo una separazione netta tra “noi” e “loro”, negando la morale in quanto tale, al servizio della contrapposizione sociale e politica.

Cosa significa, invece, essere morali? Significa conoscere la differenza tra il bene e il male, distinguerli per sapere cosa stiamo compiendo e per riconoscere le nostre responsabilità.

La responsabilità morale della protesta amanteana era sapere quanto ci fosse di bene e male nel trasferimento dei migranti da e per Amantea. Del resto, le principali accuse sono piovute proprio sul responsabile dello stabile in cui alloggiavano i migranti, stabile per cui è emerso che l’ASL DI AMANTEA NON NE HA MAI VALUTATO POSITIVAMENTE L’IDONEITA’. Si capisce bene che il tema precipuo della protesta non era affatto l’immigrazione in sè, ma ben altro. Fosse stato comunicato l’arrivo di 13 turisti positivi nella cittadina tirrenica, sono certa che gli albergatori e i cittadini tutti non se ne sarebbero rallegrati e avrebbero reagito allo stesso modo.

Il trasferimento dei 13 positivi ad opera della Ministra Lamorgese, ha probabilmente confermato le perplessità espresse durante la protesta. Allo stesso tempo, i manifestanti non accolgono affatto la notizia con entusiasmo. NON E’ UNA VITTORIA, MA UN FALLIMENTO DEL SISTEMA! Resta lo sgomento e la delusione di aver dovuto constatare la situazione di abbandono in cui versa la città: città bellissima, ricca di potenzialità, risorse umane e paesaggistiche e, allo stesso tempo, bistrattata, umiliata e saccheggiata, nonchè asservita a una mentalità clientelare, quella pesante catena invisibile che la tiene imprigionata da tantissimo, troppo tempo.

<<==Ministro Interno Luciana Lamorgese

Sonia Angelisi – sociologa


Il futuro del lavoro secondo Wired

di Patrizio Paolinelli

Prof. Patrizio Paolinelli

L’edizione di primavera della rivista Wired è interamente dedicata al lavoro. Due parole sul magazine. Nasce nel 1993 a San Francisco su iniziativa del giornalista Luc Rossetto e dello studioso di cultura digitale Kevin Kelly. In quest’avventura vennero sostenuti dal tecno-divulgatore Nicholas Negroponte, che fu editorialista fisso della rivista fino al 1998. Wired si occupa delle nuove tecnologie, è molto popolare e si rivolge in particolare ai giovani, è scritta con un linguaggio comprensibile anche ai non specialisti e affronta l’impatto delle tecnologie digitali sulla società. L’Italia ha il privilegio di ospitare una delle due versioni internazionali di Wired, l’altra è quella inglese. La rivista è vicina al Partito Democratico statunitense.

Date queste credenziali è utile capire come il magazine valuta le conseguenze dell’hi-tech sul mondo del lavoro. La domanda di fondo a cui cercano di rispondere gli autori di questo numero della rivista è: le applicazioni dell’informatica espandono o contraggono l’occupazione? Ovviamente la complessità del problema impedisce di rispondere con un sì o con un no. Tant’è che il magazine è diviso in tre sezioni ricalcate dalle tre cantiche della Divina Commedia: inferno, purgatorio, paradiso. Nella prima si fa il punto della situazione sulle professioni che rischiano l’estinzione o che non soddisfano economicamente; nella seconda su quelle che si trovano in mezzo al guado della transizione digitale e sono soggette a profonde trasformazioni; nella terza ecco finalmente apparire la luce grazie alle nuove opportunità occupazionali offerte dall’economia digitale. Ogni cantica di Wired è preceduta da dati quantitativi, ricavati da fonti quali McKinsey, Ocse, Eurostat e così via. Ai numeri e alle percentuali fanno seguito una serie gli articoli focalizzati su specifiche attività interessate dall’impatto del digitale: dall’operatore di call center ai robot che coadiuvano camerieri e cuochi, dalla professione di stuntman a quella di giornalista, all’operaio aumentato e altre ancora.  

All’inferno si trovano i lavori manuali. Secondo alcune previsioni pare che in Italia da qui al 2030 assisteremo a drastici crolli dell’occupazione nelle attività estrattive (-24,3%), nell’agricoltura e pesca (-19,5%), nella gestione dei rifiuti (-17,2%). Per quanto concerne le attività scarsamente retribuite gli occupati nella gig economy (economia dei lavoretti), sempre nel nostro Paese, sono 589.039 (l’1,59% della popolazione attiva, 18-64 anni). A sorpresa all’inferno troviamo finalmente ospitati una platea di operatori del digitale impropriamente considerati, come i gig worker, lavoratori autonomi. Si tratta invece di lavoratori a chiamata o sottoposti a contratti capestro, che in genere guadagnano poco e spesso operano in nero. Di solito tali lavoratori sono chiamati freelance. Un modo elegante per evitare di dire quanto poco elegantemente stanno le cose, e cioè che sono precari a cui è negato ogni diritto. Precari che nella data-economy non sono solo i ciclo-fattorini (i cosiddetti riders), ma anche le migliaia di lavoratori invisibili che da dietro le quinte aggiornano gli algoritmi in modo da fornire servizi intelligenti agli utenti del Web. Wired non lo dice apertamente, ma non ci vuole molto a capire che gig economy è l’ennesimo anglicismo che serve a camuffare la realtà, in questo caso la realtà del lavoro para-schiavista. Come se non bastasse anche l’occupazione regolare conosce sostanziosi arretramenti. In Italia, tra salariati e stipendiati, il 12% dei dipendenti si trova in condizione di povertà, mentre la media europea è del 9,5%.

Passiamo al purgatorio. Qui troviamo una gran quantità di lavoratori destinati a precipitare all’inferno più che ad ascendere in paradiso. A causa dell’innovazione tecnologica nel 2030 si stima che a livello mondiale saranno tra i 400 e gli 800 milioni le persone che resteranno disoccupate. Forse allarmata dall’enormità della cifra Wired offre subito due soluzioni: la formazione e i lavori di tipo domestico. Con la prima soluzione entro il 2030 si potrebbero creare dai 75 ai 375 milioni di nuovi posti di lavoro. Un ventaglio talmente largo da far dubitare sulle possibilità della formazione di recuperare la maggior parte dei posti di lavoro perduti.  Mentre con la seconda soluzione i posti di lavoro ipotizzati sarebbero da 50 a 90 milioni e riguarderebbero attività quali le pulizie, il giardinaggio, il baby-sitting, la preparazione dei pasti e l’educazione della prima infanzia. Insieme di attività chiamate col solito anglicismo di care giving, ma che sarebbe assai più appropriato definire come lavori servili, e in quanto tali scarsamente retribuiti. Se a puro titolo di esercizio mentale si prendono in considerazione le cifre più alte presentate da Wired nel 2030 resterebbero senza lavoro 335 milioni di persone. Come sopravviveranno? Un bel problema, perché in qualche maniera dovranno pur sopravvivere. Con tutta probabilità andranno a alimentare il lavoro nero, il sommerso, o tireranno avanti con traffici illeciti, sussidi di povertà e quant’altro.

In paradiso si trovano i vincenti inseriti nell’economia digitale. Lì per lì i dati sembrano confortare. Infatti, a livello mondiale nel 2030 l’8,9% degli occupati svolgerà una professione che oggi non esiste e in Italia, entro la stessa data, si assisterà a un aumento dei posti di lavoro nei servizi amministrativi (+26,5%), nell’assistenza sanitaria e sociale (+23,7%), nel mondo delle professioni (+22,2%). Ma quando si entra nello specifico gli entusiasmi si raffreddano. Per esempio, quest’anno, sempre sul piano globale, l’intelligenza artificiale creerà 2,3 milioni di posti di lavoro cancellandone contemporaneamente 1,8 con un saldo attivo di appena 500mila nuovi posti di lavoro. Sinceramente rammaricati dobbiamo dire che questa cantica di Wired è quella più debole. Nel paradiso della tecnologia si può infatti restare a bocca aperta dinanzi alle fabbriche intelligenti in cui i robot collaborano con gli operai, oppure se si mette piede nella fiorente industria dei videogiochi, o quando si incontrano gli angeli del fare, i cosiddetti maker, tecno-artigiani che inventano nuovi mirabolanti prodotti hi-tech. Finita la sorpresa resta la dura realtà: questi e altri settori tecnologicamente avanzati non saranno in grado di assorbire che in minima parte la forza-lavoro espulsa dai comparti produttivi tradizionali. Non solo. L’accelerazione tecnologica lascia prevedere che anche attività oggi considerate all’avanguardia potrebbero prima o poi essere sostituite da macchine grazie ai processi di autoapprendimento dell’intelligenza artificiale (Machine Learning).

E allora al paradiso di Wired non resta che affidarsi a due speranze. La prima, secondo la quale una maggiore produttività delle aziende potrebbe creare i presupposti per nuovi business e dunque per nuova occupazione. Pia speranza visti i magri risultati fin qui ottenuti. Ovviamente risultati magri per una larga fascia di lavoratori o aspiranti tali. Per una élite di imprenditori, di manager e una minoranza di professionisti l’economia digitale ha invece rappresentato un tempo di vacche grasse, anzi grassissime. La seconda speranza punta sull’avvento di un capitalismo dal volto umano che permetta l’introduzione di un reddito di base incondizionato dando così il via alla società del post-lavoro. Speranza ancora più pia della precedente data la natura predatoria del capitalismo reale, peraltro ampiamente confermata nella sua attuale versione digitale. Ciò non significa chiudere gli occhi dinanzi alle profonde trasformazioni del potere economico. Il quale, sia che riguardi la new economy sia che riguardi la old economy, si sta sempre più configurando come un regime di monopoli con tratti che ricordano l’antica nobiltà feudale.

Ma torniamo al nostro argomento. Nonostante sul futuro dell’occupazione si versino e si continueranno a versare fiumi di inchiostro ci pare di poter dire che allo stato attuale delle cose il bilancio volge al negativo. Lo stesso susseguirsi di docce calde e fredde nell’indagine di Wired ci sembra confermarlo. E se ci sarà un’inversione di tendenza non sarà certo la tecnologia a deciderlo ma la politica, come del resto è avvenuto con le altre rivoluzioni industriali. Tuttavia una lancia a favore della rivista va spezzata.

Già il fatto che non si spertichi a osannare l’automazione trascurando le contraddizioni che produce è un notevole passo in avanti rispetto a certa pubblicistica manageriale che invece ancora le ignora in nome di un darwinismo sociale di antica memoria. Certo Wired non può tradire la sua missione: che è quella di infondere fiducia nelle tecnologie digitali tra i suoi lettori. E dobbiamo dire che ci prova con tutte le proprie forze. Nel numero qui considerato non mancano articoli di blasonati prof ed esperti che si esprimono in positivo sulle conseguenze sociali dell’innovazione tecnologica. Ma, sia detto con tutto il rispetto, sono pezzi assai deludenti. Non si va più in là del catechismo tecno-ottimista che imperversa sui media, di qualche percentuale a effetto gettata lì per impressionare il lettore, di comparazioni storiche che meriterebbero molta più indagine, cautela e riflessione. Per esempio, paragonare l’attuale rivoluzione industriale con le precedenti è sbagliato perché ben altro è il contesto sociale e geopolitico e perché la storia non si ripete mai nella stessa maniera. Allora non ci resta che attendere. Attendere che Wired faccia un altro passo avanti e per il bene della tecnologia inizi a porsi criticamente domande di questo tipo: il digitale sta davvero facendo avanzare l’umanità? Coi computer la qualità della vita è migliorata? Basta inventare nuove macchine per dire che la società sta progredendo?

Patrizio Paolinelli, Via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 15 luglio 2020.


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