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DALL’ORGANIZZAZIONE NEVROTICA ALL’ORGANIZZAZIONE AFFETTIVA

Quanto influisce lo stile personale degli individui sull’ambiente di lavoro e sulle organizzazioni sociali in generale?

di Federica Ucci

Secondo Franco Fornari, qualunque collettivo organizzato, dalla società nel suo complesso alle organizzazioni di lavoro, è tenuto insieme da una competenza affettiva naturale presente in ciascun uomo, sotto forma di “codici affettivi” che hanno la funzione di difendere il progetto generativo dalle angosce di morte, sia persecutorie che depressive, come è evidente soprattutto nella famiglia, luogo deputato alla sopravvivenza dell’umanità.

<<== dott/ssa Federica Ucci

Ogni collettivo nasce per realizzare un progetto, simbolizzato come bambino che deve nascere, da qui deriva il codice affettivo come “assunto di base” (Bion, 1948) centrato sull’accoppiamento, inoltre, per organizzarsi necessita dell’intimità e del calore materno, e questo giustifica la funzionalità di un codice centrato sulla dipendenza. Per difendere il proprio progetto-bambino, il collettivo ha poi bisogno di costruire uno schema amico-nemico, tipico di una funzione paterna: di qui la rilevanza affettiva dell’assunto di base attacco-fuga.

Per Fornari, ogni intervento “terapeutico” nelle organizzazioni deve tendere alla realizzazione di una sorta di “democrazia affettiva” fondata sulla “compresenza e sull’integrazione armonica dei diversi codici affettivi che informano la struttura del potere familiare, utilizzando come modello normativo quello della buona famiglia interna”. Infatti, nelle organizzazioni sono diffuse profonde sofferenze causate da una “militarizzazione” reciproca dei codici affettivi, quando non addirittura dal dispotico prevalere di uno di essi. [1]

Per “organizzazioni nevrotiche” si intende realtà dissestate i cui sintomi e disfunzioni si combinano originando una “sindrome patologica”: come la connessione tra vari sintomi può rivelare la presenza di una anomalia all’interno di un organismo, così insiemi di problemi relativi alla direzione strategica e alla struttura organizzativa di un’azienda spesso indicano l’esistenza di una patologia organizzativa diffusa.

Il comportamento umano è solitamente caratterizzato da una varietà di stili nevrotici, in uno stesso individuo essi possono essere compresenti e manifestarsi con maggiore o minore intensità a seconda delle situazioni. In molti individui, tuttavia, è possibile distinguere il prevalere di un particolare stile che caratterizza in modo coerente molti aspetti del comportamento. Qualsiasi manifestazione eccessiva di un solo stile nevrotico può, a un certo punto, sfociare in psicopatologia e grave impedimento funzionale.

E’ possibile stabilire una correlazione e un’analogia tra patologia individuale, intesa come predominio di uno stile nevrotico, e patologia organizzativa che causa gravi deficienze nelle strutture organizzative. La personalità dei manager può influire in modo sostanziale sulle strategie, sulla struttura e, soprattutto, sulla cultura dell’organizzazione. Per stile personale si intende quella forma di comportamento attraverso cui l’individuo si mette in relazione con la realtà esterna e con il suo mondo interiore. 

Sia le interazioni interpersonali che i bisogni istintivi hanno un ruolo centrale nello sviluppo della personalità, il comportamento infatti è determinato dall’universo mentale dell’individuo, formato da rappresentazioni durature si sé e degli altri. Queste rappresentazioni si sviluppano attraverso il processo di maturazione ed interazione umana sino a divenire codificate come stabili forze guida. Le rappresentazioni mentali diventano unità organizzative che consentono all’individuo di percepire, interpretare e reagire significativamente  in modo sensato all’ambiente circostante.

I bisogni istintivi sono tipicamente collegati a queste rappresentazioni mentali e vengono tradotti in desideri di vario tipo, che a loro volta vanno ad articolarsi sotto forma di “fantasie”, le quali possono essere concepite come schemi rudimentali originali che evolvono in complessità, come “sceneggiature” organizzate suscettibili di drammatizzazione.[2] Le fantasie in questa sede sono da intendere come strutture psicologiche stabili e complesse che sottendono comportamenti empiricamente osservabili, ovvero i mattoni con cui vengono costruiti particolari stili nevrotici e, pertanto, i fattori determinanti di comportamento duraturo nel tempo.

Tutti, in una certa misura, abbiamo sintomi di disfunzioni nevrotiche: timidezza, depressione, timori irrazionali, sospetti eccetera, l’essere “normale” comporta la presenza di numerosi tratti nevrotici molto diversi. Ma a volte le persone rivelano un certo numero di caratteristiche che sembrano confluire in una particolare forma di nevrosi, le manifestano frequentemente e questo incide sulla loro condotta, che diventa rigida ed inadeguata.

Generalmente non necessitano di intervento psichiatrico  per essere efficienti nella vita quotidiana, ma il loro comportamento poco flessibile limita la loro efficacia, ad esempio sul posto di lavoro, nella posizione che ricoprono.  Uno stile nevrotico può distorcere il loro modo di percepire le persone e gli eventi, può influire pesantemente sui loro obiettivi, sulla loro capacità decisionale e perfino sulle loro preferenze in fatto di relazioni sociali. 

All’interno delle organizzazioni, le fantasie intrapsichiche delle figure professionali chiave sono uno dei fattori principali che influiscono sul loro comportamento nevrotico prevalente e, a loro volta originano fantasie comuni che permeano tutti i livelli funzionali, alterando la cultura organizzativa e creando uno stile adattivo dominante che avrà notevole peso sulle decisioni relative alla strategia e alla struttura. Le fantasie condivise sono rafforzate dai miti, leggende e storie dell’organizzazione: esse riguardano le origini della società, la sua evoluzione, le sue difficoltà e i suoi riti, abbracciando tutte le relazioni esterne ed interne dell’organizzazione consentono ai membri di identificare simboli comuni e raggiungere un senso di comunità.

“La mitologia corporativa è lo spirito dell’organizzazione ed è diffusa a tutti i livelli di gestione”.[3] Nelle organizzazioni “nevrotiche”, i sintomi sono correlati tematicamente e nel loro insieme danno forma a una “Gestalt”, cioè a una configurazione di segni che sembrano tutti essere una diretta manifestazione di una particolare forma di nevrosi. Ogni stile nevrotico, generatore di patologia organizzativa, ha le sue specifiche caratteristiche, le sue prevalenti fantasie scatenanti e i suoi pericoli annessi.

E’ possibile distinguere, perciò, cinque tipi di stili nevrotici patologici e disfunzionali: paranoide, ossessivo, isterico, depressivo e schizoide. Ognuno di essi configura una sindrome in cui molti aspetti della strategia, struttura e cultura organizzativa sono speculari agli stili nevrotici e alle fantasie dei manager ai vertici della gerarchia, i quali sembrano originare uniformità di culture organizzative sotto forma di miti, storie e credenze comuni.

Nelle organizzazioni “sane”, invece, c’è un’ampia varietà di stili e personalità manageriali tale che diventa difficile l’emersione di una in particolare che possa essere in grado di condizionare se non determinare strategie e struttura. Qui il potere è largamente disperso in quanto gli orientamenti sono determinati da un numero troppo grande di personalità diverse.[4]Un’organizzazione è come un essere vivente: nasce, si sviluppa attraverso diversi stadi, raggiunge la maturità e poi muore. Sopravvivono solo le più capaci, un “vaccino” che possa rafforzare il loro sistema immunitario contro gli agenti patogeni interni di cui sopra, ma anche esterni, come i cambiamenti improvvisi dei mercati, o la crisi dovuta alla pandemia ad esempio, è rappresentato dall’alfabetizzazione emotiva.

Esistono due livelli e due modelli di competenza sul lavoro: Competenze-soglia, ovvero quelle che occorrono per eseguire un determinato lavoro (Expertise) e Competenze distintive, che fanno risaltare gli individui più capaci rispetto a chi si colloca nella media (Competenze emotive). Le competenze emotive, in particolare, sono importanti perché emozioni e sentimenti sono una risorsa per aiutare gli individui a migliorare il proprio benessere, la propria motivazione e la capacità di comunicare ed interagire con gli altri.

All’interno delle organizzazioni, esse ottimizzano altresì i processi di apprendimento, l’acquisizione e lo scambio di informazioni e il processo decisionale. Esse,poi, sono fondamentali  ai fini della leadership, ossia un ruolo che consiste essenzialmente nell’ottenere che gli altri svolgano il proprio lavoro più efficacemente. In presenza di problemi, bisogna essere in grado di valutare la situazione con calma e considerarli in una prospettiva globale, per gestire una situazione ad alto potenziale emotivo è necessario possedere la capacità di individuarli e risolverli e per fare ciò occorre saper instaurare rapidamente un clima e un rapporto di fiducia, essere in grado di ascoltare, saper persuadere e riuscire a “vendere”una raccomandazione o una direttiva.

Le organizzazioni oggi dipendono sempre più dal talento e dalla creatività di persone che lavorano in maniera indipendente, ma ciò richiede competenze come autocontrollo,coscienziosità ed affidabilità[5]. Nel contesto organizzativo odierno, in cui sta prendendo sempre più piede la modalità Smart e in cui c’è sempre più imprevedibilità, ognuno porta una miscela specializzata di talenti ed expertise dando vita a gruppi che si formano a seconda delle necessità, che hanno la durata di un progetto oppure prendono forma di task force istituite ad hoc, anche in modalità virtuale. La sfida attuale, quindi,  è quella di imparare a lavorare riuscendo ad entusiasmarsi ed arricchirsi come se si avesse un lavoro stabile e, soprattutto, evitando che le proprie frustrazioni abbiano ripercussioni sull’ambiente lavorativo, soprattutto quando si ricopre una posizione gerarchicamente superiore.

Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa Specialista in Organizzazioni e Relazioni Sociali


[1] F. Fornari, L. Frontoni, C. Riva Crugnola, Psicoanalisi in ospedale:nascita e affetti nell’istituzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1985.

[2] J. Laplanche, J. B. Pontalis, language of Pshychoanalysis, Hogarth Press, London, 1973, p.318

[3] Ian M. Mitroff, Ralph H. Kilmann, Organization stories: an approach to the design and analysis of organizations through Myths and stories, in  R. H. Kilmann, L. R. Pondy e D. P. Slevin ( acura di), The management of organization design strategies and implementation, Elsevier-North Holland, New York 1976, p.190.

[4] Manfred F. R. Kets De Vries, Danny Miller, L’Organizzazione Nevrotica, Una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo, Raffaello Cortina Editore, 1992.

[5] D. Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un  nuovo rapporto con il lavoro. Bur Edizioni, 2006.


Il futuro del lavoro? L’ozio creativo

di Patrizio Paolinelli

Da diversi decenni il lavoro è un tema di cui si discute moltissimo nella sfera pubblica e nelle conversazioni private per molti motivi. I principali sono: la sua mancanza, la sua precarizzazione, il fenomeno della deindustrializzazione, quello della delocalizzazione, infine, lo spettro della disoccupazione tecnologica. Spettro che inizia a preoccupare anche professioni ad alto contenuto di sapere. Cosa è accaduto? Cosa sta accadendo? Cosa accadrà? A tali domande risponde Domenico De Masi in un ponderoso volume intitolato “Il lavoro nel XXI secolo” (Einaudi, Torino, 2018, pagg., 819, 24,00 euro).

Pur scrivendo un testo integralmente nuovo in questo libro il sociologo campano sintetizza le sue tante opere precedenti offrendo al lettore il compendio di una vita di studi e di ricerche. Già di per sé un’iniziativa del genere è meritoria. Ma lo è ancor più per il modo con cui il tema del lavoro è affrontato, ossia in una prospettiva storica e da un punto di vista sociologico. Sul piano storico De Masi ripercorre il percorso del lavoro dalla sua biblica condanna ai nostri giorni.

Mentre sul piano sociologico il lavoro non è osservato come un fattore isolato dalle restanti istituzioni. Al contrario, sono continui i rimandi alla dimensione politica e culturale secondo un approccio in virtù del quale il ruolo del lavoro e le sue trasformazioni non si spiegano se non attraverso la lettura del con Pur scrivendo un testo integralmente nuovo in questo libro il sociologo campano sintetizza le sue tante opere precedenti offrendo al lettore il compendio di una vita di studi e di ricerche. Già di per sé un’iniziativa del genere è meritoria. Ma lo è ancor più per il modo con cui il tema del lavoro è affrontato, ossia in una prospettiva storica e da un punto di vista sociologico. Sul piano storico De Masi ripercorre il percorso del lavoro dalla sua biblica condanna ai nostri giorni. testo sociale in cui agiscono. Si tratta di una lezione di metodo molto importante. Soprattutto oggi. Oggi che il dibattito pubblico sul lavoro è fagocitato da un economicismo arrogante, che il più delle volte parla in astratto, e molto autoritario, che presuppone il neoliberismo come l’unico modo per organizzare sia i processi di produzione sia i processi di riproduzione sociale.

Proprio per il grande respiro che caratterizza “Il lavoro nel XXI secolo” vale la pena ripercorrerne a volo d’uccello alcuni passaggi principali in modo da illustrare la complessità del fenomeno lavoro. Complessità che il più delle volte non percepiamo intendendo con lavoro il semplice gesto di timbrare il cartellino in fabbrica o in ufficio. Per questo motivo il lettore non si senta ingannato se del lavoro ai nostri giorni si parla solo nell’ultima parte del libro. Lo scopo di De Masi è di tipo pedagogico. Ossia accompagnare il lettore percorrendo la lunga strada che il lavoro ha compiuto dalla sua millenaria dimensione rurale a quella bicentenaria industriale fino all’attuale fase definita post-industriale. Un’altra lezione di metodo. E cioè, considerare il presente come figlio del passato perché senza memoria storica non lo si comprende. Certo, si può non essere d’accordo con De Masi su opinioni e giudizi seminati qua e là nelle centinaia di pagine che compongono la sua fatica. In alcuni casi si possono individuare limiti e in altri gli si può imputare una certa mancanza di obiettività. Ma, detto questo, gli va riconosciuto che ogni capitolo del suo libro è ricco di riferimenti, stimolante e propedeutico a successive letture di approfondimento. Insomma, un ottimo trampolino di lancio per un dibattito su un tema che interessa e qualche volta affligge tutti noi.

In estrema sintesi la riflessione di De Masi si concentra sul concetto di lavoro, ovvero sul valore ch’esso assume nelle diverse culture. Presenta così le interpretazioni laiche e religiose che hanno caratterizzato l’Occidente industrializzato: ossia l’interpretazione liberale, che con Smith considera il lavoro come un valore incorporato nei prodotti che realizza; l’interpretazione di Marx, il quale fa propria la spiegazione di Smith e aggiunge che il lavoro costituisce l’essenza dell’uomo; infine, la posizione della Chiesa Cattolica, che con la Rerum Novarum di Leone XIII considera il lavoro come riscatto dal peccato originale.

De Masi volge poi lo sguardo verso Oriente, soffermandosi sul significato del lavoro in India, Cina, Giappone e nel mondo musulmano. Come si può leggere le differenze sono sorprendenti pur essendo ormai il nostro pianeta unificato dalla cultura capitalistica. Cultura che a sua volta si distingue al proprio interno in relazione alla storia, alla religione, alla filosofia, all’idea di nazione e così via.

Non poteva ovviamente mancare un breve capitolo sul modo con cui la sociologia ha osservato il lavoro. E qui inizia a manifestarsi la posizione di De Masi. Posizione critica nei confronti dei suoi colleghi, in particolare di Luciano Gallino, da cui lo divide la visione prevalentemente industriale di quest’ultimo, mentre De Masi nel corso dei suoi studi ha focalizzato la propria attenzione sul lavoro intellettuale e creativo.

La seconda e la terza parte del libro di De Masi sono rispettivamente dedicate al lavoro nella società preindustriale e nella società industriale occupando la maggior quantità di pagine del volume (quasi 400). Dalla loro lettura emergono altri concetti di lavoro rispetto a quelli che abbiamo ereditato dai liberisti, dai marxisti e dai credenti. Nell’antichità classica, per esempio, erano gli schiavi a lavorare, mentre i cittadini, ossia gli uomini liberi di sesso maschile, si dedicavano all’amministrazione della cosa pubblica, alla politica, alla guerra e non potevano essere distolti da queste attività per coltivare la terra, costruire strade, case e così via. In quell’epoca il lavoro non era considerato una cosa nobile e questa concezione sarà prevalente fino alla rivoluzione industriale, che al contrario nobilita il lavoro ponendolo al centro della società e dell’identità degli individui.

In poco più di duecento anni la società industriale, aggregatasi intorno ai fronti contrapposti della borghesia e del proletariato, genera un nuovo modello: la società postindustriale. La quale si distingue dalla precedente per la sostituzione del lavoro delle braccia con quello della mente e per la produzione di beni immateriali: servizi, informazioni, cultura. Stiamo parlando della nostra società. Società in cui produttività e produzione aumentano sempre di più grazie all’istruzione, alla scienza e alla tecnologia. Ma il lavoro è ancora gestito con i criteri della società industriale. Ragion per cui abbiamo alti tassi di disoccupazione, precariato, povertà. Come superare la contraddizione di un lavoro postindustriale gestito con criteri industriali? Tramite l’ozio creativo. Ossia un mix di lavoro, studio e gioco.

A giudizio di De Masi la società postindustriale ha tutte le carte in regola per realizzare questa nuova condizione umana in cui il lavoro non sarà più al centro della vita degli individui. In questa direzione vanno le sue “Undici tesi sul lavoro nel XXI secolo”. Tesi in cui si sostiene, tra l’altro, che il futuro sarà libero dal lavoro, che le macchine svolgeranno quasi tutto il lavoro fisico e buona parte di quello intellettuale, che agli individui resterà il monopolio delle attività creative, che avremo più libertà, agiatezza e felicità. Questa posizione ci sembra un’evoluzione della teoria sociologica che tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso immaginava l’avvento di una società del tempo libero. Non andò così, com’è noto. Ma mai dire mai. E se gli scenari prospettati da De Masi si trasformeranno in prassi saremo i primi a essere contenti.

Patrizio Paolinelli, Via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 16 settembre 2020,


“Per il governo è arrivato il momento di decidere”

La vittoria del sì al referendum sul taglio dei parlamentari e il sostanziale pareggio tra centrodestra e centrosinistra alle elezioni regionali aprono una nuova fase politica. Ne parliamo con Giorgio Benvenuto.

<<== di Tiziano Paolinelli

Al referendum il sì ha vinto sfiorando il 70%. Come giudica questo risultato?  

Risponde a un’esigenza del Paese. Ossia alla necessità per i cittadini di mettere a punto una struttura rappresentativa più efficiente, di superare il bicameralismo perfetto e di contrastare i riti della lunga fase politica che è succeduta alla Prima Repubblica. Per questi motivi la vittoria del sì era prevista e ha confermato il precedente voto del parlamento, che come è noto fu quasi all’unanimità. I 5 Stelle hanno sostenuto il taglio con molta forza, ma non c’è stata una battaglia tra fronti opposti come è avvenuto per altri referendum. Tutt’al più si può dire che si è assistito a un grande dibattito pubblico. Se dunque il risultato non sorprende ha dato però due importanti indicazioni. La prima, il sì ha prevalso maggiormente nelle periferie e nel Meridione, cioè laddove la crisi economica è da anni più intensa. La seconda, i 5 Stelle hanno vinto il referendum, ma perso le elezioni.

Passiamo proprio alle elezioni. L’ulteriore tonfo dei 5 Stelle e la battuta di arresto della Lega significano che il populismo sta segnando il passo?

Direi di sì. Ma occorre fare dei distinguo. A differenza della Lega i 5 Stelle rischiano di non essere più rappresentativi. Mi sembra lo dimostri il fatto che non hanno raggiunto risultati significativi né in Liguria, dove erano alleati col PD, né nelle regioni dove si sono presentati da soli. E peraltro in alcune di queste regioni, penso per esempio alla Puglia, l’elettorato grillino ha votato in maniera disgiunta. Credo che il Movimento 5 Stelle sia in caduta libera. Non si può dire altrettanto della Lega seppur entusiasma sempre meno e come partito ha ceduto il primo posto al PD. Tuttavia le speranza di Salvini di vincere le regionali per cinque a uno o per quattro a due è andata delusa.

Si può dire che insieme a Renzi l’altro grande sconfitto di queste elezioni sia Salvini?

Penso di sì, ma con grandi differenze. Italia Viva non è stata decisiva. Direi che questi piccoli partiti, a cui aggiungerei Liberi e Uguali, i radicali e Calenda, devono riflettere seriamente sulla loro ragion d’essere perché l’elettore italiano ha imparato la lezione del voto utile e vota per i grandi raggruppamenti. In quanto alla Lega resta ancora un forte partito, seppur non più in ascesa, e mi pare che si stia orientando verso una politica meno urlata. In Toscana, dove Salvini sperava di vincere, il candidato del centrosinistra, Eugenio Giani, è una persona che non si caratterizza certo per la sua virulenza. Si caratterizza invece per la ricchezza dei rapporti con la gente. Ma non alla Salvini, con lo scopo di infiammare le piazze durante i comizi. Bensì per dialogare, discutere dei problemi al fine di capirli e affrontarli. Una cosa è parlare alla gente, un’altra è parlare con la gente. E questo atteggiamento sta premiando.

In questa tornata elettorale molti profetizzavano una caduta del PD e un conseguente cambio del segretario.  Le cose sono andate diversamente. Ora si può dire che Zingaretti sia più forte?   

Starei coi piedi per terra. Zingaretti è scampato a un pericolo. È andato alle elezioni in una situazione di grande difficoltà e l’ha superata. Ma da qui a dire che adesso è forte mi sembra troppo. Intanto non bisogna dimenticare le Marche sono andate al centrodestra e al centrodestra è rimasta una regione tradizionalmente di sinistra come la Liguria. Ma soprattutto Zingaretti ha un’alleanza con in 5 Stelle che tendono a diventare residuali nel panorama politico italiano. Il che è un grosso problema. Lo è per il PD e per gli stessi grillini. Immagino che dovranno ridiscutere il loro modo di essere. Zingaretti diventerà forte se sarà capace di passare da un’alleanza che gli serviva per sopravvivere a un’alleanza che gli serva per vivere. Intendo dire un’alleanza che ha un programma e lo realizza concretamente, fattivamente. Adesso non ci sono più elezioni dietro l’angolo e Zingaretti ha l’occasione di fare del PD un partito che riprende l’iniziativa. Ovviamente non nei termini della vecchia politica contro il pericolo della destra populista, ma in una logica di governo che affronta e risolve i problemi della società italiana. A iniziare da quelli dell’occupazione.

I successi delle liste personali di alcuni presidenti delle Regioni non comportano il rischio di andare verso un’Italia divisa in tanti staterelli governati da leader locali?

Questo rischio si può evitare se il governo nazionale dimostra di essere capace. Il successo di Zaia in Veneto è stato impressionante. Nondimeno quello di De Luca in Campania, di Toti in Liguria e lo stesso Emiliano in Puglia ha dato una grande prova. Gli elettori hanno premiato i presidenti che si rimboccano le maniche, che più che dire cosa fare fanno. Penso che abbiano dimostrato quanto le esasperazioni e gli estremismi siano effimeri: grandi fiammate che si esauriscono nello spazio di un mattino. Il successo delle liste personali dei presidenti uscenti indica chiaramente la necessità di un rapporto costruttivo tra governo nazionale e governi regionali. La pandemia in corso ha messo e rimetterà sempre più in discussione tante cose, in particolare nel mondo del lavoro. Se non si vuole andare verso un’Italia divisa de facto in tanti staterelli il governo centrale deve tenere il banco con mano sicura e guadagnarsi la fiducia delle Regioni.

Dopo queste elezioni Conte può dormire sonni tranquilli?

No, a meno che non cambi modo di governare. Adesso è un mago: governa senza un programma. Ma per forza di cose dovrà darselo. Come Zingaretti anche Conte ha scampato un pericolo: ora deve dire con chiarezza dove vuole portare l’Italia. Vede, questa vittoria toglie ogni alibi agli attendisti della maggioranza. La quale non potrà più continuare a giocare al rinvio di ogni decisione e finalmente dovrà fare delle scelte.

Patrizio Paolinelli, jobsnews.it, 22 settembre 2020.


I rischi del salario minimo e un governo che non ascolta le parti sociali

“Politiche fiscali e sociali: Bruxelles dialoghi con le confederazioni sindacali europee”. Lo sostiene Giorgio Benvenuto nell’intervista che segue.

<<== Prof Patrizio Paolinelli

Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione Ursula Von der Leyen ha lanciato l’idea di un salario minimo europeo. Quando si tratta del lavoro tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Secondo lei in Europa si arriverà davvero a superare il dumping salariale che c’è oggi?

Penso che per questo occorra una strategia più generale. Ho apprezzato le parole della Von der Leyensulla riduzione del cuneo fiscale, che come è noto in Italia è molto alto. Tuttavia sono diffidente nei confronti del salario minimo. Seppur coi tempi dovuti occorre invece una politica più complessiva che armonizzi la parte fiscale e quella parafiscale del salario garantendo ai sindacati la possibilità della contrattazione. Vede, il rischio del salario minimo è che diventi il salario massimo. Tenga infatti presente che in alcuni Paesi europei il sindacato non ha potere contrattuale, ci sono molte meno garanzie per il lavoro femminile, per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e meno tutele ambientali. Occorrerebbe dunque che le istituzioni di Bruxelles discutano con la Confederazione europea dei sindacati per tracciare una convergenza sulle politiche fiscali e quelle sociali. Solo così si supera il dumping salariale. Mentre il salario minimo è una scorciatoia che fa il suo effetto in conferenza stampa ma è di scarsa efficacia per equilibrare i diritti del lavoro in Europa.    

I sindacati sono scesi in piazza con assemblee pubbliche in ventitré città per chiedere al governo di essere ascoltati in merito alle tante questioni aperte sul fronte del lavoro. Basterà questa manifestazione per avviare il confronto?

Lo spero e comunque la manifestazione dei sindacati è un segnale importante. Ma la situazione presenta aspetti paradossali. I sindacati protestano contro un governo che ha appena consegnato alle camere un documento con cui definisce le linee guida sul Recovery Fund. Ora, il documento è generico, non è il risultato di un confronto con le parti sociali e con le Regioni e per di più la questione del Mes ancora aperta. Allo stesso tempo, solo per dirne una, ci sono circa centottanta crisi aziendali, alcune delle quali riguardano grandi società, basti per tutte l’ex Ilva di Taranto, e il ministro per lo sviluppo economico non si confronta con nessuno da mesi. I sindacati lo cercano ma lui è irreperibile. Giustamente Bombardieri ha detto che per trovarlo bisogna ricorrere alla trasmissione “Chi l’ha visto?”. Battute a parte mi auguro che il governo e i partiti si rendano conto della situazione. Tuttavia debbo dire che avverto un deficit di democrazia. Non sono solo i sindacati a non essere ascoltati: non lo è la Confindustria e non lo sono gli altri corpi intermedi. Ancora oggi nessuno ha capito come saranno impegnate le risorse del Recovery Fund. Si tratta di scelte che non possono essere affidate ai tecnici perché sono di tipo politico. Ma il governo non ha un programma e non ascolta nessuno.

Gli Stati generali dell’Economia hanno costituito un momento di ascolto…

Guardi, sono stati già archiviati. Si è trattato di un fatto propagandistico e nulla più. Sono passati tre mesi da quell’evento e tutte le situazioni di crisi sul fronte del lavoro tutto sono rimaste come prima. Non si è presa una decisione. Intanto il blocco dei licenziamenti scadrà il prossimo 15 novembre e non si sa cosa accadrà dopo. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di posti di lavoro che potrebbero scomparire dalla sera alla mattina. L’Italia potrebbe reggere un impatto del genere? Ma aggiungo: in questa maggioranza c’è qualcuno che ha le idee chiare, e soprattutto delle proposte concrete, per colmare un divario fra Nord e Sud del Paese che si è ulteriormente allargato a causa della pandemia? Non mi pare. I nostri governanti vanno in televisione, danno delle indicazioni di massima sulle quali le parti interessate reclamano il confronto e poi non c’è nessuna iniziativa. È comprensibile quindi che i sindacati abbiano protestato. Chiedono una cosa semplicissima: un interlocutore con cui discutere. Purtroppo sembra che il governo non voglia averne.

Patrizio Paolinelli, jobsnes.it 20 settembre 2020.

https://www.jobsnews.it/2020/09/patrizio-paolinelli-tre-domande-a-giorgio-benvenuto-i-rischi-del-salario-minimo-europeo-e-in-italia-un-governo-che-non-ascolta-le-parti-sociali/

La produzione culturale nell’era della Rete

di Patrizio Paolinelli

Due uomini di successo appartenenti a due delle istituzioni più verticali che ci siano hanno scritto un libro intitolato “La cultura orizzontale”, (Laterza, Bari, 2020, 185 pagg., 14,00 euro). I due uomini sono Giovanni Solimine, e Giorgio Zanchini. Le istituzioni sono l’Università di Roma La Sapienza e la Rai dove il primo lavora in qualità di docente e il secondo di giornalista.

La cultura orizzontale teorizzata dai nostri autori non è una condizione di uguaglianza ma un processo in divenire che sostanzialmente significa: a) partecipazione di massa alla vita on-line; b) condivisione dei contenuti della Rete. Il determinismo tecnologico è la lente con cui Solimine e Zanchini osservano tale fenomeno e fanno proprio il precetto di McLuhan: “Il mezzo è il messaggio”.  Perciò l’analisi dei contenuti è del tutto trascurata: sui vecchi e nuovi mezzi di comunicazione non importa quello che si comunica ma il mezzo con cui si comunica.

Lì per lì si rimane un po’ delusi perché con una categoria nuova, cultura orizzontale, si dicono cose risapute. A una lettura più attenta ci si accorge però che “La cultura orizzontale” è un tentativo di mettere a punto una retorica sulla cosiddetta civiltà digitale finalizzata a conciliarla con i problemi, le contraddizioni e i disagi che produce sul piano del rapporto tra media e utenti.

Dichiarano gli autori: “Scopo di questo nostro lavoro è descrivere le forme di produzione culturale nell’era della rete e, analizzando le attività svolte dal pubblico giovanile, cercare di comprendere se atteggiamenti e pratiche collettive possono essere utilizzati per individuare connotati utili per leggere meglio l’identità plurale di un’intera generazione”. E l’identità plurale di cui parlano Solimine e Zanchini corrisponde alla dieta mediatica del pubblico e degli utenti. In termini prevalentemente quantitativi gli autori passano così in rassegna i consumi dei giovani di libri, quotidiani, videogiochi e musica; gli indici di ascolto di radio e Tv; la frequentazione di cinema, social network e festival. Tali consumi sono analizzati nel dettaglio in relazione alle trasformazioni tecnologiche e a fenomeni come la convergenza tra media.

Ovviamente “La cultura orizzontale” non ha finalità commerciali. Non le perde affatto di vista ma vola più in alto: è una mitografia che promuove la convivenza pacifica tra società on-line e società off-line. Se le aziende catturano i consumatori con la fiaba in cui “il cliente è sovrano”, Solimine e Zanchini catturano i lettori con un racconto mitico sulle origini dell’era del silicio: “… la diffusione delle tecnologie digitali ha determinato una vera rivoluzione ponendo l’utente al centro del ‘sistema rete’”.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Ovviamente essere al centro delle attenzioni di Mark Zuckerberg non significa affatto avere lo stesso potere, prestigio e reddito. Asimmetria che non è trascurata dai nostri autori. Come la ricompongono? Col paradigma dell’orizzontalità. E come si articola questo paradigma? Qui la faccenda si fa interessante sebbene Solimine e Zanchini non formulino idee originali. Ecco alcuni episodi della loro mitologia: siamo tutti prosumer (ossia allo stesso tempo produttori e consumatori di informazioni); il pubblico dei media tradizionali ha un ruolo attivo rispetto all’emittente negoziando e trasformando i significati dei messaggi; il Web 2.0 ha accelerato i processi di disintermediazione (basta aprire un blog o un canale su YouTube e chiunque può sfornare contenuti a piacimento senza passare attraverso il vaglio di un’istanza superiore).

Quest’ordine narrativo non regge a una minima analisi critica perché non fa i conti con le disuguaglianze reali e anzi contribuisce a fare dell’esperienza, dell’intelligenza e dei sentimenti degli utenti del Web materiale su cui i big five dell’economia digitale lucrano a man bassa (i big five sono: Amazon, Apple, Facebook, Google,  Microsoft). Per i mitografi della rivoluzione digitale l’uscita da tale impasse consiste nella naturalizzazione del processo storico: ipso facto Internet è narrata in termini di ecosistema. Luogo in cui possono accadere eventi spiacevoli utili però a vivacizzare l’epopea del Web.

Solimine e Zanchini riconoscono che Internet fa perdere a molti utenti l’abitudine alla lettura profonda, banalizza la complessità, induce al nozionismo, fa smarrire la capacità critica e persino la capacità di riflettere. In parole povere rende ignoranti e arroganti. Un bel problema. E come tutti i mitografi della rivoluzione digitale anche i nostri autori lo risolvono esortando a credere nel domani: “Il fatto è che l’uso di qualsiasi strumento [la Rete] ha bisogno di tempo per evolversi e mutare [quindi] Con ragionato ottimismo possiamo sperare in un processo di crescita delle nostre capacità di elaborare e utilizzare le enormi potenzialità di Internet”. Insomma, bisogna avere fede. E chi questa fede nella Rete non ce l’ha? È un “tardo-umanista”. Chi è costui? L’intellettuale che s’interroga sulle magnifiche sorti e progressive di Internet. Dove “tardo”, diciamocelo in tutta franchezza, sta per essere in ritardo sui tempi e per essere un po’ tardo di comprendonio. Un tardo-umanista potrebbe, per esempio, sostenere che la rivoluzione digitale non è affatto una rivoluzione, ma la continuazione sotto altre forme del dominio capitalistico sulla società. Un vero cavernicolo.

Strapazzati gli umanisti (quelli non allineati, perché anche i nostri due autori sono umanisti) restano i problemi generati dai vecchi e nuovi media e dal loro ibridarsi. Chi li può risolvere? Ecco uscire il coniglio dal cilindro: la scuola. Per i due autori è la scuola che deve formare i giovani alla complessità delle cose, del pensiero e della Rete. Peccato che la scuola: a) non abbia mai educato sul serio ai media (ancora oggi un giovane non sa decodificare uno spot pubblicitario); b) sia stata fatta a pezzi dalle politiche neoliberiste applicate in varia misura da ogni tipo di governo; c) di anno in anno la scuola sforna diplomati sempre meno preparati e incapaci di interpretare la realtà che li circonda (l’università non è da meno, ma non entriamo nel merito).

A parte le criticità della scuola appena segnalate e per le quali si possono individuare mille soluzioni, ciò che emerge è che Intenet da sola non è in grado di sciogliere i nodi che essa stessa ha creato. Per farlo deve ricorrere a una verticale istituzione off-line. Fa niente. Non è compito dei mitografi risolvere problemi. Il loro compito è produrre narrazioni sulla Rete e nessuno può restare insensibile dinanzi all’immagine di una cultura senza gerarchie quale sarebbe quella generata da Internet.  

Rilevare le incoerenze dello storytelling digitale non sortisce grandi risultati. Per esempio, a un certo punto Solimine e Zanchini si pongono la seguente domanda: “E’ proprio vero che in rete si realizza il massimo dell’autodeterminazione e che ‘uno vale uno’?”. Finalmente si va al sodo, pensa il lettore ancora affezionato al logos. Macché. Subito dopo partono considerazioni sulle fake news. Le quali col cuore della domanda c’entrano poco. Non importa. Deviare dal percorso non significa fermarsi. Significa produrre un modo acritico, astorico e spoliticizzato di percepire le cose. Modo oggi egemone quando si parla della rivoluzione digitale. Altro esempio: i nostri autori sostengono che gli ascoltatori possono orientare una trasmissione radiofonica inviando SMS, tweet o WathsApp. Accade esattamente il contrario. Dinanzi a eventuali riprovazioni del pubblico i conduttori perfezionano le loro tecniche di manipolazione. Inventare realtà inesistenti è un espediente dei mitografi per riscrivere la realtà esistente. Anche questa è cultura. Una cultura pacificata con sé stessa e col mondo. Mai passi per la mente a un giovane che Internet è un doppione della sempre più verticale società off-line. Non è forse vero che tutti abbiamo libero accesso a Internet e che possiamo partecipare alle discussioni sui social? È in virtù di questa partecipazione collettiva che il fato ha chiamato un giovane giornalista precario a condurre l’ultima edizione del Premio Strega. O no?

Ma come si fa a non restare affascinati dalla mitologia della Rete?

Al pari dell’Olimpo è gestita da un oligopolio, piena di elettrizzanti insidie, occasione per il controllo invisibile degli utenti, mezzo per schiavizzare i lavoratori e persino teatro di guerra cibernetica. Cos’ha da invidiare questo racconto a “Le metamorfosi” di Ovidio? E che nessuno travi i giovani chiedendo loro: “Perché mai un mondo reale che vi esclude dovrebbe generare un mondo virtuale che vi include?”.

Insistere sulla democratizzazione, la partecipazione e l’orizzontalità della Rete non è affatto insensato. Non lo è perché al suo apparire Internet mise in moto le più disparate speranze utopiche: anarcoidi, socialiste, liberali. Tutte deluse. A distanza di tanti anni cosa è rimasto del movimento cyber-punk? Niente. Qualcuno ricorda Indymedia? Doveva rivoluzionare il modo di fare informazione. È morta. E la primavera dell’open source? Mai è giunta l’estate. Negli anni ’90 Bill Gates annunciò che Internet avrebbe fatto nascere un “capitalismo senza attriti”. Ce ne siamo accorti.

Dell’entusiastico spirito delle origini oggi non è rimasto nulla. Tuttavia la speranza, l’utopia il sogno sono potenti forze sociali. Vanno dunque indirizzate senza che però l’utente della Rete si faccia venire in mente idee strane. Ed ecco arrivare in libreria “La cultura orizzontale”. Rivoluzione sì, ma che sia solo digitale. Partecipazione sì, ma ognuno stia al suo posto. E se un incauto lettore si chiede: “La cultura verticale ha i giorni contati?”. Non scherziamo ragazzi, lo ammoniscono Solimine e Zanchini. L’Olimpo è inaccessibile ai mortali. E parole degne di un oracolo concludono il loro libro: “La cultura orizzontale non può fare a meno della cultura verticale”. Detto in termini narrativi gli dei restano dei e gli uomini restano uomini. Stessa sorte per produttori e consumatori, insider e outsider. Orizzontalità sì, ma virtuale. E virtualmente il giovane laureato, iperconnesso e disoccupato, può partecipare a un concorso alla Rai o all’università.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, settembre 2020.


DIFFERENZE DI GENERE: MODELLI CULTURALI E SOCIALI

di Francesca Santostefano

dott/ssa Francesca Santostefano – sociologa

CONCETTO DI GENERE

Il genere (in inglese gender), in sociologia, è la gamma di caratteristiche che appartengono e distinguono tra mascolinità e femminilità; questa gamma di caratteristiche è variabile a seconda dei contesti storico-sociali e possono includere il sesso biologico (cioè lo stato di essere maschio, femmina o una variazione intersessuale), strutture sociali basate sul sesso (cioè ruoli di genere) o identità di genere. Il gender, in altre parole, è la distinzione di genere, in termini di appartenenza all’uno o all’altro sesso, non in quanto basata sulle differenze di natura biologica o fisica ma su componenti di natura sociale, culturale, comportamentale, quindi l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico. (Fonte Wikipedia)

CENNI STORICI

La “questione” se così vuole definirsi del genere nella nostra società è sempre stata un tratto peculiare, fonte di contrasti e di opinioni pubbliche divergenti nonché causa spesso di esclusione e discriminazione. Il concetto di genere è mutato nel decorso del tempo, a cominciare dalle società primitive ove i ruoli assegnati agli uomini ed alle donne erano differenti sia per motivi fisici e soprattutto sociali; agli uomini, essendo dotati di forza fisica e virilità, venivano conferiti lavori pesanti e manuali come la coltivazione dei campi, caccia, pesca ed altre mansioni in tal senso. Alle donne era affidato, benché apparentemente semplice, il compito più arduo: l’educazione e la crescita della prole, la cura della casa e del marito, una vita reclusa nelle sole mura domestiche. Con l’avvento dell’industrializzazione e del progresso scientifico/tecnologico in ogni campo della vita comune, la “questione” del genere assume differenti sfumature: se prima la donna aveva come scopo unico ed universale la sola cura ed educazione della prole, ora la vediamo prestare la propria capacità lavorativa nelle industrie, fabbriche, mansioni di tessitura, cucina, sebbene ancora la strada per ottenere i diritti fosse ancora lunga e difficoltosa (vedi Movimento Suffragette-1800). La nostra società attuale è connotata da una parvenza di Misoginia (indica un sentimento e un conseguente atteggiamento di avversione o repulsione nei confronti delle donne, perpetrato indifferentemente da parte di uomini o altre donne), pertanto la parità di genere non è stata del tutto raggiunta.

IL MODELLO DELLA SOCIALIZZAZIONE DI GENERE

Da un punto di vista biologico, le differenze di genere sono ricondotte all’ambito strettamente fisico; il genere è anche collegato alle nozioni socialmente costruite di maschilità e femminilità che non devono essere  necessariamente un prodotto diretto del sesso biologico; la distinzione tra sesso e genere è fondamentale poiché molte differenze tra uomini e donne non assurgano ad un’origine prettamente biologica. Il concetto e lo studio sulla socializzazione di genere rilevano tali differenze e riguarda l’apprendimento dei ruoli di genere attraverso agenti sociali come in primis la famiglia, la scuola ed infine i media. A tal riguardo si è evinto che le differenze di genere non sono biologicamente determinate  ma sono un prodotto culturale. Sono molti i canali attraverso cui la società influisce sull’identità di genere, studi sulle interazioni tra genitori e figli hanno dimostrato peculiari differenze nel trattamento dei maschi e delle femmine; ad esempio i giocattoli, i libri illustrati e i programmi televisivi con cui i bambini vengono a contatto tendo ad enfatizzare tali differenze. Secondo un’interpretazione funzionalista, gli agenti della socializzazione contribuiscono al mantenimento dell’ordine sociale sovraintendendo ad un’efficace socializzazione di genere delle nuove generazioni.

Altri autori sostengono invece che la socializzazione di genere non è un processo armonioso poiché i diversi agenti coinvolti possono essere in contrasto fra di loro e non produrre un’esperienza socializzante omogenea. Inoltre le teorie della socializzazione ignorano la capacità degli individui di respingere o modificare le aspettative sociali connesse ai ruoli sessuali. Secondo altri sociologi anziché concepire il sesso come qualcosa di biologicamente determinato ed il genere come prodotto di un apprendimento culturale più o meno rigido e meccanico bisogna considerare sia il genere che il sesso come dei costrutti sociali. Raewyn Connell (1995;2002) parla delle cosiddette “dinamiche di genere”, ossia le forme della maschilità sono una parte determinate dell’ordine di genere e non possono essere comprese differenziati da quelle della femminilità. Sottolineando che la disuguaglianza di genere non è solo un “ammasso informe di dati” ma rivela un campo organizzato di pratiche umane e relazioni sociali attraverso cui le donne vengono tenute in posizione subordinata rispetto agli uomini. Egli pertanto individua tre dimensioni che costituiscono tale ordine di genere: il lavoro, il potere e la catessi ( i rapporti personali e sessuali). Tali dimensioni sono interdipendenti fra di loro, il lavoro riguarda la divisione dei compiti in casa, il potere opera attraverso relazioni sociali come l’autorità la violenza e l’ideologia nelle istituzioni. La catessi infine concerne la dinamica dei rapporti intimi emozionali ed affettivi come il matrimonio, la sessualità e la cura della prole. Oggigiorno si assiste sempre più spesso ad episodi di intolleranza verso coloro i quali mostrano una propensione differente nel comportamento di genere che la società impone come l’omofobia che indica l’avversione o spesso odio nei confronti degli omosessuali e dei loro stili di vita, dei loro comportamenti, una forma di pregiudizio che si rilette nei comportamenti e nel linguaggio.

Tale realtà non è purtroppo presa sul serio e la comunità LGBT (La comunità LGBT o comunità GLBT, a volte indicata anche come comunità gay, è un gruppo vagamente definito di organizzazioni lesbiche, gay, bisessuali, transgender, LGBT e sottoculture, unite da un comune movimento culturale e sociale basate sul genere e sull’identità sessuale. Queste comunità generalmente celebrano l’orgoglio, la diversità, l’individualità e la sessualità. Attivisti e sociologi LGBT vedono la costruzione della comunità LGBT come un contrappeso all’eterosessismo, all’omofobia, alla bifobia, alla transfobia, al sessismo e alle pressioni conformiste che esistono nella società più grande. Il termine orgoglio (o pride) o talvolta orgoglio gay (gay pride) viene utilizzato per esprimere l’identità e la forza collettiva della comunità LGBT; le sfilate dell’orgoglio forniscono sia un primo esempio dell’uso sia una dimostrazione del significato generale del termine. La comunità LGBT è diversa nell’appartenenza politica. Non tutte le persone lesbiche, gay, bisessuali o transgender si considerano parte della comunità LGBT) lotta per ottenere i propri diritti in una società che stenta ad accettare e riconoscere la loro identità, in primis di persone come essere a sé.

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI

FONTI BIBLIOGAFICHE

Giddens A., Sutton P.W., Fondamenti di sociologia (2014)., il Mulino, Bologna.

Wikipedia


LE BABY GANG DEI QUARTIERI ITALIANI: STRUTTURAZIONE, DINAMICHE E RUOLO DEL BRANCO

Apparente forza e virilità, vita spericolata vissuta ai limiti della devianza, spesso coinvolta nei cosiddetti “brutti giri”, soldi facili, violenza, subdola crudeltà ed ira: sono queste le caratteristiche preponderanti che oggigiorno accomunano i cosiddetti “branchi” costituiti da uomini, ragazzi, spesso correlati alla mala vita, i quali intraprendono un percorso che li conduce verso una situazione degradante e poco convenzionata alle norme sociali.

<<==dott./ssa Francesca Santostefano

Tali branchi, connotati da un’effimera e crudele violenza, sono composti prettamente da ragazzi tra i 18 ed i 26 anni, di sesso maschile e spesso provengono da situazioni familiari difficoltose, com’è noto appunto le origini bio/psico-sociali che vengono vissute durante l’infanzia riflettono inevitabilmente la formazione caratteriale che diverrà in futuro. Da molti studi sul fenomeno sociale sempre più diffuso nei sobborghi italiani, quartieri ove la mala vita è tratto di quotidianità, si evince che il tasso di abbandono scolare di tali soggetti equivale al 50% per cui la maggior parte si ritrova a non aver conseguito la scuola dell’obbligo. I branchi normalmente sono strutturati da dieci componenti, ove ognuno ha dei ruoli prestabiliti, c’è chi sta al vertice ed ha il comando, chi ha altre mansioni  di differente gradazione ed infine i novellini i quali, per potervi aderire al branco devono sottoporsi a numerose prove, alla fine del percorso si saprà se saranno scelti o meno.

Spesso tali branchi sono affiliati con altri provenienti da tutta Italia, ma anche relazioni con soggetti di origine straniera (spesso di origine nord Africana, Room e talvolta Romeni), i prediletti ovviamente devono avere forza ed incutere violenza e soprattutto un passato burrascoso alle spalle. La cultura del branco (una cultura a tratti egemone, ma cosa si intende con egemonia della cultura dominante?  “Il concetto di EGEMONIA: le classi dominanti mantengono il proprio ruolo incoraggiando interpretazioni morali e culturali che siano ad esse favorevoli. Quando le elite ottengono legittimità e potere grazie a credenze ampiamente condivise e date per scontate su ciò che è giusto o sbagliato, valido o non valido, manifestano la propria EGEMONIA”) essa altresì gli impone di utilizzare un’etichetta quasi eclettica, si fanno denominare “Baby Gang”, fenomeno che pochi decenni fa era prettamente diffuso nelle periferie povere dei quartieri americani, ora diffusasi con notevole precisione anche qui.

La legge del branco impone che se si è di più si è più forti, istigando così paura e violenza, come dei barbari senza un minimo di cultura, uomini padroni. Cosa istiga determinati soggetti ad agire così? Secondo i dati redatti dall’osservatorio nazionale dell’adolescenza un adolescente su “10” dichiara di aver aggredito un coetaneo senza motivo su un campione nazionale di “11.500” adolescenti. Tuttavia si evince che alla società è imputabile un tale errore di educazione nel rispettare il prossimo pertanto da un lato prevale una sorta di competizione tra i branchi come è sempre stata la lotta tra i quartieri, la nota dolente è che la questione non ha ancora avuto la giusta pressione mediatica in quanto il problema è alquanto sottovalutato , non vengono imposte le giuste sanzioni, troppo impuniti e consapevoli dei loro diritti e della loro impunibilità, il principio irrazionale del voler fare quello che si vuole a tutti i costi. La dura e consapevole verità è che siamo giunti ad un punto di non ritorno e non lo vogliamo accettare, i ragazzi vittime di un sistema che li ha lasciati orfani da un punto di vista educativo che non è in grado di arginarli e rieducarli. Tuttavia imputare gran parte della colpa al sistema non è la soluzione migliore, è assodato che il contesto sociale sia mutato in ogni sua forma ed angolazione.

Assistiamo quotidianamente ad episodi di violenza e mala educazione: professori aggrediti dagli alunni perché hanno conferito al ragazzo un voto basso od una nota, bullismo e cyber bullismo, informazioni distorte attraverso i canali mediatici, presunzione e pregiudizi, emarginazione ed esclusione sociale, per di più famiglie accondiscendenti che non mostrano alcun tipo di rimprovero verso i figli nonostante abbiano commesso un errore anzi, paradossalmente, sono orgogliosi di ciò che hanno fatto, un sistema familiare inerme di fronte a tale sconquasso. Qualche decennio fa episodi del genere erano del tutto sconosciuti in quanto si aveva ovviamente paura di una coattiva sanzione da parte delle istituzioni, era il contesto sociale ad educare il ragazzo che poi sarebbe divenuto l’uomo funzionale nella società attraverso vari strumenti come il servizio di leva obbligatorio, coazioni a livello disciplinare (si ricordano le bacchette alle mani se solo l’alunno si permetteva di proferire parola contro il professore considerata un’autorità, o le ginocchia sui ceci) tutti atti allo scopo di educare l’uomo che sarebbe divenuto in futuro, uomo con la U maiuscola. Davvero vogliamo, e dico vogliamo in plurale maiestatis, che questi nostri ragazzi siano gli uomini che padroneggeranno il sistema sociale in futuro?

.. La coscienza, dice Marx, affonda le sue radici nella prassi umana, che è a sua volta di carattere sociale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la coscienza.

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.


L’iniziativa politica di Zingaretti, gli interrogativi sulla banda ultralarga, la necessaria cautela sui dati sull’occupazione

I tre temi trattati da Giorgio Benvenuto nell’intervista concessa a Patrizio Paolinelli

Il segretario del PD, Nicola Zingaretti, abbandona la sua proverbiale prudenza e parte all’attacco dei tanti fronti interni: i contrasti tra i partiti della maggioranza di governo, le divisioni sul referendum per il taglio dei parlamentari, l’utilizzo o meno del Mes, la messa in discussione della sua leadership. Arriva persino a dire che non teme le elezioni. È imminente una resa dei conti con l’ala destra del partito e i 5 Stelle?

Mi auguro che questi argomenti non si affrontino con uno scambio di interviste tra i diversi interlocutori politici, ma che si metta in moto un meccanismo che coinvolga gli iscritti dei partiti – innanzitutto quelli del Partito Democratico – e che più che una resa dei conti la maggioranza definisca un programma. Tenendo conto delle recenti aperture dell’Europa penso sia necessario passare a una fase organica dove ci sia un progetto. Anche perché le risorse che sono a disposizione subito e quelle che verranno richiedono di uscire dalla stravagante logica politica attuale. Logica secondo la quale ogni componente del governo la mattina si sveglia e avanza un’ipotesi. Di recente la ministra ai trasporti ha proposto le piste ciclabili sul ponte dello Stretto di Messina, se e quando si farà. Occorre passare dal vivere alla giornata al programma. Non credo che un governo possa essere efficace quando la maggioranza che lo sostiene è in disaccordo su tutto: sulle nomine, sulle cose da fare, sulle priorità.

Certo, non mi sfugge il senso della sua domanda. E cioè che qualcuno abbia intenzione di far fuori prima Zingaretti e poi Conte per aprire la strada a un governo Draghi. Ma francamente si tratta di una discussione che preferisco lasciar fare ad altri. Io credo che la vera discussione sia sulle cose da fare e non sulle persone. Posto pure che Zingaretti e Conte vengano sostituiti la domanda è: per fare che cosa? Che sia questa maggioranza di governo o che sia un’altra abbiamo bisogno di un programma. E il programma non c’è. Né da parte del governo in carica né da parte di coloro che lo vogliono sostituire, siano esse fronde interne o l’opposizione. E questo è il vero problema, non chi va al posto di chi.

Dopo anni di discussioni finalmente avremo una società unica per la banda ultralarga. Società in cui la Cassa depositi e prestiti avrà un ruolo guida. Sembra una buona notizia. È d’accordo?

La banda ultralarga è un fatto positivo perché in rende più omogeneo il Paese e ne favorisce l’unificazione così come accadde con la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962. Si è trattato allora e si tratta oggi di strumenti di sviluppo economico e di rafforzamento dell’eguaglianza sia dal punto di vista territoriale che sociale. Dunque la notizia è buona. Ma una notizia non esaurisce la complessità delle cose. Intanto, decidere su un tema come questo senza una chiara strategia mi preoccupa. Mi spiego. Fra due anni avremo la banda ultralarga. Bene, ma per farci cosa? In vista di quali obiettivi? Non c’è un’ipotesi di cambiamento del Paese a cui la banda ultralarga potrebbe contribuire in maniera significativa. Si tratta di una delle tante iniziative a compartimento stagno, scollegata cioè da una visione sistemica. Mi chiedo: quanti pubblici dipendenti saranno in grado di sfruttare questa potenzialità? Quelli che non lo sono come si è previsto di istruirli? Le competenze digitali dei nostri insegnanti sono adeguate? Le piccole, medie e microscopiche imprese del nostro Paese saranno in grado di utilizzare la banda ultralarga appieno? Sicuramente non sono l’unico a farmi queste domande e ad affrontare questi argomenti. Ma né la politica né il governo fanno sintesi, perciò non si vede una programmazione in virtù della quale a un’infrastruttura tecnologicamente avanzata corrisponde un mondo del lavoro e dei servizi pubblici in grado di recepirla.

A me sembra che sia la prima volta nella storia d’Italia che siamo dinanzi un governo senza un programma. Ormai si procede con i Decreti legge, sui quali peraltro si pone la fiducia, non c’è un’iniziativa parlamentare, il rapporto con le Regioni è a dir poco confuso e così via. È fondamentale che ci sia una svolta. L’ha fatta l’Europa, la faccia anche l’Italia. Pertanto anche la banda ultralarga va rapportata con le altre decisioni che devono essere prese. Ossia, realizzare una nuova infrastruttura per fare questo e quello. Ma al momento mi sembra che siamo che siamo fermi a compiacerci del fatto che seppur tardivamente avremo un’unica società che gestirà la fibra ottica. E allora ancora una volta mi chiedo: che correlazione è stata prevista tra la banda ultralarga e le ingenti risorse europee che stanno per essere messe a disposizione del nostro Paese? Si parla tanto di giovani. Bene, ma concretamente quali progetti sono in campo affinché i giovani sfruttino tutte le potenzialità della nuova infrastruttura?

Secondo l’Istat a luglio l’occupazione è cresciuta di 85mila unità (+0,4%). Sebbene la pandemia abbia mietuto 500mila posti di lavoro c’è da essere ottimisti?

Guardi, dinanzi a dati statistici come questi mi viene sempre in mente Benjamin Disraeli quando diceva che i politici usano le statistiche come un ubriaco usa i lampioni: non per l’illuminazione ma per sostenersi. Le statistiche vanno sempre prese con le pinze, soprattutto quando le elezioni sono alle porte. Il blocco dei licenziamenti e il ricorso massiccio alla cassa integrazione guadagni rendono molto difficile interpretare i dati sull’occupazione. Indubbiamente l’andamento di luglio è positivo e sarebbe da sciocchi non rallegrarsi. Purtroppo però non credo sia indicativo di una tendenza. Si tratta di un segnale che domani può essere smentito. Poi, vede, questi valori statistici vengono gestiti come se si avesse a che fare con fenomeni naturali. Bisognerebbe invece che, sulla base degli investimenti effettuati, la statistica confermasse e o meno gli obbiettivi che ci si è posti. Questa abitudine purtroppo è andata perduta e tante volte assistiamo a previsioni sul Pil o sugli incrementi di produzione che se si rivelano leggermente inferiori all’andamento reale allora si grida al successo e all’ottimismo.

Credo cha la statistica vada maneggiata in base alla realizzazione dei progetti che si sono avviati e non possa limitarsi a commentare dati episodici. E poi, le confesso, sono stanco di tutte queste dichiarazioni di ottimismo che vanno avanti da un anno e mezzo a questa parte. Conte ci disse che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo, Di Maio che avevano sconfitto la povertà e così via. C’è una sopravvalutazione dei risultati e una sottovalutazione, se non un occultamento, dei dati che indicano un Paese fermo. In questi ultimi tempi si parla del rimbalzo dell’economia. Come se dinanzi a un Pil calato del dieci per cento e oltre ci si potesse consolare con previsioni di recupero di qualche punto nel 2021. Per carità, sarà meglio di niente. Ma quello che auspico è che dati come quelli di luglio sull’occupazione e le previsioni del rimbalzo economico vengano discussi con i corpi intermedi e non solo comunicati. Credo che in tal caso la loro interpretazione sarebbe più realistica.  

Patrizio Paolinelli

jobsnews.it 5 settembre 2020.

https://www.jobsnews.it/2020/09/patrizio-paolinelli-tre-domande-a-giorgio-benvenuto-liniziativa-politica-di-zingaretti-gli-interrogativi-sulla-banda-ultralarga-la-necessaria-cautela-sui-dati-sulloccupa/


Aggressività ed informalità nella sessualità di gruppo

di Raffaele Cellini

Quando l’oggetto di studio o di riflessione è la sessualità umana, molte delle discipline nelle scienze sociali non possono più prescindere oramai dal dilagante e massiccio contributo che la psicoanalisi, specialmente quella di stampo freudiano, ha fornito nell’esplicitare un’argomentazione tanto sensibile ed al contempo importante.

<<== dott.Faffaele Cellini – sociologo

D’altro lato, sebbene altri validi tentativi siano stati attuati tanto da psicologi quanto da sociologi, enfatizzando gli uni la prospettiva maggiormente individuale e di complessi interni, gli altri le influenze dell’ambiente o di dati contesti culturali, l’osservazione dell’oggetto sessualità umana focalizza ancora un’attenzione pressoché totale sulla relazione di coppia, ivi compresi gli aspetti “istintivo-carnali”.

E’ in realtà noto, specie storicamente, come la sessualità umana abbia fin da tempi remoti mostrato lati diversi e variegati, non limitati ad una partecipazione “nucleare” dell’atto e non limitati alle prassi oggi più diffuse e conosciute. Chiaramente, all’interno di una prospettiva che è anch’essa sociologica o propria delle scienze sociali, è implicito il riconoscimento alternato dell’una o di altre forme della sessualità da parte dei sistemi sociali, in piena dipendenza del “framework” e dello specifico tessuto culturale di una data epoca. Attualmente, dove la “liquida” condizione del post-moderno accelera un mutamento in pieno atto, dove i vincoli tradizionali vedono un declino progressivo, proprio della condizione dei residui culturali, la letteratura e la riflessione su questo specifico fenomeno che è la sessualità di gruppo sembrerebbe paradossalmente scarseggiare o comunque non avere la stessa attenzione che invece la sessualità di coppia d’altro lato detiene. Forse si è ancora in presenza di un parziale “tabù”; o forse, il fenomeno è ben complesso ed ancora sotto accesa discussione accademica. O forse, è quello stesso framework di un sistema sì in mutamento, ma che tramite operato sotto-sistemico, non riesce ancora completamente a decodificare.

L’obiettivo di tale scritto è dunque quello di una breve riflessione che, nonostante la sua ristretta natura, non provi soltanto ad ampliare le prospettive psicoanalitiche con quelle sociologiche ed antropologiche, ma a fornire alcuni input su un fenomeno che, ancor più di un rapporto nucleare, è relazione sociale amplificata.

Il primo passo di questo breve excursus prende le mosse dalla prospettiva psicoanalitica, non già freudiana, ma quella delle interessanti rivisitazioni operate da Kenberg (1995). Sebbene anch’egli descriva la relazione d’amore nei termini della coppia, il modello psicoanalitico della relazione fornisce un contributo fondamentale a quello che è il desiderio erotico di base: in termini teorici, un sottile equilibrio della libido, tra impulsi istintivi-distruttivi e controlli inibitori. Kenberg traduce esplicitamente l’eros nel desiderio di penetrare attivamente o essere penetrati passivamente ed il conflitto di cui sopra come scissione tra la morale convenzionale dell’amore affettivo e l’erotismo fisico ed aggressivo. Il desiderio erotico è dunque frutto del senso di sfida a tale proibizione, della trasgressione implicita di tale morale; e nella trasgressione, nella fisicità semi-istintiva dell’atto, è resa palese quell’aggressività che la morale convenzionale tende ad offuscare in virtù del sentimento e dell’affettività. Elementi quest’ultimi che agiscono quali contenitori di quell’aggressività, che la limitano per contestualizzarla ad una relazione amorosa; stando alle teorizzazioni di Kenberg difatti, tale aggressività nell’individuo rimarrebbe su un livello prevalentemente inconscio che la rifletterebbe sullo stesso partner, la cui violazione dei suoi confini, la sua deflorazione e le sue sofferenze diventerebbero fonte di piacere e gratificazione. Finchè tale aggressività rimane circoscritta o legata ad un framework che è quello amoroso, i clinici vedono il fenomeno come “sano” ed accettabile. Nei casi in cui tale meccanismo è portato all’estremo (es. masochismo, ecc.) tale sottosistema comincerebbe ad osservare alcuni di questi fenomeni in termini “patologici”. Giacché, l’ambivalente intensità degli aspetti affettivi e sado-masochistici è definita come il cemento della relazione sessuale: una combinazione generalmente equilibrata tra lato tenero e lato “perverso” nella quale l’eccitamento e l’appagamento sono vissuti nei termini di fusione con l’altro.

Tali concettualizzazioni forniscono una valida idea su quella che è la relazione sessuale nei suoi aspetti basilari: pertanto, molti degli elementi citati possono rimanere validi. Tuttavia, nel caso delle pratiche di gruppo, è il framework a cambiare. Se nella relazione duplice, l’affettività ed il sentimento si pongono esse stesse come “cornici” nelle quali si consuma il contatto sessuale, nella relazione multipla tale framework generalmente non sussiste. La cornice è pressoché diversa, dal momento che come si vedrà in seguito, la sessualità di gruppo è concettualmente e storicamente collegata al rito. In quanto rapporto occasionale, l’attività sessuale di gruppo spesso non prevede una conoscenza personale dei partner, per quanto d’altro canto sia possibile parlare di partner; difatti quest’ultima, a differenza della relazione sessuale di coppia, non prevede una necessaria cooperazione e può alternare momenti di pura individualità a quelli di coinvolgimento del gruppo intero, dipendentemente dalle pratiche.

Ciò che teoricamente ne consegue è che, mutando il framework l’informalità contrapposta alla maggiore formalità della relazione di coppia, il senso di trasgressione amplificato da un’esperienza “alternativa” e l’ebbrezza del capovolgimento dell’ordine, lascerebbero più spazio ad una maggiore e meno sottesa aggressività. Storicamente, nell’antichità, in culture quali quella greca e romana i “baccanali” erano momenti religiosi nei quali la pratica orgiastica era parte dei rituali. Antropologicamente, il “rituale” è osservato quale azione meccanicizzata volta al controllo del futuro e delle azioni: in questo senso, le analogie storico-concettuali col tema del rituale sacrificale risultano di grande aiuto. Il sacrificio consentiva in origine di organizzare la violenza e creare unanimità, in quanto faceva agire i membri del gruppo contro quell’unico soggetto ritenuto responsabile di un danno o di una crisi; un’aggregazione nel quale le forze collettive sono unite contro le forze spicciole dell’individuo (Girard, 2003). E’ possibile trovare in ciò un residuo di quelle che sono oggi le moderne prassi della sessualità orgiastica liberate dal fattore religioso: specie nelle situazioni in cui l’unico elemento passivo, ovviamente consenziente, carica sul proprio corpo le pulsioni e le scariche aggressive dell’intero gruppo.

La violenza, in tali frangenti aggressività sessuale potenziata, è scaricata sulla sofferenza/godimento della “vittima sacrificale” per il piacere e la gratificazione condivisa dagli individui del gruppo. Il meccanismo dell’azione gruppale è ancor più potente nelle prassi estreme, dove l’elemento passivo è schernito ed il ruolo di vittima o “capro espiatorio” è palesemente valorizzato come deterrente dell’attività di gruppo. A queste parentesi, dove il gruppo agisce unanimemente sulla vittima passiva, si affiancano altri scenari nei quali l’azione individuale è elemento predominante: in un incastro massiccio di corpi e nudità, l’individuo può liberamente soddisfare il suo appetito sessuale passando da un elemento all’altro, da un corpo all’altro. L’informalità, la trasgressione amplificata della cornice, l’assenza di sentimenti, fanno sì che anche in tali azioni l’aggressività non sia un elemento limitato come nella relazione di coppia, ma elemento rafforzato che aumenta l’eccitamento. L’affettività ritaglierebbe generalmente uno spazio molto marginale, in misura sufficiente affinché un’aggressività spinta non sfoci in violenza pura.

In questi contesti, siano essi ad orientamento omo o etero sessuale, sodomizzazioni ed altre pratiche più rudi troverebbero una maggiore libertà di applicazione rispetto al contesto di coppia, giacché l’individuo non sarebbe interessato al benessere dell’alter, essendo al contrario eccitato dagli effetti fisici (godimento, sofferenza o orgasmo) che le sue azioni meno delicate provocano sui corpi. Fondamentalmente, un tale contesto si presenta per certi versi come anomico e non a caso spesso affiancato all’immaginario comune del disordine e del caos. Forse, riallacciando la questione alle teorizzazioni di Kenberg, è quel caos che alcuni individui potrebbero percepire come bisogno, per fuggire da un rapporto d’amore esageratamente chiuso e dai confini troppo rigidi, il cui unico modo per sopravvivergli sia quello di romperlo rintanandosi nel gruppo e nel disordine per assaporare di nuovo la libertà, etica e sessuale. O al contrario, cogliendo la prospettiva di Adorno (1951), è l’esacerbare una “volontà di possesso” implicita nel rapporto amoroso: l’attaccamento diviene tale da non consentire più di guardare ad una semplice persona amata, ma da trasformare tutti gli individui in semplici oggetti dell’amore. Un diritto di proprietà che si estenderebbe non soltanto su un corpo, ma su molti corpi.

Sulle motivazioni il dibattito è attualmente aperto: su tale fenomeno, le considerazioni (discutibili) di alcuni studiosi appaiono esporre toni addirittura riprovevoli, non mancando di etichettare “patologici” simili comportamenti. Ma l’aggressività è un fatto connaturato nella relazione amorosa animale e dunque anche umana: la sessualità di coppia ed ancor più quella di gruppo enfatizzano un’aggressività che tuttavia fatica ad essere notata obiettivamente, poiché ancora intrappolata nei meandri di una morale come prodotto culturale nonché di una visione falsata ed armoniosa dell’amore. In conclusione, una visione che la prospettiva sociologica di Adorno descrive anzi come “paralizzata”, perché l’amare in più compromette un rapporto di scambio limitato, all’interno di un contesto dove la gravità sociale tende ancora latentemente a predeterminare la formazione degli impulsi e a creare modelli convenzionali di sessualità.

Bibliografia:

ADORNO, T. W., (1951) Minima Moralia

DURAND, G., (1963) Les structures anthropologiques de l’imaginaire

GENTA, A., La questione sessuale nel corso della storia (a cura di)

GIRARD, R., (1972) La violenza ed il sacro

KENBERG, O,. (1995) Relazioni d’amore

PEREL, E., (2007) L’intelligenza erotica

ROSA, M., Il desiderio nella coppia e le sue derive (a cura di)

VITALE, I., Sesso ed aggressività nella prospettiva psicoanalitica (a cura di)


OLTRE LA DESTRA E LA SINISTRA

di Elisabetta Festa

CENNI STORICI

<<= Dott. Elisabetta Festa – sociologa

Nel linguaggio politico, essere di destra, significa sposare o un orientamento liberal-conservatore e democristiano, il cosiddetto (centrodestra), o considerarsi nazional-conservatore, nazionalista e sovranista (destra) o ancora considerarsi un neofascista, nazional-socialista, populista di destra e reazionario (estrema destra).

Essere di sinistra invece indica un orientamento progressista, socialiberale e riformista (centrosinistra), o considerarsi socialista e socialdemocratico (sinistra), o ancora considerarsi comunista ed anarchico (estrema sinistra).

In generale le denominazioni “destra” e  “sinistra” nascono in Francia poco prima della Rivoluzione Francese.  Nel maggio 1789 furono convocati gli Stati generali dal Re di Francia, un’assemblea che doveva rappresentare le tre classi sociali, più che veri e propri ordini, allora riconosciute: il clero, la nobiltà e il terzo Stato, ovvero il popolo in generale. Quest’ultimo si ordinò all’interno dell’emiciclo con gli esponenti conservatori che presero i posti alla destra del Presidente, i radicali quelli alla sinistra. Questa divisione si ripresentò anche in seguito, quando si formò l’Assemblea nazionale. A destra prevaleva una corrente volta a mantenere i poteri monarchici, a sinistra stava la componente più rivoluzionaria. Con la Restaurazione monarchica la distinzione si conferma come una caratteristica costante del sistema parlamentare, destinata a durare. Dalla Francia si estese rapidamente a tutta l’Europa. (Fonte Wikipedia)

mappa dei partiti

Per capire le differenze sostanziali di queste due diverse ideologie che interessano, non solo il nostro paese ma tutto il mondo, anche se con velate differenza, qui di seguito, saranno elencate in maniera sintetica e semplicistica i principi cardine della destra e della sinistra, nel nostro scenario politico.

CARATTERI DISTINTIVI DELLA DESTRA ITALIANA

Ancora oggi la destra in Italia mantiene salde le sue radici storiche, sono preponderanti i valori conservatori, il desiderio di avere una forte entità nazionalista (il nazionalismo fu una ideologia tipicamente europea, sorta alla fine del secolo XIX, alla base di devastanti guerre del ‘900), che accentri i poteri di polizia, che consideri importanti la sicurezza e la difesa. I governi di destra invocano, infatti, pene severe, il diritto all’auto difesa e il controllo del territorio. Uno dei cavalli di battaglia ricorrente dell’ideologia della destra è la lotta contro l’immigrazione, non solo quella clandestina, ma in generale tutto il fenomeno, tema attualissimo oggi come non mai, la linea che traccia la destra è di limitare il più possibile gli accessi sempre e comunque. Altro principio ricorrente è la sacralità della famiglia tradizionale e della religione cattolica, la destra è contraria ad ogni commistione religiosa che possa ledere le radici cristiane.  E’ sostenitrice dell’uomo forte al comando, avendo in sé forze nostalgiche del fascismo e predilige in economia il modello neo liberista con tasse basse per tutti, per agevolare gli imprenditori nella creazione di nuovi posti di lavoro. La destra predilige il privato al pubblico ad esempio nell’istruzione, nella sanità, in tema di diritti civili ed etici poi, questa è contro l’aborto, l’eutanasia, contro la liberalizzazione delle droghe, contro le unioni civili tra esponenti dello stesso sesso.

CARATTERI DISTINTIVI DELLA SINISTRA ITALIANA

Essere di sinistra per molto tempo in Italia ha significato far parte del PCI oppure essere un sostenitore del PSI. La sinistra italiana è sempre stata frazionata e divisa, ma si è sempre definita antifascista. Chi è di sinistra è a favore dell’equità anziché della mera uguaglianza. La sinistra a differenza della destra ha nel corso del tempo, modificato e rivisto alcuni suoi principi.  Ad esempio, storicamente essa ha rappresentato gli operai e ha trovato una naturale sponda nei sindacati. Oggi a causa delle trasformazioni del mondo del lavoro, la base operaria non si identifica più in essa, essa, viene invece votata dal cosiddetto ceto medio. In generale per la sinistra il mercato deve essere più regolato evitando che si formino sacche nelle quali vinca l’ingiustizia sociale quindi è contro il liberismo selvaggio.  Restano ancora suoi cavalli di battaglia, le politiche che prevedono tasse alte per i ceti più elevati, sussidi a favore dei meno abbienti ed aiuti di Stato. Gli elettori di sinistra non amano l’uomo forte al potere, ma prediligono governi assembleari. La sinistra non si oppone tout court all’immigrazione, predilige la scuola e la sanità pubblica, in tema di diritti civili ed etici è favorevole all’eutanasia, all’aborto, alle liberalizzazioni delle droghe leggere, tutela i diritti del popolo degli LGBT, promuove tutte le confessioni religiose e promuove le politiche del welfare.

RIFLESSIONI

Causa i repentini cambiamenti della società, ed   i mutamenti economici e lavorativi verificatisi, anche con l’avvento della globalizzazione, le distinzioni, le differenze tra destra e sinistra non sono state sempre così nette come in passato. Abbiamo assistito, negli ultimi vent’anni, ad una vera e propria crisi identitaria dei nostri partiti, tale che, ad esempio alcune battaglie sociali tipiche di alcuni di essi, sono diventati di pertinenza, di appartenenza, di quelli che in un determinato periodo li avevano invece profondamente combattuti e condannati, o sono diventati dei baluardi di nuove forze politiche scese in campo. Si è parlato per lungo tempo anche della fine delle ideologie in politica in chiave negativa. Ma sarebbe davvero così tremendo concepire la politica in maniera diversa? Sarebbe davvero difficile liberarci di vecchie contrapposizioni e di vecchie visioni manichee?  Il sociologo americano Anthony Giddens, già nel lontano 1994, parlava in un suo saggio della necessità di andare oltre il concetto di destra e di sinistra, per dar vita ad una politica da lui definita “generativa”, che avrebbe consentito al singolo di determinare il proprio destino nel rispetto degli interessi generali. Il periodo storico in cui sono nate queste ideologie è ben lontano dai nostri tempi, avevano senso in quell’epoca, un’epoca intrisa di forti mutamenti di carattere storico, politico, economico e sociale. A quel tempo, governare con la logica delle contrapposizioni ideologiche e quindi politiche aveva un senso di ovvietà e di evidenza quasi scientifica, le differenze, erano marcatissime, e grazie alla spinta   propulsiva, innovatrice e risolutrice di cui si caratterizzavano, i sistemi sociali si sono evoluti, hanno progredito, si sono modernizzati. Infatti, molte battaglie sociali di ispirazione di destra e di sinistra sono state vinte, si pensi allo statuto dei lavoratori, alla legge contro l’aborto, alla sconfitta del terrorismo, alle liberalizzazioni ecc., a beneficio dell’intera collettività. Oggi queste diversità non sono così marcate. Ciò non significa che le differenze o le ingiustizie siano state sconfitte, esse sono presenti, ma sono profondamente mutate rispetto al passato, quindi dovrebbe mutare con esse anche   la logica della loro risoluzione. Solo per fare un esempio, la classe operaia non è più oppressa e sfruttata come agli albori della rivoluzione industriale ed oltre, ed infatti le sinistre non rappresentano più, come già accennato, la classe operaia ma il ceto medio. Esistono ancora i nazionalismi, riaffiorati specie negli ultimi anni nello scenario europeo, ma non sono paragonabili, per fortuna, a quelli che hanno generato conflitti mondiali e genocidi. Oggi, la contrapposizione tra destra e sinistra ha assunto un mero carattere propagandistico, abitudinario e sterile. La “mission” della politica dovrebbe essere aggregativa non oppositiva, pluralista e non dualista, dialogante e non conflittuale. Dovrebbe proporre la risoluzione di problemi, non parlare di problemi per appartenenza o per categoria. Per intenderci, ad esempio, gli interessi degli imprenditori non dovrebbero contrastare con quelli dei lavoratori. Non ci si dovrebbe preoccupare di contrapporre la scuola pubblica a quella privata, la sanità pubblica a quella privata, gli interessi del nord agli interessi del sud e così via, ma trovare soluzioni, le più congrue ed opportune, in base agli strumenti di cui si dispone, per la scuola, per la sanità, per l’intero paese, concepiti nella loro unità e complessità. La logica della contrapposizione tra la destra e la sinistra oggi la si può paragonare alla tifoseria da stadio, al marketing di mercato, al qualunquismo e al pressappochismo. La politica “generativa” tanto cara a Giddens potrebbe rappresentare la svolta, o anche semplicemente, come sostengo io, il fare, ed il fare bene nell’interesse di tutti e contro nessuno, potrebbe rinobilitare la nostra politica. Sarebbe bello un Parlamento concepito come un luogo di disamina e di risoluzione di problemi percepiti come comuni, non un Parlamento che somiglia sempre più ad una corrida, o ad una gara tra concorrenti (i partiti) sempre meno rappresentativi e sempre più allo sbaraglio.


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