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Formazione e partecipazione nell’industria 4.0

di Patrizio Paolinelli

“Per far funzionare la fabbrica del futuro saranno sufficienti un uomo e un cane. Il cane farà la guardia. E l’uomo? Darà da mangiare al cane”.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Di certo ad oggi sappiamo che: 1) nella manifattura gli esseri umani non possono essere completamente sostituiti dalle macchine; 2) l’automazione brucia più posti di lavoro di quanti riesca a crearne; 3) la pandemia in corso ha accelerato la digitalizzazione dei processi produttivi. Se lo stato dell’arte è questo si tratta allora di verificare come l’industria 4.0 si sta confrontando con una dimensione produttiva in cui il lavoro tende a separarsi dai lavoratori.

La parola d’ordine di sindacalisti e industriali è: formazione e partecipazione.  Prova ne siano una serie di accordi che certificano la comune volontà di affrontare due problemi: quello della riqualificazione del personale per rendere le imprese competitive; quello della disoccupazione tecnologica. Naturalmente c’è ancora molta strada da fare per giungere a un modello di partecipazione del sindacato simile a quello del comparto metalmeccanico tedesco dove in diverse realtà i rappresentanti dei lavoratori siedono nel consiglio di amministrazione dell’azienda. Al momento la strada è stata aperta. Il futuro ci dirà se continuerà a essere percorsa.

Limitandoci a illustrare alcuni dei casi maggiormente significativi, il primo esempio di relazione industriale virtuosa in tema di formazione è senz’altro il Contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici firmato il 26 novembre 2016. Con questo accordo – che coinvolge circa 57mila aziende e quasi un milione e mezzo di lavoratori – si riconosce “la necessità che le imprese e i lavoratori investano nell’aggiornamento delle competenze e conoscenze quale fattore strategico per affrontare i cambiamenti tecnologici, organizzativi e di mercato”. Le stesse associazioni imprenditoriali firmatarie hanno sottolineato come tale intesa con le organizzazioni sindacali rappresenti “una spinta al cambiamento e all’innovazione necessari sia per la crescita e la competitività delle imprese che per favorire l’occupabilità delle persone”.

Mosso dalla medesima esigenza di riqualificare il personale e salvaguardare posti di lavoro è il “Patto della Fabbrica” sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 9 marzo 2018. Con questo accordo “Le Parti condividono la necessità di sviluppare la formazione continua e attivarsi nei confronti del Governo perché, anche attraverso i fondi interprofessionali, si possa avviare un grande piano di formazione, incentivato fiscalmente, per adeguare ed accrescere le competenze di chi è attualmente al lavoro, a partire dai livelli più bassi, per ridurre e anticipare le ricadute che l’innovazione tecnologica può avere sull’occupazione”.

Una novità interessante è il “Contratto di espansione”. Istituito in via sperimentale per due anni col Decreto crescita del 2019, poi convertito dalla legge 58/2019, è destinato alle imprese con più di mille dipendenti. Si tratta di una nuova tipologia di contratto collettivo aziendale (da ratificare poi in sede governativa) riservato alle imprese in fase di riorganizzazione tecnologica e che per questo motivo hanno urgente necessità di operare la riqualificazione del proprio personale. Lo strumento principale su cui tali contratti possono far leva è quello della riconversione professionale del personale attraverso piani formativi a carico dell’azienda e la programmazione di nuove assunzioni. Grazie a un pacchetto di risorse finanziarie pubbliche stanziate ad hoc se occorre gli accordi possono prevedere riduzioni dell’orario per gli addetti in determinati settori della produzione o piani di prepensionamento per le professionalità non riconvertibili. Per il momento le aziende che hanno beneficiato del “Contratto di espansione” sono Tim e Ericsson. Attualmente tale tipo di contratto è a corto di fondi e, se sarà rifinanziato, potrebbe rappresentare un’opportunità anche per la manifattura.

Un’ultima segnalazione sul fronte della formazione. Il 9 luglio scorso le parti firmatarie del CCNL chimico-farmaceutico (Federchimica, Farmindustria, FILCTEM-CGIL, FEMCA-CISL e UILTEC-UIL) hanno sottoscritto l’accordo programmatico “F.O.R. Working (Flessibilità Obiettivi Risultati)” con l’obiettivo di definire attraverso la contrattazione aziendale nuovi strumenti per la gestione dei cambiamenti organizzativi connessi alla trasformazione digitale del lavoro. Tema emerso in tutta la sua portata a causa della pandemia da Covid-19 e che ha reso necessario l’uso su vasta scala del lavoro agile.

Con quest’accordo si prefigura la nascita di una “modalità aggiuntiva ed evoluta di Smart Working: il F.O.R. WORKING”, i cui aspetti innovativi dovranno essere “la flessibilità, la gestione dei tempi e dei luoghi, la definizione e il raggiungimento di obiettivi condivisi e i risultati realizzati garantendo e migliorando l’efficienza organizzativa, i livelli di produttività, la salute e la sicurezza”. A tal fine le parti firmatarie si sono impegnate a definire entro dicembre di quest’anno una serie di linee-guida. Tra le quali spicca quella di “individuare un percorso adeguato di formazione delle competenze, ad esempio sui tool digitali e sulle smart skills, rivolto a manager e collaboratori”.

Nella fabbrica 4.0 i processi produttivi connessi con la robotica, l’intelligenza artificiale e l’Internet delle cose comportano necessariamente nuove modalità di coinvolgimento del sindacato. Va detto che nel settore manifatturiero esistono diversi esempi di sistemi partecipativi ben strutturati grazie ai quali le rappresentanze dei lavoratori hanno la possibilità di andare oltre il semplice momento informativo sulle strategie aziendali, arrivando a condividere con il management alcuni passaggi chiave per orientare le successive scelte gestionali. Valga per tutti il contratto nazionale di lavoro del Gruppo FCA-CNH-Ferrari, firmato l’11 marzo 2019, dove sin dalle premesse si afferma che le parti firmatarie: “individuano il metodo partecipativo quale strumento efficace per trovare soluzioni coerenti con gli obiettivi condivisi di tutela e coinvolgimento dei lavoratori, miglioramento delle loro condizioni e tutela della competitività dell’Azienda”.

Un importante momento di partecipazione è dato dall’istituzione della Commissione Organizzazione e Sistemi di Produzione a livello di stabilimento. Tale Commissione ha fra le sue competenze quella di esaminare le “eventuali problematiche connesse all’avviamento dei nuovi prodotti, con riferimento agli interventi tecnologici e organizzativi, nonché alle iniziative di formazione ad essi collegate”. Inoltre, sempre a livello di stabilimento produttivo (in questo caso con oltre 1.500 dipendenti), la Commissione WCM ed efficienza di plant (WCM sta per World Class Manifacturing e costituisce unametodologia internazionale delle principali aziende manifatturiere per misurare i costi di produzione) dovrà occuparsi, tra l’altro, di analizzare i dati forniti dall’Azienda rispetto agli indicatori WCM e ai suoi riflessi sulla retribuzione di produttività.

Il nuovo contratto collettivo del gruppo FCA prevede che: “per garantire la massima efficacia delle attività della Commissione, l’azienda predisporrà per i componenti della stessa momenti formativi volti a migliorare la conoscenza e la comprensione del sistema di indicatori a vista in uso nel plant”. In altri termini, è l’azienda che si fa carico di spiegare ai propri dipendenti i meccanismi decisionali (gli indicatori WCM sono quasi tutti costruiti intorno ad algoritmi) che stanno dietro all’assetto organizzativo di un determinato stabilimento, per poi affrontare in sede paritetica una loro eventuale revisione.

L’esempio forse più innovativo nella direzione del cambiamento partecipato proviene dal Contratto collettivo nazionale 2019-2022 del settore chimico. Contratto sottoscritto il 19 luglio 2018, coinvolge oltre 2mila imprese e circa 400mila dipendenti. All’art. 51 si prevede nelle aziende che lo applicano l’attivazione periodica di due diversi moduli formativi a carico della parte datoriale: il primo a favore dei rappresentanti sindacali aziendali e dei “manager delle diverse funzioni”, per diffondere la “cultura delle relazioni industriali”; il secondo a favore dei rappresentanti sindacali eletti dai lavoratori, “finalizzato a migliorare il processo di conoscenza delle RSU verso le tematiche aziendali necessarie per l’esercizio del proprio ruolo quali, a titolo indicativo, il business, l’organizzazione e la cultura aziendale”.

Se nei grandi gruppi industriali le relazioni sindacali partecipative registrano evoluzioni positive nella maggior parte delle altre imprese segnano il passo. In un panorama produttivo come quello italiano, formato in misura preponderante da piccole, medie e piccolissime imprese, gli orizzonti dell’era digitale si fermano sulla soglia dei bilanci da chiudere in attivo. D’altra parte, in molti casi le aziende non sono sicure di sopravvivere agli scossoni dei mercati provocati da crisi che si susseguono in media ogni 10-15 anni. Per molte imprese di modeste dimensioni l’automazione è una strategia di corto raggio che ha come principale, se non unico obiettivo, l’abbattimento dei costi di produzione. A cominciare dal costo del lavoro. E spesso gli investimenti in una nuova tecnologia sono possibili solo grazie al sostegno economico dello Stato. Si viene così a creare una situazione paradossale: grazie al contributo pubblico molte aziende sono messe in condizione di acquistare macchine che potenzialmente creano le condizioni per l’espulsione di forza-lavoro dal ciclo produttivo.

Anche per contenere circuiti viziosi come questo è stato varato il “Piano Nazionale Industria 4.0” contenuto nella legge 27 dicembre 2017, n. 205. Tale Piano prevede numerosi incentivi fiscali a favore delle imprese che investono in nuove tecnologie e ha stanziato un credito d’imposta per le aziende “che svolgano attività di formazione per acquisire o consolidare le conoscenze” delle tecnologie stesse. Purtroppo l’esperienza dimostra che l’attività di formazione svolta a livello aziendale spesso non basta a scongiurare il licenziamento di una parte del personale non riconvertibile in altre professionalità.

La formazione dei lavoratori e la partecipazione del sindacato alla gestione della transizione digitale sembrano viaggiare di pari passo. Permangono tuttavia alcuni nodi critici che restano da sciogliere affinché il viaggio continui. Primo nodo critico: l’attuale ritmo di sviluppo della tecno-scienza non rende inverosimile uno scenario secondo il quale in tempi relativamente brevi gran parte della forza-lavoro oggi occupata non sarà più necessaria. Secondo De Masi entro il 2025 “l’effetto congiunto di legge di Moore, riconoscimento vocale, nanotecnologie e robotica, causerà un’ulteriore jobless growth con la perdita del 60% degli attuali posti di lavoro”. Si tratta forse di una stima troppo alta in un periodo così breve, ma la tendenza è questa.

Secondo nodo critico: se al momento la manifattura non può fare a meno di una consistente presenza di lavoratori (seppur parecchio ridotta rispetto al passato), non è detto che prima o poi il sogno di molti imprenditori di possedere una fabbrica completamente automatizzata non si realizzi. Magari con sostanziosi contributi pubblici. E qui si apre il capitolo sul ruolo dello Stato rispetto alla disoccupazione tecnologica e alla disoccupazione tout-court. La ventennale fase di stagnazione economica del nostro Paese, le fallimentari privatizzazioni delle grandi industrie di Stato, la crisi innescata dalla pandemia in corso e l’avanzamento dell’automazione in ogni comparto produttivo indicano che la responsabilità di individuare soluzioni ai problemi di coloro che rischiano di essere espulsi dal mondo del lavoro non può essere affidata al mercato, ma vada assunta sul piano politico lungo una doppia direttrice: in termini di politica industriale e di politica sociale.

Terzo nodo critico: la trasformazione tecnologica non avanza in modo uniforme in tutti i settori, non segue schemi predeterminati né si lascia condizionare da protocolli e linee guida fissati ai tavoli nazionali.Decine di migliaia di imprese (soprattutto di piccole e medie dimensioni) operano al di fuori del perimetro di applicabilità degli accordi firmati dalle grandi associazioni nazionali e tendono a regolarsi in modo del tutto autonomo. In un contesto così sfaccettato l’impatto dell’innovazione tecnologica va affrontato caso per caso.E bisogna farlo direttamente nelle singole realtà produttive, nei luoghi dove il lavoro umano entra in contatto con quello delle macchine intelligenti. Si tratta di una sfida che l’accelerazione tecnologica impone oggi al sindacato in materia di organizzazione del lavoro.

Patrizio Paolinelli Via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 21 ottobre 2020.


Una fugace riflessione a “mente aperta”

di Davide Costa

In alcuni casi è necessario andare oltre il solito impianto teorico-metodologico, specialmente se parliamo degli studiosi della sociologia. Come lettori privilegiati dei fenomeni sociali, in situazioni particolari, abbiamo la necessità di “scendere in campo” con i diversi strumenti a disposizione, il primo fra tutti, la parola!

<<==dott. Davide Costa *

Viviamo un periodo drammatico, che va ben al di là della sfera sanitaria! Si tratta di una situazione di assoluta insicurezza socioeconomica, in cui le fasce più deboli sono ancora più fragili. Tra una mascherina e un’altra, ci si chiede se si tornerà alla “normalità” pre-covid o se dovremo prepararci ad una nuova socialità. Sembrerebbe che quella di oggi sia una nuova società, destinata a riportare in auge il vecchio polarismo “tra ricchi e poveri”: si apre maggiormente la forbice, la disuguaglianza e soprattutto la differenziazione di accessi…

 Si di accessi: mentre il più abbiente ha la possibilità di farsi strada in questa nuova rete fatta di smart working, reti private, ecc.; i meno abbienti non hanno queste possibilità, facciamo un esempio: sono ancora molte le famiglie e le località prive di connessione ad internet; ora se sempre di più la vita sta diventando “online”, come faranno ad accedere e a fruire di molti servizi? E ancora, il livello di istruzione sta subendo un vertiginoso calo, scelta, forse, voluta, perché meno si conosce e più è semplice manipolare un’intera nazione; la vera forza non sta nei muscoli, ma nelle capacità intellettive, nella cultura, l’unica vera via maestra per la libertà!

E’ diventato tutto così dannatamente nebuloso, una società in cui ci battiamo a commentare un spot poco rappresentativo o ad urlare contro il capro espiatorio di turno, ma non per le questioni che realmente richiederebbero azioni simboliche, si intende non violente, ma di sana e concreta ribellione contro un sistema oramai, non solo sordo, ma anche cieco e muto! Eravamo in molti a sperare in un cambiamento significativo delle strutture sociali, ormai palesemente obsolete, eppure l’unico cambiamento tangibile è il silenzio! Un mutismo totale! Forse perché cambiare significa mutare, e non tutti sono disposti a sostituire gli agi sui quali si sono adagiati… Comodità e cambiamento non vanno molto d’accordo!

Mi chiedo con quali esiti, alla fine di questa ondata di insicurezza, avremo a che fare! Una cosa è certa, la già scarsa meritocrazia italiana, sarà sempre più declassata, per lasciare spazio al sempre mai tramontato vecchio sistema! l vero problema di questa situazione attuale è la totale incapacità proiettiva dell’uomo verso il suo orizzonte pregnante: il futuro! Quale futuro ci aspetta, dal momento che non abbiamo la possibilità di pianificare l’immediato! Come sarà l’avvenire se, questi normalmente si edifica su basi solide e stabili, ed ora abbiamo soltanto dei vacillanti vasi di coccio prossimi a frantumarsi? Probabilmente questo articolo suonerà come un delirio sconnesso permeato da un eccesso di negatività… E’ probabile… O forse è una è piccola finestra su una delle tante facce che la realtà propone… Realtà… Realismo….

Realismo e negativismo spesso vengono confusi, perché non ci piace una realtà meno disillusa e più pragmatica; sin dalla nascita siamo abituati alle favole e al lieto fine, e nonostante chiunque viva sula propria pelle il frantumarsi del bel finale, non rinunciamo mai a bollare il reale con il negativo! Forse perché così ci si deresponsabilizza, si attribuisce la colpa ad una visione troppo “cupa”, perché si discosta troppo dalla voce candida e soave della fatina di turno.

Ma  oggi non ci sono fatine, non ci sono castelli da conquistare e vecchi maghi da scacciare, c’è solo la nuda e sempre costante lotta dell’uomo contro se stesso. Anziché cooperare e collaborare, la via conflittuale è la più facile, la più seduttiva perché è più semplice da adottare: il barcone da affondare, la devianza da incolpare, l’omosessualità, ecc.; si tratta di strumenti congeniali al sistema per fare in modo che le società possano scaricarsi su di essi piuttosto che verso i reali autori dei mali di cui soffriamo! D’altra parte la società ha bisogno di essere confortata, di essere cullata da interventi rapidi, differenziali e differenziati, ecco perché parlavamo di un aumento della forbice tra ricchi e poveri; è così che essa preferisce la serenità dettata da schemi rapidi e immediati piuttosto che la riflessione accurata e profonda.

Concludo con questa, che vuole essere una brevissima riflessione a “mente aperta” e non a “cuore aperta”, perché è la mente la casa dell’agire, del pensare razionale e sociale; è la mente che dovremmo utilizzare come bussola delle azioni individuali e collettive per provare a realizzare un vero e proprio cambiamento,  e non, come viene da sempre sostenuto, il cuore che si occupa di irrorare tra le tante strutture anch’essa!

  • Sociologo e Segretario Regionale Calabria dell’Associazione Sociologi Italiani

SIGNIFICATO E VALENZA DEL CONCETTO DELLA “PENA” AI GIORNI NOSTRI

di Francesca Santostefano

“Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un esseresensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.“C. BEccaria”

<==Dott.sa Francesca Santostefano

Cesare Beccaria, noto giurista vissuto attorno alla metà del Settecento, in pieno fulgore illuminista, divenuto famoso per l’opera “Dei delitti e delle pene” testo ancora oggi usato come esempio nell’ambito penale, ove viene condotta un’analisi sia politica che giuridica attorno al concetto di “pena di morte”, sulla base del razionalismo ed utilitarismo pragmatico usuale in quel periodo. Il concetto di pena di morte all’epoca era molto esteso e vissuto con molto timore in quanto per un semplice reato (come il commettere un furto o mancare di rispetto verso un’autorità) veniva inflitta conseguentemente una pena rigida che talvolta prevedeva l’utilizzo di torture sino a condurre alla morte del detenuto.

Durante il decorso del tempo tale concetto ha subito enormi modifiche soprattutto nel sentire comune, partendo dal presupposto che il concetto di pena è connesso, anzi si trova in una vera e propria simbiosi con il concetto di sanzione (punizione prevista per chi non osserva una normativa o un ordine) mentre per pena si intende in diritto una sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale comminata secondo il diritto penale. È erogata dall’autorità giudiziaria, con le forme e le garanzie previste dalla legge. Altresì si parla spesso della cosiddetta sanzione coattiva appunto imposta dalla legge. Loco ove vengono inflitte le pene o sanzioni coattive (proporzionate appunto al reato commesso) è il sistema carcerario; la Costituzione Italiana sancisce all’art. 27 co. 3 che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (una sorta di quid pluris in melius ove viene appunto intesa, la pena,  in maniera propositiva nell’ambito del reinserimento del detenuto nel contesto sociale e civile).

Da tale formulazione si ricava uno dei fondamentali principi del nostro ordinamento penale il quale costituisce altresì l’espressione di una delle basilari funzioni della pena stessa. Infatti oggigiorno il carcere si riconferma essere il modello dominante di sanzione penale, luogo ove avviene la rieducazione del condannato. Da un  punto di vista storico durante il secondo dopoguerra la situazione di disagio degli istituti penitenziari fu aggravata dal fatto che in questa fase storica si registrò in Italia il picco di criminalità più elevato del ‘900. Venne inoltre applicata contro i criminali di guerra e i collaborazionisti una serie di normative speciali che determinarono l’effetto di affollare ulteriormente le carceri (dando luogo anche a fenomeni di protesta collettiva dei carcerati molto drammatici).

Questa iniziale fase di stallo e compressione dell’idea rieducativa della pena comincia ad essere superata negli anni ’60, è proprio in questo clima storico e culturale che vengono emanate la legge 26 luglio 1975, n. 354, intitolata ≪Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà≫ ed il relativo ≪Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.”

Per la prima volta il carcere viene visto in un’ottica di occasione data al recluso di reinserirsi nella società e non inteso solo come luogo di reclusione e sofferenza. Il detenuto diviene un soggetto che non deve solo “subire” ma essere al contempo partecipe attivamente e viene visto come il fine vero e proprio dell’istituzione carceraria.  La legge sull’ordinamento penitenziario promosse dunque strumenti di risocializzazione (i cosiddetti agenti socializzanti) come l’istruzione, le attività culturali, religiose ed anche lavorative, cercando di far vivere il detenuto il più possibile un decorso normale vissuto precedentemente prima dell’esperienza carceraria. Inoltre venne promosso anche il contatto del detenuto verso l’esterno, mediante colloqui riservati con i familiari, l’utilizzo dei mezzi di informazione, ecc..

Tuttavia oggi nell’ordinamento italiano spesso a prevaricare vi sono delle ingiustizie infondate, vengono commessi reati gravi, ma nonostante alla base vi siano tali gravità le condanne inflitte sono piuttosto effimere e poco concise, non sono proporzionate al reato commesso anche grazie ai benefici derivanti dall’adozione del rito abbreviato e fino a poco tempo fa del concordato in appello, le pene venivano ridotte di oltre due  terzi (La Malapianta, Gratteri N; p.16). Nell’opera del sociologo M. Foucault “Sorvegliare e punire, la nascita della prigione egli espone il contrasto tra due forme di punizione: il pubblico supplizio, violento e caotico, e la pedante programmazione giornaliera prevista per gli internati in una prigione agli albori del XIX secolo. La tesi di Foucault è che la legge era considerata un’estensione del corpo del sovrano, pertanto era pienamente logico che la vendetta si incarnasse nella violazione dell’integrità fisica (corpo) del condannato.

I prigionieri, secondo quanto illustrato nell’opera, sarebbero stati costretti a svolgere lavori che riflettevano i loro crimini, in tal modo fornendo alla società una riparazione per le loro deviazioni. Attualmente i crimini nella società aumentano con una rapidità tale in concomitanza al mutamento sociale che il sistema sta attraversando, secondo l’Istat le rapine sono diminuite del 30 % nell’UE tra il 2012 e il 2017. Nel 2017 sono stati commessi 4 300 omicidi volontari e 589 000 aggressioni nell’UEappunto sono sorti nuovi crimini connessi al femminicidio, alle baby gang, cyber bullismo ecc. e studiare questi nuovi casi diviene rilevante in modo tale da escogitare sanzioni esemplificative connesse a tali gravità.

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.


VIOLENZA DOMESTICA BOOM DI ARCHIVIAZIONI: LA CORTE DI STRASBURGO “BACCHETTA” L’ITALIA

di Martina Grassini

In Italia il tasso di procedure per violenze domestiche che terminano con proscioglimenti allarma Strasburgo.

<<=== Avv. Martina Grassini

Dall’esame da parte del Comitato Esecutivo delle informazioni fornite dal Governo Italiano a seguito del noto caso Talpis (che portava alla condanna del nostro Paese nel 2017), emerge come in Italia troppi procedimenti per violenze domestiche terminano con una sentenza di “non luogo a provvedere” già al termine delle indagini preliminari.

Gli sforzi dell’Italia sul tema violenza domestica, oggi, sembrano insufficienti.

Il comitato dei Ministri, infatti, esprime “soddisfazione per gli sforzi continui delle autorità italiane. che dimostrano la volontà di prevenire e combattere la violenza domestica e la discriminazione di genere”, ma domanda l’attuazione di una serie di misure volte a prevenire ed arginare il fenomeno, drammaticamente in continua crescita. L’Italia dovrà quindi fornire entro fine marzo informazioni sulle misure di prevenzione adottate ed anche dati statistici.

Il bel Paese, infatti, vanta oggi un triste primato, avendo registrato un record di denunce di violenza domestica e stalking. In fase “lockdown, poi, il picco di segnalazioni al numero di pubblica utilità per sostenere e aiutare le vittime di violenza di genere e stalking è stato pari a circa il 73% in più rispetto all’anno precedente.

Dati allarmanti a cui sta cercando di dare una risposta il Codice Rosso, approvato nel 2019, che prevede che la vittima verrà sentita dai pubblici ministeri entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato e che la Polizia Giudiziaria abbia l’obbligo di comunicare alle Autorità casi “sospetti” di particolari categorie di reati.

Strasburgo, quindi, bacchetta l’Italia e vuole delle risposte: la denuncia contro un’ingiustizia subìta è un atto di coraggio che non può e non deve essere derubricato con un semplice “non luogo a procedere”.

Avv. Martina Grassini

Assistente Prof. Avv. Michele Miccoli


Essere performanti

di Patrizio Paolinelli

Ecco un repertorio linguistico diventato familiare: capitale umano, imprenditori di sé stessi, meritocrazia, management del sé, leadership, coaching, empowerment, concorrenza.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Proprio in quanto ordine discorsivo tale repertorio è portatore della Weltanschauung neoliberista oggi imperante e viene analizzato in chiave sociologica da Federico Chicchi e Anna Simone in un libro intitolato “La società della prestazione”, (Ediesse, Roma, 2017, pagg., 12,00 euro).

A onore della casa editrice va riconosciuto che il libro è molto ben curato. Presenta persino un indice analitico. Strumento utilissimo per il lettore, ma da decenni scomparso per risparmiare sui costi di produzione. Lascia invece perplessi il fatto che il libro sia uscito in una collana dichiaratamente divulgativa. In realtà il testo è scritto con un linguaggio specialistico e presume un lettore che abbia grande dimestichezza con le scienze umane. Per farla breve “La società della prestazione” è un’opera accademica destinata a esperti e studenti. Il che ci sembra un peccato perché il libro avrebbe meritato un pubblico più vasto. E ora entriamo in argomento.  

Il principio di prestazione è un noto concetto elaborato da Herbert Marcuse in “Eros e civiltà”.  Nella riflessione del pensatore tedesco tale concetto rappresenta “la forma storica prevalente del principio di realtà”. In soldoni significa che costituisce una delle forme repressive della società capitalistica avanzata e si fonda sull’adattamento dell’individuo al ruolo che la divisione in classi e divisione del lavoro gli impongono.

Prendendo le mosse da Marcuse, Chicchi e Simone sviluppano il concetto di prestazione a tal punto da presentarlo come un passe-partout in grado di interpretare e definire la società contemporanea. In virtù di questa estensione compiono un primo passo che li allontana dall’esponente della Scuola di Francoforte, per il quale invece la prestazione costituisce un elemento di un sistema di dominio assai più complesso. Ma ciò che li separa del tutto da Marcuse è il collegamento della prestazione al desiderio anziché al lavoro. Ipotesi sorprendente e che viene a lungo motivata nel corso del libro.

Per spiegarla Chicchi e Simone abbracciano la tesi secondo la quale il postfordismo ha messo in crisi l’idea novecentesca del lavoro. Il presupposto di tale tesi è che le frontiere tra lavoro e non lavoro siano evaporate: in pratica si lavora sempre. La centralità sociale è dunque assunta dalla prestazione: in ogni momento del vivere occorre essere performanti. Ossia: sapersi proporre, riuscire a vendersi, vincere sugli altri, non arrendersi mai. In poche parole, la società della prestazione non fa altro che creare, alimentare e sfruttare queste disposizioni rendendole commerciabili. Per sostenere la propria intuizione Chicchi e Simone fanno riferimento all’idea di società del rischio di Ulrich Beck, alla critica di Christopher Lasch nei confronti della cultura del narcisismo e all’idea di società della stanchezza sostenuta da Byung-Chul Han.

A differenza di Marcuse questi tre autori non hanno contribuito a stimolare il rifiuto del sistema sociale in cui viviamo né hanno prospettato, anche solo in linea teorica, il superamento del capitalismo. Si tratta di limiti che comportano una disamina tutta intellettuale della società. Ciò non toglie che Chicchi e Simone non denuncino problemi, ingiustizie e contraddizioni della società neoliberista. Per esempio quando affrontano le psicopatologie della prestazione: l’obbligo ad avere sempre successo genera eserciti di depressi e di disturbati mentali. Altro esempio: il condizionamento mentale effettuato dai cosiddetti coacher: i quali addestrano i clienti non a vivere meglio ma a ottenere risultati come se dovessero sempre vincere una gara.

Essere sempre “prestanti” ha un costo soggettivo e sociale enorme. Genera una sofferenza diffusa e un mondo di squilibrati. Esperienza che ognuno di noi fa quotidianamente. E a proposito di squilibri   per Chicchi e Simone due film rappresentano le polarità della società della prestazione: il Lupo di Wall Street, di Martin Scorsese, e Daniel Blake, di Ken Loach. Nella prima pellicola uno spregiudicato broker, dedito all’alcol e alla droga nella vita privata e alla truffa e all’imbonimento in quella pubblica, imbroglia una quantità enorme di ingenui risparmiatori. Alla fine il suo castello crolla, ma pur caduto in disgrazia se la cava. Il protagonista del film di Kean Loach non è un vincente che perde, è uno che ha perso in partenza: un carpentiere infartuato. Danielnon può più lavorare e lotta con un welfare ormai aziendalizzato per ottenere l’assistenza necessaria per sopravvivere. Il giorno prima del processo di ricorso per ottenere l’indennità per malattia Daniel muore. Entrambi i personaggi sono vittime dell’insicurezza in cui il neoliberismo ha gettato le vite di tutti. E naturalmente il meno performante ci lascia la pelle.

Come si resiste alla società della prestazione? In tre modi suggeriscono Chicchi e Simone: attraverso la misura, il desiderio e l’arte. La misura si può tradurre in un reddito di base a difesa dei soggetti sociali più vulnerabili; il desiderio va sottratto alla tirannia della performance e inteso come rigenerazione del sé in rapporto agli altri; l’arte dovrebbe liberare l’individuo facendolo diventare un soggetto in grado di affrontare l’imprevisto in maniera imprevedibile.

Col rispetto dovuto ci sembra di poter dire che la ricetta di Chicchi e Simone è debolissima. E lo è perché debolissimi sono i pilastri su cui si fonda la loro teoria, a iniziare dal concetto di società del rischio. Come è ormai tipico della sociologia accademica quello che manca nel loro libro è un’analisi dei rapporti di forza tra le classi, tra politica e mercato, tra sapere e spettacolo. Invocare “una via etica all’umano” è ammirevole ma inefficace. Appoggiarsi a Foucault, Lacan e Castel (quest’ultimo parecchio sopravvalutato da Chicchi e Simone) è stimolante ma intellettualistico. Un intellettualismo che paradossalmente non comprende la natura del capitalismo e del suo attuale volto, il neoliberismo. Il quale persegue il proprio progetto sociale e lo perseguirà a costo di commettere qualsiasi violenza nei confronti della società. Lo sta già facendo da decenni e non basteranno certo le buone intenzioni a fermarlo.

Per chiudere, resta da dire che oggi contiamo almeno una ventina di definizioni diverse della nostra società. Una vera e propria babele. È utile che Chicchi e Simone ne abbiano aggiunta un’altra? Lasciamo aperta la domanda. E tuttavia non possiamo esimerci dal ricordare che la nostra era ed è una società capitalistica. Capiamo che ciò dispiaccia perché l’accademia ha sete di continue novità per alimentare dibattiti, convegni, pubblicazioni, carriere e così via. Ma è da un’analisi del capitalismo che bisogna partire. Altrimenti, sul piano della conoscenza si perde la rotta e sul piano sociale si perde la battaglia.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 10 ottobre 2020.


Cyberbullismo, l’importanza della prevenzione

di Antonio Russo

Nella società attuale la rete, internet offre tantissime opportunità, possibilità ai nostri figli di crescita ma eppur vero che Non bisogna sottovalutare i rischi che si “nascondono”.

<<== dott. Antonio Russo

La tutela dei minori, dei nostri figli è una responsabilità di tutti, della famiglia, delle scuole, dello Stato, dell’Istituzioni, una tutela a 360 gradi. Oggi molti minori, adolescenti, ragazzi, Non denunciano, Non parlano con i propri familiari ma preferiscono confrontarsi con i loro coetanei sottovalutando gli episodi con superficialità. Bisogna stare molto attenti perché il “bullo, lo stalker, il pedofilo” , si può celare come lo raccontano anche i dati di fatto, i numeri tremendamente tragici, dietro un pc, uno schermo.

Ascoltiamo i nostri figli per puntare sull’informazione e prevenzione conoscendo sicuramente e certamente il “ loro mondo on line”, ai molti sconosciuto. Sosteniamoli, aiutiamoli, confrontiamoci perché oggi le molestie telematiche sono un problema pericoloso, rilevante che tutti Noi abbiamo l’obbligo di arginare in un’ottica di prevenzione.

La rete viene utilizzata in modo leggero dai nostri figli, a volte in modo inconsapevole ed è molto preoccupante. Nella società odierna dove si va a mille a l’ora, nessuno a tempo per nessuno, la parola d’ordine , dovra’ essere “ informazione, dialogo, prevenzione, conoscenza” della rete internet usata dai nostri figli. E’ ovvio che ci sono regole specifiche da rispettare ad esempio: – parlare e dialogare sempre, spiegare come funziona la rete internet ed il web, stabilire delle regole chiare e precise sull’utilizzo della rete; – fare della navigazione in rete una esperienza di famiglia, esattamente come viene fatto per la TV;- educare i propri figli a non dare informazioni personali su internet mai in nessuna occasione; -educare al fatto che la comunicazione mediata da un computer non sempre ci fa capire chi ci troviamo dall’altra parte dello schermo.

Ci sono alcun accorgimenti che non possono non essere applicati. per esempio: far condividere le password con i genitori e con nessun altro. E gli stessi genitori sono chiamati a conoscere sempre le password dei figli minori; -educate a non rispondere a un messaggio che faccia sentire confusi o a disagio; spiegare che il fatto che si è “in rete” non autorizza mai ad utilizzare un linguaggio volgare od offensivo nei confronti degli altri; -mai inviare foto o richiedere foto personali; -mettere delle regole di utilizzo circa i tempi di fruizione della rete -fare attenzione a ciò che viene scaricato dal web; -ssicurarsi che i tuoi figli rispettino i limiti d’età (per esempio su Facebook il limite di età è di 13 anni); -mettete in guardia i vostri figli sui pericoli della sicurezza informatica: uso delle password, virus ecc; -spiegare che esistono siti internet dannosi e NON adatti ai minori;-fake news e diffusione virale: educare ad un uso corretto dei media non vale solo per la rete internet.

Non sempre è facile per la vittima denunciare il proprio molestatore, parlarne con i propri insegnanti o con i propri genitori, che abbiamo l’obbligo di imparare ad ascoltare i nostri figli. Purtroppo, il Cyberbullismo esiste, come esiste, purtroppo, la violenza nella società. E’ un fenomeno presente sulla rete ne va parlato e va spiegato. Mediante il dialogo si ragiona, il figlio acquista piu fiducia nell’esprimersi, nell’aprire il proprio “io”, nel confidarsi. Saper ascoltare è un’arte in molti casi e in questi casi decisiva perché se un ragazzo, vuole liberarsi di chi lo sta molestando, deve parlare, deve confidarsi, deve liberarsi di quanto sta accumulando al suo interno che lo potrà portare all’emarginazione, alla depressione.

E se un ragazzo vuole liberarsi del molestatore può provare a :-Inviare un messaggio al cyber bullo o al bullo , in cui gli dici in modo chiaro che il suo comportamento lo sta disturbando;di non continuare più con i suoi atteggiamenti offensivi o denigratori; -non instaurare un botta e risposta con chi ti sta offendendo, in questo modo la conversazione potrà finire prima, nel nulla, facendo sfogare da solo il molestatore senza cadere nella sua trappola; -non cancellare nulla, messaggi, email, foto, conversazioni, qualsiasi traccia utile per un eventuale denuncia o istanza o reclamo; cambia la tua email, social; se i fatti sono avanti, cioè sono gravi tanto che il cyber bullo continua nel suo comportamento ossessivo, di molestatore, informa i tuoi genitori, un tuo fratello, un tuo amico della situazione che stai vivendo; -non chiuderti nel tuo “io”, può portarti all’emarginazione e alla depressione; -reagire, non accettare alcun sopruso.

E’ importante per un genitore intervenire subito. Figlio e genitore devono essere sempre disponibili alla comunicazione, fattore fondamentale. Il fenomeno del bullismo, del cyber bullismo sono fenomeni in aumento, ma con una buona relazione tra ragazzi e adulti, tra figlio e genitori, tra alunni e insegnanti, si può arginare e contrastare. La rete viene utilizzata in modo leggero dai nostri figli, a volte in modo inconsapevole ed è molto preoccupante.Nella società odierna dove si va a mille a l’ora, nessuno a tempo per nessuno, la parola d’ordine , dovra’ essere “ informazione, dialogo, prevenzione, conoscenza” della rete internet usata dai nostri figli.                                                                              


Commento all’opera di Francesco Filippi: “Mussolini ha fatto anche cose buone”.

di Federico Carlino

All’incirca un anno fa, nelle librerie di tutta Italia è stato esposto un saggio storico, rivelatosi poi successo editoriale, dell’autore Francesco Filippi. Il suddetto libro porta il titolo: “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo[1].

<<== Dott. Federico Carlino

Un’opera che, per molti di coloro che l’hanno commentata e ne hanno espresso un parere, rappresenterebbe un esempio fondamentale per lo smascheramento di tutta quella memoria dannosa che ancora oggi circola in merito al Fascismo. Sono stati diversi i pareri favorevoli al lavoro svolto dallo storico in merito alla ricerca della verità su quello che è stato il ventennio del nostro Paese sotto la dittatura, e su tutti i luoghi comuni che ancora circolano in merito. Ma sono effettivamente dei giudizi e delle lodi meritate? Dopo una prima analisi la risposta risulterebbe negativa.

Sono infatti riscontrabili nel saggio del professor. Filippi diverse pecche, che non vengono limitate al lato prettamente storico e analitico del libro, ma che includono anche il metodo, lo stile e il linguaggio da lui utilizzati. Ovviamente, essendo l’argomento trattato dal libro ancora estremamente controverso e dotato di un peso sociale non indifferente, alcuni “errori” sono quasi da considerarsi “normali”, anche se ciò, ovviamente, non dovrebbe (ma questo accade quando la politica influisce in contesti che non dovrebbero essere di sua competenza). Eppure, in pochi e chiari punti, appare evidente come l’opera sia stata scritta col preciso intento di schernire e ridicolizzare il fenomeno analizzato, da una posizione tutt’altro che accademica e super partes, che ne incide la validità.

Per prima cosa, bisogna sottolineare che lo stile di scrittura e di esposizione utilizzati nel saggio di Filippi non solo non si addicono minimamente a quelli di uno storico, ma in più parti l’autore fa spesso sfoggio di un linguaggio fin troppo ironico, sarcastico e spesso deliberatamente offensivo (basti considerare anche nello stesso titolo l’utilizzo della parola “idiozie”), non certamente consono alla materia in questione. Nel libro, il lettore si trova di fronte a delle espressioni che nulla hanno di scientifico o di obiettivo, inclassificabili secondo i metri di giudizio di un buon lavoro di ricerca, a all’utilizzo di modi di dire, commenti o giudizi che non avvalorano in alcun modo la tesi presentata o sostenuta dall’autore. “(…) venne cambiato il nome alla Cassa Nazionale, trasformandola in <<Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale>>, dall’impronunciabile acronimo INFPS[2].

In tutto il saggio è possibile notare e percepire la presenza di un tono e di un metodo linguistico che costantemente richiamano a una visione estremamente negativa del Fascismo e della sua storia. Il tutto viene accompagnato da un tono di scherno e di presa in giro. Come secondo punto, quello che più sorprende della critica mossa da Filippi, è la sua scelta delle fonti da screditare. È estremamente interessante, infatti, che egli decida di prendere in esame frasi, affermazioni o commenti recepiti dal web, scritti presumibilmente da soggetti esterni ai metodi di ricerca storica o sociale. Prendendo come esempio frasi reperite sul web o su siti di dubbia provenienza, qualsiasi argomento, dopotutto, potrebbe essere dimostrato come falso e bollato di ciarlataneria, o schernito sino a limiti estremi[3]. Sarebbe stato, invece, certamente più proficuo e utile, visti i fini ultimi dell’autore, attaccare e dimostrare la falsità di esempi molto più autorevoli.

Dopotutto, non è così esiguo il gruppo di storici, giornalisti, saggisti ecc. che hanno trattato i meriti di Mussolini e del Fascismo nella storia italiana, né sono esigue le opere da loro pubblicate o i commenti espressi sull’argomento. Sicuramente, uno “smascheramento” di produzioni di tale calibro avrebbe certamente avuto un risultato più cospicuo nella lotta alla “cattiva memoria”. Tuttavia, e questo sentimento traspare chiaramente nel saggio, Filippi mira ad attaccare tutte quelle falsità che circolano in ambienti fuori dal contesto di ricerca vero e proprio. In un certo senso, mira a screditare tutte quelle considerazioni (mi sia concesso l’uso del termine senza alcuna malizia) “popolari”. Ciononostante, questo non toglie che un confronto più equo avrebbe certamente aumentato il peso dell’opera. Bisogna anche sottolineare, però, che un’analisi di opere favorevoli o, quantomeno, non avversarie rispetto al Fascismo avrebbe richiesto una maggiore difficoltà e un impegno decisamente superiore, sempre qualora lo smascheramento si fosse rilevato effettivamente possibile. Non sono forse anche quelli dei canali di distribuzioni di “idiozie” che circolano ancora sul Fascismo?

Anche in merito all’analisi degli eventi le critiche non possono essere sottaciute. Il saggio di Filippi, oltre a poggiare su concezioni oramai superate, criticate e decisamente schierate del fenomeno, analizza gli eventi in un ambito prettamente di singolarità, non relazionando azioni, politiche o concezioni filosofiche in un contesto globale e internazionale. Perciò, se da un lato troviamo cospicue minimizzazioni dell’argomento, dall’altra, un lungo elenco di biasimi viene mosso senza che le azioni prese in considerazione siano collocate in un contesto ben preciso.

Un esempio del primo caso è riscontrabile addirittura nella premessa, dove l’autore concorda con Umberto Eco e la sua visione di un Mussolini slegato da una qualsivoglia filosofia[4]. Teoria ampiamente screditata da autorevoli storici del calibro di Emilio Gentile[5].

Un altro aspetto estremamente interessante risiede proprio nei fatti che Filippi riporta, in un senso molto più vasto. Infatti, il libro appare chiaramente come un attacco a tutti i sostenitori, ammiratori o nostalgici del Fascismo. La memoria, che tanto viene difesa all’interno del saggio, non trova effettivamente una vera giustizia, dato che, per quanto sia ammirevole la critica verso i molti luoghi comuni che circolano in merito al Fascismo, questa dovrebbe essere mossa sia contro quelli di stampo positivo, sia contro quelli di stampo negativo.

Possibile che le “idiozie” che continuano a circolare in merito al Fascismo siano esclusivamente a suo sostegno e per i fini della sua propaganda? Non sarebbe, perciò, molto più corretto affermare di voler far tacere esclusivamente tutte quelle “idiozie” che vanno esclusivamente a suo favore, piuttosto che rimanere sul vago?    Credo che, per rendere giustizia a ogni tipologia di memoria, sarebbe stato necessario o uno schieramento chiaro e diretto contro l’argomento, o un’inclusione totale di tutte le false memorie presenti, invece di citare e, in definitiva, screditare tutto quello che non condanna il fenomeno, definendolo semplicemente “revisionismo”.

Anche in merito alle notizie riportate nel saggio, riferendomi a quelle prive di qualsiasi ideologia o visione sull’argomento, Filippi non esclude una certa propensione alla negatività. Ovviamente il giudizio non deve vertere sulla veridicità dei suddetti dati (anche se molto sarebbe necessario aggiungere a tale affermazione), ma sull’effettiva completezza delle sopraccennate. È possibile notare, per chiunque abbia una conoscenza anche superficiale dell’argomento, o quantomeno la volontà di ascoltare una “seconda campana”, che in diversi capitoli numerosi sono i dati mancanti.

Mancano all’appello, tanto per fare alcuni esempi, i riferimenti in merito a tutti i provvedimenti fascisti attuati nell’ambito pensionistico, come l’introduzione del Tfr, che ha trovato attuazione il 21 aprile del 1927, con la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del 30 aprile dello stesso anno. Non sono presenti i diversi provvedimenti e le numerose riforme in merito agli aiuti sociali, come nell’ambito delle organizzazioni del dopolavoro, mentre quelli che vengono citati (ovviamente di sfuggita) hanno una spiegazione e un approfondimento assolutamente insoddisfacenti. Uno dei casi più emblematici, risiede soprattutto nella mancata critica alla riforma Gentile operata in seno all’ambito scolastico e dell’istruzione, così come la successiva legge 1° luglio 1940, n. 899, detta anche legge o riforma Bottai. È sorprendente come tanti aspetti vantati dai sostenitori del Fascismo manchino sulla lista per essere “smontati”, e che, ovviamente, non siano lontanamente nemmeno introdotti o accennati durante l’analisi.

L’esempio che più di tutti è significativo riguarda, però, proprio la figura di Benito Mussolini. In questo caso l’autore elimina, o meglio, omette eventi storici per adattarli a una visione esclusivamente negativa e denigratoria. Nel capitolo dedicato al Duce condottiero, tanto per fare un esempio, Filippi afferma: La prima posizione sull’argomento (in merito allo svolgimento del servizio militare) il giovane Benito la ebbe già a diciannove anni, quando emigrò in Svizzera e disattese l’obbligo di leva nel regio esercito. L’agitatore socialista all’epoca si professava tutt’altro che guerrafondaio, ed evitò di prestare servizio alla patria che una volta preso il potere considerò sacro. Questa prima sincera fuga dal militarismo fu compensata in parte quando Mussolini per ragioni di opportunità decise di partire volontario per la Grande guerra: un gesto simbolico, che non gli fu richiesto e che lo portò in trincea.[6]

L’autore, giustamente, cita le fonti dalle quali prende le notizie riportate, che sono due opere di Renzo De Felice[7] e Simone Visconti[8]. Nel citarle, però, sembra quasi che la sua lettura dei suddetti testi si sia fermata solo a una parte degli scritti, o quantomeno, che sia carente di alcune sezioni. Nell’opera di De Felice, l’ultima edizione di Mussolini il rivoluzionario (1883 – 1920)[9], viene addirittura indicata la pagina di riferimento (pag. 46). Nel parlare della “prima posizione sull’argomento”, però, Filippi scorda di riportare il fatto che Mussolini, dopo aver disatteso il servizio di leva, sia stato graziato per la nascita dell’erede al trono Umberto II, e che sia stato inquadrato nel 1904 nel corpo dei Bersaglieri di stanza a Verona. Non solo, non riporta nemmeno il fatto che, nonostante ci si aspettassero diverse noie da lui per tutte le segnalazioni fatte sul suo conto, il politico di Dovia abbia ottenuto perfino una dichiarazione di “buona condotta”.

Infatti, quando Mussolini aveva deciso di partire per la Grande guerra e di offrirsi volontario, non aveva compiuto “un gesto simbolico, che non gli fu richiesto e che lo portò in trincea”, quanto più un atto fondamentalmente inutile, perché la sua classe sarebbe stata chiamata alle armi il 31 agosto del 1915. E, ancora una volta, ha ottenuto nuovamente un giudizio positivo sul proprio operato. Nel fascicolo redatto dall’ispettore generale di PS Gasti, per il presidente del consiglio all’ora in carica nel 1919, si può leggere: Richiamato sotto le armi, fu in zona di guerra e rimase anche gravemente ferito da scheggia di granata. Fu promosso caporale per meriti di guerra. La promozione fu motivata dall’attività sua esemplare, dalle qualità battagliere, serenità di mente, incuranza dei disagi, zelo, regolarità nell’adempimento dei suoi doveri, primo in ogni impresa di lavoro e di ardimento.[10]

Tutte queste informazioni sono disponibili da pagina 47 in poi nell’opera di Renzo De Felice, ma sono stranamente assenti in quella di Filippi che non le cita né ne fa menzione alcuna.

Note:

[1] Cfr. F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, Torino 2019.

2 F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 11.

3 Cfr. T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, La Repubblica, Roma 2019.

4 F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 5. Filippi si riferisce all’opera di Umberto Eco, Il Fascismo  eterno, La Nave di Teseo, Milano 2018.

5 Cfr. E. Gentile, Chi è fascista, Laterza, Bari – Roma 2019.

6 F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 88.

7 Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883 – 1920, Mondadori, Milano 2018.

8 Cfr. S. Visconti, L’educazione rivoluzionaria di un Romagnolo in Svizzera, in, E. Gentile, S. M. Di Scala, Mussolini socialista, Laterza, Roma – Bari 2015.

8 Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883 – 1920.

[1]0 Ivi, cit. pag. 322.

Bibliografia

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De Felice R., 2016, Breve storia del Fascismo, Milano, Mondadori.

De Felice R., 2018, Intervista sul Fascismo, Bari – Roma, Laterza.

De Felice R., 2018, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, in Mussolini e il Fascismo Vol. I, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2018, La conquista del potere 1921-1925, in Mussolini e il Fascismo Vol. II, Milano, Mondadori.

De Felice R., 2018, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, in Mussolini e il Fascismo Vol. III, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2018, Gli anni del consenso 1929-1936, in Mussolini e il Fascismo Vol. IV, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, Lo Stato totalitario 1936-1940, in Mussolini e il Fascismo Vol. V, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, Dalla guerra <<breve>> alla guerra lunga 1940-1943, in Mussolini e il Fascismo Vol. VI, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, Crisi e agonia del regime 1940-1943, in Mussolini e il Fascismo Vol. VII, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, La guerra civile 1943-1945, in Mussolini e il Fascismo Vol. VIII, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, Autobiografia del Fascismo. Antologia dei testi fascisti 1919-1945, in Mussolini e il Fascismo Vol. IX, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

De Felice R., 2019, Storia degli ebrei italiani sotto il Fascismo, in Mussolini e il Fascismo Vol. X, Milano, Mondadori, su licenza di Einaudi.

Filippi F., 2019, Mussolini ha fatto anche cose buone, Torino, Bollati Boringhieri.

Gentile E., 1996, Le origini dell’ideologia fascista, Bologna, il Mulino.

Gentile E., 2002, Fascismo. Storia e interpretazione, Bari – Roma, Laterza.

Gentile E., Di Scala S. M., 2015, Mussolini socialista, Bari – Roma, Laterza.

Gentile E., 2014, In Italia ai tempi di Mussolini, Milano, Mondadori.

Gentile E., 2018, La via italiana al totalitarismo, Roma, Carocci.

Gentile E., 2019, Chi è fascista, Bari – Roma, Laterza.

Nichols T., 2019, La conoscenza e i suoi nemici, Roma, La Repubblica.

Umberto E., 2018, Il Fascismo eterno, Milano, La Nave di Teseo.


[1] Cfr. F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, Torino 2019.

[2] F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 11.

[3] Cfr. T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, La Repubblica, Roma 2019.

[4] F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 5. Filippi si riferisce all’opera di Umberto Eco, Il Fascismo eterno, La Nave di Teseo, Milano 2018.

[5] Cfr. E. Gentile, Chi è fascista, Laterza, Bari – Roma 2019.

[6] F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, cit. pag. 88.

[7] Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883 – 1920, Mondadori, Milano 2018.

[8] Cfr. S. Visconti, L’educazione rivoluzionaria di un Romagnolo in Svizzera, in, E. Gentile, S. M. Di Scala, Mussolini socialista, Laterza, Roma – Bari 2015.

[9] Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883 – 1920.

[10] Ivi, cit. pag. 322.


IL CORPO, UNA COSTRUZIONE SOCIALE

Recentemente abbiamo assistito a numerosi dibattiti che hanno come protagonista il corpo, in particolare il corpo delle donne, facendo riferimento principalmente alle donne dello spettacolo e del mondo della moda.

<<== dott.ssa Alessia Maria Lamberti

Citiamo ad esempio Armine Harutyunyan, modella di origini armene di 23 anni, che ha sfilato per Gucci durante la Paris Fashion Week del settembre 2019. Il suo aspetto rispecchia canoni estetici nettamente diversi rispetto “l’ordinario”, ed è per questo che è stato oggetto di critiche e commenti sui social. Molti utenti, infatti, non hanno ritenuto la stessa abbastanza attraente come figura del mondo della moda : naso pronunciato e sopracciglia folte. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, motiva la sua scelta specificando la sua volontà di comunicare che  il concetto di bellezza deve andare aldilà di quel modello fisso che la moda ha imposto per un lungo periodo di tempo; coerentemente, infatti, lo stesso si è fatto promotore, attraverso i suoi vestiti, di un messaggio di inclusione, che sia di sesso, genere, età, origine, ma anche di pluralità dei canoni estetici.  Potremmo parlare, ancora, della copertina di Vanity Fair del settembre scorso, che ritrae Vanessa Incontrada senza veli con accanto la frase “ Nessuno mi può giudicare”. L’attrice è stata spesso protagonista di discorsi riguardanti il proprio corpo, l’importanza di accettarsi fisicamente, di non sentirsi diversi, di non dover necessariamente entrare nelle taglie standard imposte dal mondo della moda o dello spettacolo. Queste le sue parole, che promuovono una nuova “filosofia del corpo”, durante la trasmissione televisiva Vent’anni che siamo italiani, su Rai Uno, l’autunno scorso : ‘ La perfezione non esiste. So che non dico una grande novità, ma io lo voglio dire, lo voglio gridare e lo voglio urlare: la perfezione non esiste’.

Ma cosa dice la sociologia a tal proposito, quali sono le prospettive sociologiche circa la visione e il significato del corpo?

Secondo alcuni studiosi, il corpo della sociologia ha rappresentato una “ presenza assente”; assente in quanto raramente oggetto di tematizzazioni, ma presente in quanto elemento sotterraneo  alla base di tutti i processi sociali. La ricerca antropologica, sin dalle origini, ha considerato il corpo  come un oggetto d’analisi; Marcell Mauss, ad esempio, parla di tecniche del corpo, per indicare i modi in cui gli uomini, delle diverse società, si servono, uniformandosi alla loro tradizione, del corpo. Il corpo, quindi, viene considerato un Habitus, che non varia secondo scelte individuali, quanto secondo le caratteristiche strutturali della società. Mary Douglas approfondisce il tema del corpo come simbolismo sociale, incentrando il suo discorso su una tesi secondo cui  il corpo sociale determina il modo di percepire e fare esperienza del corpo fisico, il quale a sua volta riproduce i poteri e i pericoli della società. Quindi, sostanzialmente, sono fattori socioculturali a promuovere l’affermarsi o meno di un determinato utilizzo del corpo e di un suo significato simbolico. In quest’ottica, quanto più una società o un gruppo sociale, sono  rigidamente strutturati, tanto più sarà predefinita la possibile varietà di espressioni corporee.

Un altro autore di fondamentale importanza, in questo campo, è Bourdieu, il quale afferma che il corpo è il luogo di esercizio privilegiato della forza simbolica: una forma di potere che si esercita, come per magia, senza costrizione fisica.  Il corpo appare determinato socialmente ad un duplice livello: nelle sue dimensioni, facendo riferimento alle condizioni sociali di produzione, e nel modo di percepirlo, perché le sue proprietà sono determinate dalla posizione occupata nello spazio sociale. Il corpo, è principio di individuazione, in quanto localizza l’individuo nel tempo e nello spazio, e principio di collettivizzazione, in quanto habitus che inserisce il soggetto nella storia.  Il risultato è l’agire del soggetto volto ad atteggiare ed utilizzare il proprio corpo volendo mantenere armonia con l’ambiente esterno.

Il corpo, però, può rappresentare anche  un luogo di resistenza e di elaborazione di contro definizioni della realtà e delle identità. Il corpo come luogo del desiderio assume quindi il significato di risorsa identitaria in cui rielaborare il proprio progetto biografico in modo indipendente, se non in rottura, rispetto alle norme e aspettative sociali dominanti: il corpo viene riconosciuto come luogo prioritario di esercizio della soggettività, come testimonia i diffondersi di pratiche collettive e di nuovi usi corporei.
Nella società contemporanea si assiste, quindi, ad una riscoperta del corpo, che comporta una costante tensione tra controllo e de controllo, ascetismo e consumo, razionalità ed emozioni.
Nel concludere questo articolo, vorrei citare le forme di violenza associate anche ai due avvenimenti riportati nell’apertura dello stesso articolo, quale in particolare il bodyshaming, che accentua la visione di una “ costruzione sociale del corpo”, allontanando la dimensione emotiva, individuale e soggettiva. Vorrei lasciarvi con una semplice ma riflessiva domanda: considerando che la società contemporanea, viene definita società complessa; considerando che una società complessa presuppone differenze, multidimensionalità, multiculturalità, come mai ancora assistiamo a fenomeni di violenza psicologica con oggetto la forma, la scelta di mostrare e di utilizzare il proprio corpo?

Dottoressa-Sociologa, Alessia Maria Lamberti


LA PROFESSIONE DEL SOCIOLOGO: UNA PROVOCAZIONE SEMISERIA

La storia della professionalità sociologica assomiglia a quella di un ‘malato’ cronico – per gli iettatori, forse già in vicino al decesso – a favore del quale tante sono state le occasioni di anamnesi della sua condizione, senza mai arrivare ad una compiuta diagnosi e, quindi, a delle valide ‘indicazioni terapeutiche’ per uscire da una pericolosa situazione di impasse.

<< ==Prof. Everardo Minardi

E’ paradossale che proprio chi lavora con e sulle relazioni umane si sia dimostrato incapace di cogliere il nuovo, ovvero la parte sana del ‘malato’ costituita dalle esperienze professionali di coloro – non accademici – hanno dato nuova vita alla conoscenza sociologica consentendole di fecondare il fertile terreno della propria quotidianità lavorativa, nel mentre proprio quella conoscenza si rivelava utile o quanto meno orientante l’azione professionale volta alla risoluzione di problemi pratici. Problemi sociali e significativi, quindi, ricchi di senso per le persone e per i gruppi umani osservati e a favore dei quali il sociologo professionista opera.

L’impermeabilità del mondo accademico (purtroppo ancora l’unico – in mancanza di una riconosciuta e aggregante comunità tra pari di tipo professionale – soggetto dotato di nominale autorevolezza per sollecitare un cambiamento istituzionale) è stata ed è tuttora tale che non sarebbe affatto sbagliato parlare di un tipo di errore decisionale identificato con il termine di avversione alla perdita.

A tal riguardo, le scienze cognitive ci dicono che commettiamo questo errore perché rinunciare a qualcosa di apparentemente vantaggioso per un vantaggio futuro soltanto ipotetico, lo consideriamo irrazionale. Il vantaggio (facoltà e cattedre di discipline sociologiche ancora in essere, qualche iscritto ai Corsi di Laurea ancora attivi nel Paese) sembra superare lo svantaggio (messa in discussione dei confini disciplinari, dilatazione della concezione di professionalità sociologica non sono in senso accademico, perdita di una presunta ‘purezza’ disciplinare, ecc.). Un’inadeguata valutazione dei vantaggi e degli svantaggi non consente ancora di superare i meccanismi automatici di avversione alla perdita, pericolosamente ostacolando la percezione dell’urgenza della condizione del nostro ‘malato’. Eppure, non sono mancate delle occasioni significative di presa di coscienza.

Nel 2012 presso l’Università degli Studi di Trento, infatti, in occasione del cinquantesimo anniversario della rinomata Facoltà di Sociologia si tenne un convegno organizzato dall’A.I.S. dal titolo “Sociologia, professioni e mondo del lavoro”. Un evento, come ci riferisce Annamaria Perino “orientato a riflettere sul ruolo della sociologia e del sociologo nella attuale società, che ha visto la partecipazione di oltre 150 persone provenienti da tutta Italia e si è articolato in quattro differenti sessioni”. Dal convegno sarebbero dovute emergere “prospettive interessanti che, se opportunamente utilizzate, (porrebbero) contribuire a far riconoscere lo status del sociologo e a meglio indirizzare la formazione, in stretta connessione con il mondo del lavoro” (2012).

Anche nel 2012, l’anamnesi fu abbastanza limpida. Affidandoci alle parole della Perino, abbiamo conferma che, attualmente, “quella del sociologo appare come una professione evanescente, dai contorni poco definiti (si sa che il sociologo si occupa della società ma non si sa esattamente cosa faccia per essa), tant’è che non è raro che esso venga confuso con altri professionisti (lo psicologo, ad esempio). Il mancato riconoscimento della sua identità professionale porta, spesso, a rendere invisibile il sociologo; non giocano a suo favore neanche i pregiudizi e gli attacchi che giungono da parte dell’opinione pubblica.

L’offerta formativa destinata ai sociologi risulta essere, al contempo, molto diversificata e troppo generalista. La laurea in sociologia non sembra garantire lo svolgimento di una professione specifica e, raramente, crea collegamenti con il mondo del lavoro; l’Università non orienta gli studenti agli sbocchi occupazionali, non riesce ad indicare loro quali sono i settori sui quali è opportuno investire. Si sottolinea, altresì, la necessità di attribuire nuovamente importanza alla base metodologica; la formazione dovrebbe orientare alla comprensione dei problemi e alla ricerca delle possibili risposte.

Alla luce di quanto esposto (mancato riconoscimento del ruolo professionale, indebolimento della formazione, scarsa comunicazione tra Università e imprese) appare chiaro che il mercato del lavoro possa riservare solo piccole nicchie alla professione sociologica (pubblica amministrazione, sanità, ricerca, servizi sociali) e che sia, pertanto, necessario, da una parte, potenziare il dialogo tra Università e mondo del lavoro (al fine di comprendere quali sono le necessità di quest’ultimo, senza tuttavia affannarsi a rincorrerlo) e, dall’altra, valorizzare ciò che di positivo c’è, senza farsi eccessive illusioni circa l’espansione della professione. (…)

I processi di modernizzazione del lavoro e i cambiamenti organizzativi che stanno caratterizzando sia l’ambito pubblico sia quello privato portano inevitabilmente a ricollocare i diversi professionisti, chiedendo loro di lavorare in un’ottica interdisciplinare, talvolta cedendo ad ibridazioni con altre professioni. Da più parti si richiama la concorrenza delle scienze economiche, evidenziando la difficoltà della sociologia ad essere al passo con i cambiamenti, di riuscire a leggere e denominare i fenomeni sociali” (ivi).

Incredibilmente, anche il predetto ‘nuovo’ – quella che abbiamo anche definito la ‘parte sana’ del malato – sembrava illuminare le coscienze se, a dispetto del “quadro d’insieme (che) non sembra attribuire un ruolo di spicco al sapere sociologico e al sociologo, non si può ignorare il fatto che i professionisti chiamati a raccontare la propria esperienza hanno portato una visione ottimistica, spesso sottolineando la gratificazione e la soddisfazione derivante dall’attività professionale svolta. Ciò che si lamenta è la scarsa collaborazione tra sociologia accademica e sociologia professionale; l’alleanza tra i due ambiti dovrebbe consentire e di riequilibrare il rapporto tra area teorica e area operativa del sapere sociologico e di costruire sinergie in grado di ridare vigore alla disciplina e alla professione” (ivi).

 Cosa ne è stato, poi, del richiamo a contribuire al miglioramento dell’immagine del sociologo e della Sociologia? Dell’auspicio a collaborare per promuovere l’individuazione di strategie, strumenti e modalità operative che permettano al sociologo di riconquistare il ruolo che dovrebbe essergli proprio? Non molto a quanto pare. L’università sembra essere ripiombata nella propria ‘patologica’ letargia (a parte qualche sporadico risveglio, come nel caso controverso dell’elaborazione della norma UNI) e le associazioni professionali si sono mosse finora in ordine sparso, confermando quella frammentarietà che fa eco a quanto già accade in altri contesti societari italiani. In linea generale, ancora desta poca curiosità il modo in cui i sociologi si adattano creativamente nel mondo del lavoro. Una mancanza grave, soprattutto, da parte dell’accademia se è vero che “chiedersi come lavorano i sociologi, quali sono i loro metodi e i loro obiettivi, come si confrontano con i loro pubblici, significa anche mettersi in grado di rispondere ai giovani che ci chiedono perché dovrebbero studiare la Sociologia e ai datori di lavoro che dovrebbero avvalersi delle loro prestazioni” (Luciano A., 2013:136-137).

            Dobbiamo allora arrenderci ad una ‘prognosi’ la quale, man mano che si susseguono le occasioni di anamnesi più o meno articolate di quelle espresse nel corso della prestigiosa sessione trentina, suona come una conferma del tragico e definito epilogo per il sociologo e la Sociologia? Noi del Laboratorio di Sociologia Pratica, Applicata e Clinica crediamo di no. Siamo coscienti che per evitare il ‘non detto’, che lascia spazio all’errore e ai bias cognitivi, sia necessario esplorare l’esperienza del nostro ‘malato’ attraverso una richiesta di narrazione – da qui la nostra campagna di ‘story-telling’ – che fornisca più materiale affinché il processo decisionale che dovrebbe consentire l’adozione di un’efficace ‘terapia’ sia all’altezza, per poter scongiurare che l’evitabile diventi inevitabile…

NEWSLETTER #8

giugno – settembre 2020
www.sociologiaclinica.it

Sociologiaonweb e il suo direttore ringraziano il prof. Minardi per l’autorizzazione a pubblicare l’interessantissimo editoriale.

Riferimenti

Luciano A., 2013, “Professione sociologo: c’è un futuro per i laureati in Sociologia?”, in Sociologia italiana, Associazione Italiana di Sociologia, n.1/2013, Egea, Milano;

Perino A., 2012, “La professione del sociologo. L’Ateneo ospita il convegno “Sociologia, professioni e mondo del lavoro” a 50 anni dalla fondazione della Facoltà di Sociologia,

https://periodicounitn.unitn.it/periodicounitn.unitn.it/132/la-professione-del-sociologo.html;

Perino A., Savonardo L., 2017, Sociologia, professioni e mondo del lavoro, Egea, Milano.


I GIOVANI NELLA SOCIETA’ SENZA PIU MORALE

I giovani dell’era digitale, i nativi digitali nella società di oggi, che si è evoluta forse rapidamente, vivendo cambiamenti profondi ma assistendo però all’altra faccia della medaglia, nera, “ ragazzi che violentano, uccidono” senza pietà, senza nessuna morale.

<<== dott. Antonio Russo

Una società disorientata dove i giovani trovano poco spazio, non hanno fiducia in loro stessi, non hanno autostima, le famiglie a volte sono assenti e, loro soffrono di questa indifferenza che li porta alla “ solitudine”, alla “ depressione”, a caratteri “introversi”, “chiusi nel loro io” che, poi sfociano nella violenza. Una società e, per società intendo anche la scuola, le famiglie hanno le loro colpe, perché i figli hanno bisogno di ascolto, di essere ascoltati , di essere accolti tra le braccia, essere aiutati perché oggi sono fragili, incerti ma soprattutto introversi pur vivendo una vita agiata.

Probabilmente anche la vita agiata ha contribuito alla loro non maturità. Una vita radicalmente cambiata grazie al miglioramento sia dal punto di vista sociale ma soprattutto da quello economico e, pertanto la colpa non è soltanto dei “nostri figli” ma anche nostra che siamo i loro “educatori”.Oggi, purtroppo i giovani non si preoccupano del loto futuro, a realizzare i loro sogni ma solo a divertirsi, a sentirsi adulti, non ad essere autonomi ma a 21 anni sentirsi “ adulti, padrone del mondo, invidiosi della vita degli altri”, il che vuol dire essere senza morale, irresponsabili delle proprie azioni.Purtroppo, l’ultimo grave episodio di sangue testimonia quanto testè’ enunciato, dove sono stati uccisi in Puglia, esattamente nella città di Lecce, senza alcuna pietà due giovani fidanzati che, a dire del loro omicida “ erano troppo felici ed era invidioso della loro felicità”, dimostrando propria la mancanza di moralità nei giovani di oggi e, il rispetto verso l’essere umano.

Un ragazzo di solo 21 anni che uccide per “invidia, certamente non appare un movente valido perché si può uccidere anche senza motivo. Eppur vero che secondo gli investigatori il ragazzo ha agito con “spietatezza e totale assenza di compassione e pietà verso il prossimo, indole violenta”.Per compiere tale gesto ci vuole sicuramente un ‘indifferenza per l’essere umano , che è la totale assenza dell’amore.

Questo episodio come quello accaduto settimane orsono a Roma, con l’omicidio del giovane Willy, dimostra l’aumento della delinquenza tra i giovani, che si sviluppa sul concetto di devianza, ovvero quell’insieme di comportamenti che si allontanano dalle norme civili, sociali, violandole per trasgredire, per far parte di un gruppo, per farsi notare, per “farsi belli” (linguaggio giovanile).E noi oggi non possiamo stare più a guardare ma dobbiamo intervenire da vicino per aiutare a risolvere questi “problemi” sociali e personali combattendo il dilagare ulteriore del fenomeno e, in tale ottica è fondamentale il ruolo delle famiglie, dei genitori che hanno il compito di educare, ascoltare (oggi poco propensi), controllare come la scuola che dovrà fare la sua parte.

Non è piu’ tempo di guardare ma di agire.

La figura del sociologo in questo delicato momento è fondamentale per contribuire, aiutare la società, i giovani a farli comprendere, aiutare, ascoltare a rimettere al centro i valori veri della vita, per far fronte alle loro difficoltà giovanili. L’indifferenza fa male e, i giovani lo percepiscono.

                                                                                        Dott. Antonio RUSSO


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