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Il Management delle relazioni come strumento di innovazione e sostenibilità sociale

di Simone Picariello

Ogni relazione umana è una relazione sociale, che si basa su sentimenti ma anche su passioni condivise, impegni sociali e professionali. Le relazioni che intercorrono tra individui nei sistemi territoriali orientano reciprocamente le loro azioni.

<<== Prof. Simone Picariello

Le relazioni sociali hanno luogo in ogni contesto umano: dai rapporti di amicizia, alla famiglia a qualsiasi forma di aggregazione umana più complessa. E’ possibile individuare due principali tipi di relazioni: quelle cooperative e quelle conflittuali. Le prime, orientano l’azione verso il conseguimento di uno scopo comune e sono caratterizzate dall’apertura verso l’altro, percepito come alleato. Queste relazioni sono in genere di lunga durata, hanno intensità e ripetitività nel tempo. Creano capitale sociale[1] e possono produrre sviluppo territoriale.

Nelle relazioni conflittuali, le azioni sono orientate verso il tentativo di affermare la propria volontà, le proprie opinioni o di accaparrarsi risorse scarse e limitate a dispetto di altri attori sociali. Tali relazioni riducono il capitale sociale creando condizioni di stallo territoriale. Nella dimensione astratta, la relazione è intesa in due modi: relazione come “riferimento a” (refero) e relazione come “legame tra” (religio). Secondo la Sociologia relazionale di Pierpaolo Donati[2], entrambi questi due aspetti relazionali (Refero e Religio) entrano nel fenomeno sociale, anzi sono parte della stessa costruzione simbolica e strutturale. Di conseguenza la relazione sociale è il tramite che unisce l’azione sociale, nella sua componente soggettività e intersoggettività, al sistema sociale, corrispondente alla struttura oggettiva e oggettivata.

La relazione sociale deve essere concepita non come una realtà accidentale, secondaria o derivata da altre entità (individui o sistemi), bensì come realtà propria. Lo studio delle dinamiche delle relazioni all’interno dei Sistemi Sociale è fondamentale per la sopravvivenza stessa delle organizzazioni. Il punto chiave è la complessità e la loro gestione, a fronte di tutti gli input esterni che richiedono di cooperare sul piano territoriale.

Le relazioni che si svolgono oggi nei Sistemi sono sempre più complesse. Tale circostanza richiede ulteriori strumenti interpretativi, capacità necessarie per decodificare una situazione e adatte a comprendere il Sistema in cui si vive. Saper conoscere, ma soprattutto saper ridurre la complessità, come ci insegna Niklas Luhmann[3], è indispensabile per mettere in relazione se stesso con gli altri membri sia nel proprio ambiente che con sistemi ed organizzazioni esterne. Tradurre una situazione indecifrabile in una più semplice attraverso il senso[4],  significa saper mediare e quindi negoziare. Tutto ciò per gli attori sociali coinvolti nelle organizzazioni, piccole e grandi che siano, è di fondamentale importanza. La capacità di negoziazione, necessaria per raggiungere obiettivi condivisi e generare benessere sociale sul territorio, diventa un architrave di sopravvivenza per le stesse organizzazioni, che sono parte dei contesti. Il problema resta l’intenzione e la volontà di scegliere di cooperare con altri enti, avendo come fine il benessere territoriale.

La domanda di fondo è come favorire l’attivazione di processi fiduciari e di cooperazione sul piano locale, da poter incrementare la conoscenza e la capacità di gestire processi relazionali con e tra gli enti? La risposta sta nel creare processi di management delle relazioni sociali, tali da implementare lo sviluppo territoriale. Studi recenti, hanno mostrato che la cooperazione ben riuscita genera innovazione e benessere sociale e che il management delle relazioni sia uno strumento efficacie in questa direzione. Il management delle relazioni tra gli enti territoriali costruisce strumenti necessari a svolgere in modo responsabile, consapevole ed efficace incarichi di leadership territoriale, tali da produrre innovazione, sostenibilità sociale e cambiamento sociale.

Per comprendere meglio tale circostanza, possiamo evocare l’Immagine di un bivio, che può portare a scelte di diversi strumenti operativi. Un pezzo di strada è comune: le relazioni fra PA ed Enti di Terzo Settore sono ispirate ai principi di perseguimento dell’interesse pubblico, di efficacia, di trasparenza, di parità di trattamento e più in generale, di buon andamento della PA, come recita l’articolo 97 della Costituzione. Ma di lì in avanti, si aprono due strade diverse e alternative rispetto a come Enti Pubblici e terzo settore possono relazionarsi.

Da un lato, abbiamo il paradigma competitivo, ovvero l’affidamento di servizi verso un fornitore e quindi una competizione tra soggetti tra loro concorrenti. Il percorso è sicuramente quello dell’affidamento attraverso una gara di appalto o concessione. Dall’altro lato, abbiamo il paradigma collaborativo in base alla legge 241/90[5], che include negli orientamenti delle politiche pubbliche le risorse del territorio. Ciò significa dare vita ad un lavoro comune tra Enti Pubblici e enti di terzo settore per condividere la lettura dei bisogni, definire gli obiettivi, elaborare la programmazione degli interventi, individuare le risorse necessarie, per giungere quindi alla progettazione e infine alla realizzazione dei concreti interventi da attivare.

Quanto sopra descritto, rappresenta lo scenario generale ma, attualmente nella pratica quotidiana succede che emergono due fenomeni seppur diversi tra di loro  sono concatenati:

Il primo è la co-progettazione, negli ultimi anni il numero di territori che hanno iniziato ad utilizzare procedimenti di tipo collaborativo è aumentato. Questo avviene perché, oltre all’influenza delle novità legislative (Legge 328/00 e successive leggi di implementazioni regionali – in Campania l.r. 11/07, la riforma del Terzo settore, ecc.), ci sono diverse motivazioni che riguardano le dinamiche culturali e sociali.

Il secondo è la collaborazione, la quale nasce spesso come frutto di un’iniziativa assunta o comunque voluta dalla pubblica amministrazione. In passato, il terzo settore rivendicava una maggior considerazione verso un ente pubblico riluttante. Gli elementi che caratterizzano la collaborazione sono, il condividere analisi e soluzioni. La lettura del bisogno, del contesto e la definizione delle modalità di intervento, non sono operati da un singolo soggetto (generalmente dalla pubblica amministrazione istituzionalmente responsabile), ma sono frutto di uno sforzo congiunto di più soggetti che si contaminano vicendevolmente con le proprie visioni e sensibilità. La collaborazione porta a innovazione sociale e corresponsabilità sui servizi e sul reperimento delle risorse per realizzarli, tra Ente pubblico e Terzo settore. Cosa ancor più importante, è che la collaborazione si traduce in  costruzione di capitale sociale che diventa un patrimonio di relazioni, di legami, di fiducia, che sperimentati in un certo ambito, risultano preziosi in una pluralità di altre situazioni. Modelli di management delle relazioni portano sicuramente ad una maggiore propensione a fare sistema, con gli attori presenti su determinato contesto territoriali.


[1] Il sociologo francese Bourdieu ha definito il capitale sociale come «la somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento”

[2] La tesi di Donati è che la sociologia, in quanto disciplina teorico-pratica, dovrebbe connettere fra loro i diversi paradigmi sociologici e pervenire così a modalità più profonde e meno riduttive di comprensione e spiegazione del mondo socio-relazionale umano.

[3] Per Luhmann la complessità è data dalla numerosità dei sistemi in cui si articola la società. Ogni sistema è autopoietico e autoreferenziale, ognuno si differenzia al suo interno in sottosistemi, dotati di un proprio codice comunicativo, che generano difficoltà relazionali.

[4] La complessità viene affrontata da Luhmann, attraverso il concetto di senso,  per ridurre la complessità sono introdotte diverse proposte e scelte ideate in modo tale che quando si sceglie una strada da seguire occorre anche tenere sempre presente tutte le altre possibilità.

[5] La legge 241/1990 che regola il procedimento amministrativo ha trasformato il rapporto tra cittadini e Pubblica Amministrazione. Il  procedimento amministrativo, definisce l’azione della Pubblica Amministrazione, vincolandola al rispetto di alcune regole fondamentali nel perseguimento del pubblico interesse.


Sentirsi invisibili. Storie di vita:indagine qualitativa sulla disabilità ai tempi del Covid

Indagine qualitativa sulla disabilità ai tempi del Covid. Dell’Associazione Sociologi Italiani e di Cittadinanzattiva Campania

L’epidemia Covid-19, tuttora in atto, è certamente uno degli eventi più impattanti che hanno segnato gli ultimi mesi. Il confinamento sociale ha modificato i ritmi e le abitudini quotidiane, le modalità relazionali, i pensieri e le emozioni. La decelerazione sociale , come direbbe il sociologo tedesco Hartmut Rosa, ha impattato sul singolo e sulle famiglie soprattutto su quelle più vulnerabili. Il mondo esterno è stato accessibile solo attraverso i dispositivi digitali che ci hanno consentito di mantenere vive le nostre attività e le nostre relazioni.

La digitalizzazione della realtà quotidiana ha interessato anche il mondo dell’istruzione e il sistema educativo impattando in maniera piuttosto pesante su alcun categorie più vulnerabili in particolare i malati cronici e rari e i minori disabili.

<< == dott./ssa Daniela Petrone

Da questa consapevolezza nasce questo lavoro che ha voluto  recuperare i vissuti, le emozioni, le storie di vita che si sono verificate durante il periodo di quarantena e che sostanzialmente si perdono nelle analisi quantitative che sono state svolte fino ad oggi, poiché ci si è focalizzati principalmente sui numeri, rischiando di dare meno importanza al vissuto umano e personale delle famiglie con bambini e ragazzi con difficoltà, che hanno impattato con una nuova realtà a cui non eravamo preparati.

Qual è stato, dunque, l’impatto di queste misure restrittive inaspettate?

Cos’ha rappresentato la quarantena per i minori disabili?

E per le loro famiglie?

dott.ssa Maria Libera Falzarano ===>>

Dai racconti delle famiglie intervistate emerge chiaramente che ad essere maggiormente coinvolte sono le mamme che si sono fatte carico di tutte le problematiche. Si sono ritrovate a gestire le attività del figlio, da quelle scolastiche a quelle quotidiane, in gran parte dei casi senza alcun tipo di supporto esterno. Molte famiglie si sono sentite sole, abbandonate. Nella maggior parte dei casi le famiglie non sono state supportate dai professionisti che avevano in carico i propri figli, nel mantenere la routine quotidiana importante per i minori con disabilità. La situazione è stata ancor più di difficile gestione laddove vivono persone con patologie croniche o rare con risvolti ancor più critici quando i disabili sono minori.

Ma anche una maggiore consapevolezza del ruolo genitoriale.

La quarantena ha anche aiutato i genitori ad una maggiore e nuova consapevolezza del loro ruolo. Un agire positivo in una situazione difficile che ha rafforzato i legami familiari. Per molti è migliorata la relazione con i propri figli. La possibilità di dedicare loro maggiore tempo ha consentito di fare cose che in tempi normali non erano possibili e di avere una maggiore consapevolezza non solo dei limiti ma anche delle risorse dei propri figli.

E la Dad?  Quali conseguenze ha avuto per le famiglie appartenenti alle fasce più fragili?

<< === dott. Lorenzo Latella

L’impatto dell’epidemia e il conseguente lockdown in ambito scolastico ed educativo è stato piuttosto pesante soprattutto per le categorie più fragili. Le abitudini di molte famiglie sono cambiate profondamente, con un impatto inevitabile sul vissuto emotivo di tutti i loro componenti. Le scuole hanno chiuso ed hanno dovuto reinventarsi un nuovo modo di fare didattica che, sebbene in alcuni contesti sia stata innovativa, ha acuito enormemente le disuguaglianze sociali ed educative lasciando soli ed escluse intere categorie di vulnerabili come i malati rari e i disabili. Un modo di fare didattica che si è rivelato, nella maggior parte dei casi, fallimentare ed inadeguato a soddisfare le esigenze formative soprattutto degli alunni disabili per i quali, oltre alle strategie didattiche personalizzate sono indispensabili la vicinanza delle figure di riferimento quali insegnanti di sostegno ed educatori.

La socialità ai tempi del Covid

Come recentemente ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: Oggi il mondo della scuola, a causa delle restrizioni protettive messe in atto per far fronte al rischio di contagio da Covid-19, fatica particolarmente a mantenere integra la sua peculiarità di luogo dell’arricchimento della vita socio-relazionale in seno alla dimensione formativa. L’impossibilità della didattica on-line di potere garantire dimensioni quali la relazione e la socializzazione, lo scambio di idee ed emozioni, la condivisioni di rituali tipici di una giornata scolastica, quali il suono della campanella che scandisce gli intervalli temporali, il momento della ricreazione, l’uscita dai cancelli etc., che sanciscono veri e propri momenti di condivisione e che fondano la didattica classica all’interno degli istituti scolastici, arricchendo i vissuti e contribuendo alla crescita dei giovani ed al loro senso di appartenenza comunitaria” .

La didattica a distanza ha impoverito la socialità e l’interazione, il mancato contatto sociale ha accentuato le problematiche comportamentali ed emotive, ha azzerato la componente emozionale fondamentale nel rapporto educativo e nel processo di apprendimento. La situazione è certamente più critica per gli alunni con disabilità, per i quali la relazione e il contatto sono fondamentali per il processo di crescita e per favorire l’inclusione.      

E l’ambito sanitario?

La pandemia di Covid -19 ha profondamente modificato l’organizzazione dei singoli Servizi Sanitari Regionali che hanno dovuto, in molti casi, fare in conti con criticità già esistenti e che sono diventate ancora più profonde, sottoponendo l’intero sistema ad uno stress mai registrato prima e per il quale il Paese Italia non era adeguatamente preparato. Si è registrata una diffusa difficoltà di mantenimento dei piani terapeutici, soprattutto rispetto alla riabilitazione e l’assenza, in una prima fase, della possibilità di DPC (Distribuzione Per Conto) ha causato uno stop nel processo di erogazione dei farmaci a somministrazione ospedaliera. Anche in questo caso a farne le spese sono stati in particolare i pazienti cronici, rari e disabili. All’interno di queste categorie è stato particolarmente problematico il rapporto tra pazienti minori disabili e servizio sanitario. L’indagine qualitativa condotta ci ha permesso di entrare nel vissuto delle famiglie che vivono quotidianamente, oltre il Covid, situazioni di fragilità che necessitano un impegno individuale e familiare profondo tale da modificare, spesso, l’assetto delle comuni relazioni sociali.

Particolarmente rilevanti sono i racconti sulla difficoltà di accedere alle opportunità della Dad. Gli studenti con disabilità hanno sofferto maggiormente il distanziamento sociale e le modalità di insegnamento telematico perché queste non sono state pensate e costruite tenendo conto delle particolari necessità nel percorso di apprendimento. Le limitazioni di relazioni sociali hanno, inoltre, impattato fortemente sulla sfera emotiva dei soggetti fragili, scaricando tutto l’onere della gestione alle famiglie e in particolar modo sulle mamme.

La sfida alla quale ci sta sottoponendo l’emergenza pandemica è ampia e complessa e necessita di soluzioni altrettanto strutturate, in grado di dare risposte di sistema alle domande di salute, di educazione e sostegno sociale che arrivano dalle famiglie dei soggetti fragili.È questo l’obiettivo al quale dobbiamo tendere. Se affronteremo organicamente le sfide che il Covid ci sta ponendo e saremo in grado di modernizzare tutta la nostra società allora avremo alla fine vinto anche la sfida delle opportunità che le crisi portano con sé.

La ricerca è stata curata da:

Daniela Petrone – Sociologa Dirigente Associazione Sociologi Italiani (ASI)

Maria Libera Falzarano Sociologa – Presidente Deputazione Asi Campania

Lorenzo Latella – Segretario Regionale di Cittadinanzattiva Campania e sociologo ASI


L come lavoro. Un precario di nome Ferdinand

di Patrizio Paolinelli

Ognuno ha i suoi motivi per amare Céline. I miei sono essenzialmente due: la sua visceralità e la sua attualità. La visceralità alberga nell’inimitabile scrittura dell’autore del Voyage. L’attualità nella sua guerra contro gli effetti deleteri della modernità.

<< === Prof. Patrizio Paolinelli

Ognuno ha i suoi motivi per amare Céline. I miei sono essenzialmente due: la sua visceralità e la sua attualità. La visceralità alberga nell’inimitabile scrittura dell’autore del Voyage. L’attualità nella sua guerra contro gli effetti deleteri della modernità. I due motivi non si escludono l’uno con l’altro. Al contrario, è la loro integrazione che rafforza il rifiuto del mondo così com’è. La forma politica di tale rifiuto assume in Céline contorni drammatici a causa della sua adesione al nazismo. Eppure, all’apparire del Voyage e di Morte a credito, Céline riesce a scuotere qualsiasi lettore indipendentemente dall’appartenenza ideologica. Successivamente, persino i libelli antisemiti e anticomunisti – pieni zeppi di pregiudizi e luoghi comuni tipici del piccolo-borghese arrabbiato – contengono pagine di autentica poesia a cui difficilmente si può restare insensibili. Infine, nel secondo dopoguerra Céline punta tutto sullo stile letterario e battezza la prosa dei suoi ultimi romanzi “petite musique”. In tutti questi passaggi la scrittura céliniana muove da una profonda istanza di verità (anche quando distorce i fatti).

E la declinazione che assume tale ricerca è la denuncia. Sono molte le denunce di Céline nei confronti del mondo moderno: contro la guerra, il colonialismo, la fabbrica, l’alienazione, la miseria, la metropoli, le periferie. Una delle più attuali riguarda il lavoro. Meglio: la mancanza di lavoro. A questa mancanza  – e a tutto ciò che ne deriva in termini di ingiustizia e sofferenza – Céline ha dedicato numerose pagine sia nel Voyage (dove il protagonista, appena approdato sulla costa degli Stati Uniti, è reclutato come contapulci degli immigrati in attesa di smistamento), sia in Morte a credito (dove, mutatis mutandis, sembra di leggere storie tipiche del giovane disoccupato e del precario dei nostri tempi).

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Nonna Caroline è sul letto di morte. Il piccolo Ferdinand è sollecitato dai genitori ad abbracciarla per l’ultima volta. Ma lei dice di no e chiede al ragazzo di avvicinarsi. <“Lavora bene Nanduccio mio!” mi bisbigliò in un soffio… Io mica avevo paura, di lei… In fondo, ce l’intendevamo… E del resto, stringi stringi, è vero, ho ben lavorato… Ma questo non interessa nessuno…> (Morte a…, p. 83). E’ il Ferdinand di Morte a credito che sta narrando. Céline, come al solito, depista il lettore e il lavoro costituisce in realtà un tema rilevante della sua produzione letteraria. Tema trascurato dalla critica. Tema esasperato dallo stesso Céline, che finisce per confondere il romanzo con la realtà. E seppure quanto scrive di sé  – come ragazzo di bottega, commesso di gioielleria, gerente di una piantagione in Cameroun, medico delle banlieue – non corrisponde fedelmente alla propria biografia, ciò non toglie che quanto Céline racconta non sia realmente accaduto a una massa sterminata di esseri umani divorati dalla seconda industrializzazione.

E oggi che ci troviamo nel ciclone della terza? Oggi leggiamo in quelle pagine scritte negli anni ’30 del Novecento il nostro presente. In che termini? In termini di precarietà diffusa, alti tassi di sfruttamento, negazione di diritti fondamentali, paghe basse, costante aumento della povertà. Nonostante la modernità sia tornata a presentarsi col suo volto più arcaico (ma con un nome nuovo: globalizzazione), circa ventisei milioni di europei sono oggi alla ricerca di un’occupazione, sia quel che sia. E’ comprensibile: in Occidente è sul lavoro che si fonda l’identità degli individui. Pertanto, quando il lavoro non c’è, si preferisce patire le pene dell’inferno anziché farla finita con un gioco sociale che non funziona. Come Ferdinand, l’attuale disoccupato ripiega nell’arte di arrangiarsi, brancola tra mille delusioni nell’affannosa ricerca di un posto, accetta la sottoccupazione come destino e finché può si appoggia sulla famiglia. Allo stesso tempo genitori (occupati) e figli (disoccupati) si trovano gli uni contro gli altri ed entrambi guardano in cagnesco gli immigrati.

Per uscire da questo circolo vizioso occorrerebbe un collettivo sforzo di fantasia e inventare un nuovo gioco sociale in grado di riorganizzare la vita quotidiana a partire da una realtà: la fine della centralità del lavoro. C’è poco da mangiare a casa del piccolo Ferdinand. Si impegnano i gioielli di famiglia al Monte di Pietà e si risparmia persino sui fiammiferi. Il padre, Auguste, prevede una fine tragica e imminente. Bisogna inventarsi qualcosa. La madre, Clémence, riavutasi dal dolore per la morte di Nonna Caroline, prende in mano la situazione: <Visto che le clienti non vengono più da noi, ebbene, Nanduccio mio, andremo noi a scovarle!… E fin nelle loro case!… Presto verrà la buona stagione, lasceremo per un po’ la bottega… Andremo a farci tutti i mercati, i dintorni… Chatou!… Vésinet!… Bougival!… dove ci sono bei villini che devono ancor essere arredati… tutta gente scicche… Sarà più divertente che star qui a basire!… Che aspettar qui per nulla!… Eppoi, prenderai così una boccata d’aria!> (Morte a…, p. 86). Cosa vendono madre e figlio nei paesotti della campagna parigina? Gli stessi lavori di cucito che espongono a Parigi nella vetrina del negozio al Passage des Bérésinas: trine, boleri, pizzi, fini creazioni. Ma non funziona. Per di più Ferdinand si caccia nei guai per una ragazzata combinata insieme a un altro monello che lavora al mercato delle pulci. La famiglia fa retromarcia: niente più uscite fuori dal Passage. Ferdinand rientra a scuola, ma i creditori bussano alla porta e in casa c’è poco da mangiare. Non resta altra strada: ritentare coi mercati. Ma più lontano stavolta, lontano da Parigi. Auguste, modesto impiegato in un’agenzia di assicurazioni, la Coccinella-Incendi, per la prima volta in dieci anni ha ottenuto quindici giorni di ferie (per di più pagate).

E’ estate, Clémence tira giù la saracinesca del negozio e insieme a Ferdinand parte alla volta di Dieppe (Auguste li raggiungerà più tardi). L’esposizione in Piazza Grande di fanfaluche, trine e fronzoli si rivela difficilmente gestibile a causa del vento. Il rischio di venir derubati è altissimo. Che fare? Non resta che la vendita a domicilio trascinandosi dietro l’intero campionario. Dalla strada madre e figlio spiano i potenziali clienti dentro i loro villini e al momento opportuno (di solito dopo pranzo e dopo cena) Clémence suona il campanello. Ferdinand resta fuori ad aspettare. Qualcosa si riesce a piazzare, ma non basta. I costi di permanenza a Dieppe superano i ricavi. La mamma inizia a vendere merletti in spiaggia.

Che differenza c’è tra la disperazione degli anni ’30 e quella di oggi? Sul piano qualitativo nessuna. Cambiano i nomi. Dalla “Grande Crisi” del ‘29 siamo passati all’attuale “Grande Recessione”. La crisi è sempre dietro l’angolo e lo spettro della disoccupazione non muore mai. Incubi che invadono l’esistenza del Ferdinand di Morte a credito. Con la differenza che a quei tempi le parole lottavano per possedere ancora un senso. Iniziavano a perderlo, è vero, e l’evento che segna l’inizio di questa perdita è la “Grande Guerra” con l’uso scientifico della propaganda politica e militare. Ma la visceralità della scrittura céliniana costituisce l’estremo e disperato tentativo di restituire un valore alle parole. Come? Tramite la narrazione di una sofferenza sociale che investe ogni aspetto della vita quotidiana. Ed ecco Ferdinand che ha faticosamente conseguito la licenza elementare. Dato che non è portato per gli studi è pronto per il lavoro. I suoi genitori pensano per lui a una carriera nel commercio. Gli trovano posto come commesso tirocinante dal signor Berlope, “Nastri e Guarnizioni”, in Rue de la Michodière. Ovviamente gratis. Il lavoro è duro: fare tutto il giorno la spola tra il negozio, al piano terra, e il magazzino, al settimo piano (niente ascensore). Ferdinand ce la mette tutta. Ma il suo diretto superiore, il signor

Lavelongue, lo prende di mira e semina zizzania tra Ferdinand e i suoi colleghi, altri ragazzini con un futuro da perdenti. Alla fine riesce a licenziarlo. Ferdinand è furioso per l’ingiustizia subita. E’ dalla rabbia, dal dolore e dalla paura del domani che le parole prendono fuoco: <L’odio vero, quello vien dal profondo, vien dalla giovinezza persa nello sgobbo senza difesa. Ohei, ma un odio da farti schiattare. Di così profondo ne avremo sempre tanto da restarne un po’ dovunque. Ne pioverà sulla terra quanto basta per avvelenarla, per innalzarsi molto al di sopra d’ogni carognata, fra dei morti, fra gli uomini> (Morte a…, p. 126).  La parola disoccupazione è entrata nell’uso comune nel ‘900, grazie ai cosiddetti datori di lavoro. Prima, nella nostra drammatica accezione, non esisteva. Insomma, è l’imprenditore che crea la figura del disoccupato. Gli serve: come monito nei confronti dei suoi dipendenti, come manodopera di riserva, per mantenere bassi salari e stipendi, per prolungare la giornata lavorativa e come formidabile mezzo di controllo sociale quando la disoccupazione si fa di massa, di lunga durata, strutturale e così via. Né più e né meno come nell’esperienza di Ferdinand in Morte a credito. Esperienzacollocata da Céline intorno al 1910.

Da allora ad oggi è passato un secolo e il ciclo della crisi si ripete senza fine con intervalli più o meno lunghi. Perciò nessuno si aspetti una reale inversione di tendenza. Senza via d’uscita dall’immaginario liberista e da una condizione materiale che non offre prospettive di riscatto cosa resta al giovane disoccupato di oggi? L’aspirazione di ieri: continuare a credere ciecamente nella fiaba del posto di lavoro. Non basta: deve crederci a tal punto da fare della ricerca di lavoro un lavoro (non retribuito, of course). Questo film d’attualità è già stato girato dal nostro Ferdinand cent’anni fa. Ecco che lo vediamo ancora una volta setacciare Parigi nell’angosciante ricerca di un padrone: <Tentai d’esser preso in considerazione da un rivenditore per le sagrestie… Tentai l’impossibile… Mi mostrai intrepido presso un grossista di pianete… Fui proprio lì lì per credere che m’avrebbero preso in una fabbrica di candelabri… Già mi pareva d’esserci… Arrivai a trovarli attraenti… Ma sul più bello tutto crollava! I dintorni di Saint-Sulpice, infine, mi delusero, e ben bene… Attraversavano pure quelli una crisi… Dappertutto, mi sono visto scacciato…>(Morte a…, p. 277).

Ferdinand emigra in Africa. Ma è un emigrante che lascia Parigi rincuorato dalla certezza del colono: un lavoro sicuro. Giovanissimo (per i nostri standard), Céline fa esperienza sia della guerra che del colonialismo. Il 27 ottobre 1914 è ferito a un braccio durante una missione militare nelle Fiandre. Dopo le cure, le decorazioni e la copertina dell’Illustré National dedicata alla sua eroica impresa è inviato a Londra all’Ufficio passaporti del Consolato francese. Pochi mesi dopo è riformato. Nel marzo del 1916 sbarca in Africa in cerca di fortuna: a 22 anni si ritrova a Bikomimbo (Cameroun) per gestire una piantagione di cacao nel bel mezzo della foresta tropicale. Come noto, è lo stesso itinerario del Ferdinand del Voyage. L’esperienza africana durerà poco.

Il paludismo lo costringerà presto a tornare sui suoi passi e tentare la fortuna in America. Tuttavia la realtà del colonialismo è rivelatrice dell’altra faccia della civiltà del lavoro. I commercianti <potevano rubare e prosperare più facilmente che in Europa. Non c’era più una noce di cocco, un’arachide che sfuggisse alle loro rapine> (Voyage…, p. 131). Insomma nelle colonie il diritto torna indietro di secoli. Ma non basta. Per saccheggiare un Paese sono necessarie le abilità dei funzionari dell’amministrazione coloniale e dei militari. Non che il sistema di potere sia compatto. Al contrario. Ma ciò che lo tiene unito è il diritto all’abuso. In particolare è del lavoro che si abusa. Quello dei nativi, amministrato a colpi di scudiscio, e quello dei poveri diavoli come Ferdinand, catapultati dalla miseria di casa propria al sogno di far fortuna in terre sconosciute. In continuità col passato coloniale ancor oggi resiste la stessa idea di sfruttamento di ogni risorsa, umana e non.

Finalmente l’America. Finalmente nella terra dove ognuno può costruirsi un futuro. Ma la mitologia del Paese delle opportunità si decompone rapidamente nell’animo di Ferdinand, che pure è sbarcato a New York con le migliori intenzioni. Lo intravediamo infreddolito aggirarsi per strade anonime battute dalla pioggia: <Non avevo nulla da temere. Nella strada ch’avevo scelta, veramente la più stretta di tutte, non più spessa di quanto l’è un ruscello da noi, e assai lurida in fondo, umida, piena di tenebre, c’erano già tante altre persone, piccole e grasse, che mi trascinavano con loro come un’ombra. Risalivano con me nella città, al lavoro senza dubbio, col muso in basso. Erano i poveri di dovunque> (Voyage…, p. 202). I poveri di dovunque e i poveri di sempre. I pendolari francesi di ieri e di oggi per esempio. Una massa di sconfitti vomitata quotidianamente da treni e métro. Una massa sempre più impaurita dall’instabilità economica pressoché perenne e dalla possibilità di perdere il posto di lavoro: <La lenta angoscia del licenziamento senza complimenti, minaccia che pende sui ritardatari (con un secco certificato) quando il padrone vorrà ridurre le spese generali. Ricordi di <<crisi>> a fior di pelle, dell’ultima volta che s’era senza impiego, di tutti gli Intransigeant che si son dovuti leggere, cinque soldi, cinque soldi… attese per cercar lavoro…

Quelle memorie che vi strangolano un uomo, per ben avvoltolato ch’egli possa essere nel suo cappotto <<di tutte le stagioni>> (Voyage…, p.252).Ferdinand si sposta verso strade più illuminate e meno tristi. Si ritrova a Manhattan ad ammirare di soppiatto le belle donne che guardano scintillanti vetrine. Inseguendo punti luminosi Ferdinand consola la sua solitudine al cinema. Ma è sempre più a corto di denaro e finisce per mangiare in refettori pubblici.  A un certo punto i soldi finiscono. Inizia la spasmodica ricerca di Lola, una crocerossina americana conosciuta a Parigi durante la guerra e con cui ha avuto una relazione. L’incontro non è dei migliori. Lei lo caccia da casa pistola alla mano, ma prima Ferdinand è riuscito a farsi dare cento dollari. Però è di nuovo in mezzo alla strada. Che fare? Cercar lavoro, come al solito. Lo trova. Nientemeno che alla Ford. Ed ecco Ferdinand in coda davanti al portone della fabbrica in attesa di un colloquio: <Pioveva sulla piccola folla. Le file si tenevano compresse sotto le grondaie. Sono facilmente comprimibili le persone che cercano lavoro. Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa.

<<Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare, – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!>> (Voyage…, p.235). Pochi mesi dopo Ferdinand torna a Parigi.  Finisce in periferia, a Rancy, e fa un altro mestiere: il medico dei poveri.

Patrizio Paolinelli, in, Émeric Cian-Grangé, Céline’s Big Band. D’un lecteur l’autre, Éditions Pierre-Guillame de Roux, Paris, 2015, 402 pages, 25,00 eur.


OBBEDIENZA, DISOBBEDIENZA E IN MEZZO LA LIBERTA’

di Federica Ucci

La pandemia, giunta alla sua seconda ondata, persiste nell’imporre continuamente l’adozione di nuove misure di contenimento, allo scopo di rallentare/fermare la diffusione di questo virus che, ormai, domina la scena mondiale.

<<== Dott.ssa Federica Ucci

La sensazione di insicurezza che ormai dilaga ovunque non permette di fare valutazioni oggettive e di vivere senza essere invasi, almeno una volta durante la giornata, dall’ansia per un futuro sempre più precario e minacciato dallo spettro della peggiore recessione globale e locale… come in un flashback sembra di rivivere quei mesi non troppo lontani della fase uno. Il ruolo dello Stato nella gestione dell’emergenza è costante nel discorso pubblico, la conseguente crisi economica ad oggi implacabile è sempre stata presente, fin dall’inizio, solo che gli effetti non erano immediatamente visibili.

Ma oggi, questi effetti si impongono sempre di più sull’intera vita sociale, con crisi occupazionale, perdita di posti di lavoro e l’ aumento di nuove povertà che nel medio-lungo periodo aumenterà il divario già esistente all’interno della società, minacciandone seriamente gli equilibri.Quando si parla di pandemia oggi, si utilizza ancora come a marzo la metafora bellica, in quanto le due situazioni sono accomunate da uno sforzo generale, che chiama in campo anche la gente normale, per sostenere una causa comune.

La storia è disseminata di tanti esempi di “tirate di cinghia collettive” e il fronte comune in cui tutti possono contribuire in qualche maniera è la vita quotidiana, ormai caratterizzata da piccole o grandi rinunce che non risparmiano nessuno, nemmeno i più piccoli.Daniel Kahneman, psicologo e premio nobel, fu uno dei primi a capire che la nostra mente ha una modalità lenta e deliberativa e una modalità veloce ed intuitiva: per mobilitare le persone, la questione deve diventare emotiva. E cosa c’è di più emotivo dell’infuriare di una lotta per la sopravvivenza a trecentosessanta gradi?

La solidarietà è senza dubbio una risorsa importante, anche quando assume forme per così dire “assurde” che portano ad accettare come “normali” delle condizioni come il distanziamento fisico nelle interazioni sociali, il taglio di risorse ad ospedali e scuole, il dover scegliere quali pazienti curare e quali no, dover vivere senza poter lavorare. Cosa ci sarebbe di “solidale”, di umano, in tutte queste cose?

Come afferma Bauman (2003), in un ambiente fluido, dove le vecchie consuetudini vengono rapidamente spazzate via e quelle nuove raramente hanno tempo a sufficienza per acquisire forma (e tanto meno di solidificarsi), brancolare in un buio perforato da sporadici e casuali raggi di luce (una condizione nobilitata nella retorica sociologica attualmente in voga con il nome di «riflessività») è l’unico modo disponibile di agire. Qualsiasi tipo di azione non può che essere sperimentale – non nel senso ortodosso dell’«esperimento» (vale a dire di un collaudo accuratamente progettato volto a provare o confutare l’esistenza di una regolarità preconizzata/ipotizzata/immaginata), ma nel senso di una ricerca casuale di un’unica mossa azzeccata tra tante errate e sconsiderate.

L’azione procede attraverso tentativi, errori, nuovi tentativi e nuovi errori, fino a che uno dei tentativi non sortisce un risultato che potrebbe, in quelle date circostanze, passare per soddisfacente. In assenza di ricette collaudate per il successo, imposte apoditticamente o autorevolmente avallate, le azioni devono essere, e tendono a essere, sovrabbondanti. Quasi tutte le mosse sono prevedibili, se ne paventa l’insuccesso, e l’unico contributo che ce ne si può ragionevolmente attendere è quello di essere eliminate dalla trabocchevole moltitudine di possibilità da considerare in futuro.

Una valanga di tentativi non garantisce il successo, ma mantiene viva la speranza che tra i tanti tentativi falliti almeno uno centrerà il bersaglio.[1]Questo è esattamente ciò che sta succedendo nella gestione di questa crisi, le persone stanno passando dall’ottimismo e dalla fiducia iniziale nelle regole ad una crescente insofferenza verso di esse e verso il sistema in generale. Il disagio sociologico oggi ci mostra come le proteste per rivendicare i propri diritti assumono spesso tratti apertamente sovversivi, altre volte possono assumere una forma più soft, mimetizzata nella vita quotidiana, adottando atteggiamenti contrari alle norme e arrivando a negare anche l’esistenza di un virus che sta tenendo sotto scacco l’intera umanità immergendola costantemente in un pericolo sempre presente, ma invisibile e per questo difficile da percepire realmente come tale.

Eric Fromm[2] spiega che secondo i miti giudaici ed ellenici l’umanità è iniziata con un atto di disobbedienza. Adamo ed Eva abitavano il paradiso terrestre ed erano parte integrante della natura, vivevano in armonia con essa e tuttavia la trascendevano. Erano umani pur non essendolo ancora, finché questa condizione mutò in conseguenza della loro disubbidienza a un ordine. Tagliando il cordone ombelicale con la terra e la madre, l’uomo è uscito da una condizione di armonia preumana diventando “individuo” e compiendo il primo passo verso la libertà e l’indipendenza. L’atto di disobbedienza, quindi, ha aperto gli occhi di Adamo ed Eva, che si sono riconosciuti estranei l’uno all’altra ed estranei al mondo esterno, che appariva loro ostile.

“Il «peccato originale», lungi dal corrompere l’uomo, lo ha anzi reso libero; è stato esso l’inizio della storia. L’uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere dalle proprie forze e diventare pienamente umano[3]”. Sempre seguendo Fromm, anche il mito ellenico di Prometeo concepisce la civiltà umana interamente basata su un atto di disobbedienza. Rubando il fuoco agli dei, infatti, Prometeo pone le fondamenta dell’evoluzione umana, che senza il suo “delitto” non si sarebbe innescata. Prometeo non si pente né chiede perdono, ma afferma con orgoglio di preferire essere incatenato ad una roccia piuttosto che servo obbediente degli dei. L’uomo ha continuato ad evolversi mediante atti di disobbedienza, a livello spirituale osando dire “no” ai poteri in atto  in nome della propria coscienza o della propria fede, e a livello intellettuale disobbedendo alle autorità che tentassero di reprimere nuove idee o all’autorità di credenze ormai troppo rigide.

Fromm scrive  che, “se la capacità di disobbedire ha segnato l’inizio della storia umana (…) può darsi benissimo che l’obbedienza ne provochi la fine[4]”.Egli distingue obbedienza eteronoma, che si traduce in una sottomissione verso un’autorità che può essere razionale o irrazionale, ed obbedienza autonoma, che fa capo alla propria coscienza, la quale può essere umanistica o autoritaria. Obbedienza e disobbedienza sono in rapporto dialettico e, qualora i principi ai quali si obbedisce fossero inconciliabili con quelli ai quali si disobbedisce si verrebbe a creare una dicotomia, il cui esempio classico è rappresentato da Antigone. “Obbedendo alle inumane leggi dello Stato, Antigone per forza di cose disobbedirebbe alle leggi dell’umanità; obbedendo a queste non può non disobbedire a quelle.

Tutti i martiri delle fedi religiose, della libertà e della scienza hanno dovuto disobbedire a coloro che volevano imbavagliarli, se volevano obbedire alla propria coscienza, alle leggi dell’umanità e della ragione. L’essere umano capace solo di obbedire e non di disobbedire, è uno schiavo; chi sa soltanto disobbedire e non obbedire è un ribelle (non un rivoluzionario): costui agisce mosso da collera, da delusione, da risentimento, non già in nome di una convinzione o di un principio”[5].Nella nostra società, attraverso l’educazione e la scuola, si è creato una sorta di “valore dell’obbedienza”, collegandola in qualche modo all’essere sulla giusta strada in termini di moralità.

Lo psicologo Lawrence Kohlberg, con la sua teoria dello sviluppo morale, ha cercato  di spiegare come il singolo individuo costruisce la sua idea di “bene” o “male”. In particolare, attraverso delle interviste stabilì che il livello di moralità nei bambini aumenta man mano che essi crescono, proprio come l’abilità razionale o il linguaggio. Lo sviluppo morale si articola in tre livelli sequenziali, ognuno diviso in due stadi: pre-convenzionale, convenzionale e post-convenzionale. Non sempre si passa attraverso tutti gli stadi e non tutti raggiungono l’ultimo livello di sviluppo. A livello pre-convenzionale, la persona delega l’intera responsabilità morale a un’autorità, la quale definisce un sistema di ricompense e punizioni per stabilire ciò che è “bene” e ciò che è “male”. In questo livello non si considerano diversi interessi o intenzioni di condotta ma semplicemente le conseguenze: premio o punizione.

Gradualmente,  inizia ad esserci un orientamento all’individualismo/edonismo, gli interessi dell’individuo si diversificano e si iniziano a vedere le conseguenze delle proprie azioni in ottica di ciò che apporta un beneficio ed è considerato positivo e ciò che invece implica una perdita ed è considerato negativo. E’ una fase egoistica, ma in cui l’individuo considera l’eventualità di soddisfare le necessità altrui in condizione di reciprocità, un quid pro quo.  C’è un’evoluzione perché anche se le motivazioni sono egoistiche, l’individuo non delega più agli altri la costruzione della sua moralità. Nello stadio convenzionale l’individuo inizia ad avere relazioni interpersonali più complesse e deve quindi abbandonare il suo egoismo per essere accettato nel gruppo. Perciò, egli considererà giuste le condotte che vengono promosse dagli altri in quanto il suo concetto di moralità si legherà all’idea di essere una brava persona.

La visione dell’individuo basata sui gruppi viene poi sostituita con una basata sulla società, in cui il criterio di definizione di ciò che è giusto e ciò che non lo è ruota intorno al mantenerla stabile attraverso condotte che non siano di ostacolo o confusione. Di conseguenza, c’è una forte obbedienza a leggi ed autorità in quanto, pur limitando la libertà individuale, sono volte a mantenere l’ordine sociale per il benessere comune. La moralità, quindi, supera i legami personali. Nello stadio post-convenzionale, al quale non tutti arrivano, la moralità diventa flessibile e variabile. L’individuo comprende perché la società ha creato delle leggi secondo un contratto che stabilisce dei criteri morali, le difende oppure le critica ritenendole limitate nel tempo e modificabili.

La moralità implica la partecipazione a un sistema sociale accettato, all’interno del quale l’individuo, accanto a quel contratto creato dalla società, stabilisce i suoi personali principi etici astratti che oltrepassano le leggi e vanno ad influenzare la sua moralità non in base a come la società si impone, ma in base a come crede che la società debba essere.Questi principi sono comprensivi, razionali e universalmente applicabili, nel senso che l’individuo inizia ad agire trattando gli altri come vorrebbe essere trattato.

In tutti questi mesi ci sono stati cambiamenti continui per cercare di gestire la pandemia, questo ha lasciato le persone più o meno disorientate, si è passati da sentimenti di speranza a sentimenti di impotenza, con l’attuale inasprimento della crisi economica sono sempre più coloro che vivono in stati di disperazione, preoccupazione e, talvolta, ossessione. Quel senso di moralità post-convenzionale, in cui chi si trova più avanti dovrebbe avere la pazienza di occuparsi di chi è rimasto indietro non è una caratteristica di tutta la società, all’interno della quale sembra essere più attivo che mai il darwinismo sociale, per il quale l’emarginazione dei poveri o dei deboli, degli “inutili”, degli invisibili, sembra essere l’ inevitabile conseguenza della selezione naturale all’interno della collettività.

E’ necessario, quindi, trovare un giusto bilanciamento tra obbedienza e disobbedienza, al fine di sviluppare una moralità almeno equilibrata?All’interno di un sistema in cui ci sono delle differenze non solo economiche e sociali, ma anche intellettuali, in cui chi vuole restare meno evoluto soggiace completamente all’ego, accettando di vivere sotto l’effetto ipnotico della paura, complici anche le manipolazioni effettuate dal sistema informativo convenzionale, trovare altri modi per documentarsi su ciò che ci accade intorno, dedicare del tempo al proprio benessere ed imparare a saper dire di no, in maniera costruttiva, quando qualcosa va contro la nostra coscienza è un modo per essere “liberi dentro”. Soprattutto in questo tempo, in cui non si è più liberi nemmeno di respirare, dove la partita se la giocano la protezione e il rischio… ma appunto è il tempo a configurarsi così, come viverlo, come percepirlo è compito nostro.

Dover ragionare in termini di sopravvivenza minima quotidiana rende davvero un’impresa impossibile immaginarsi un futuro,quel mondo globalizzato che fino a poco tempo fa era fonte di aspettative e apertura a nuove possibilità ci ha posti improvvisamente di fronte a problematiche che prima erano attribuite a popoli lontani, questa volta è stato un virus, non possiamo sapere quale sarà la prossima criticità che rimetterà in discussione il nostro concetto di normalità.Pensare con la propria testa, mettere ogni tanto in discussione ciò che è accolto acriticamente ed accettare la nostra diversità come evoluzione interiore piuttosto che come disadattamento sociale, il quale può essere fonte di sofferenza interiore o fonte di azioni distruttive per se e per gli altri, potrebbe essere l’antidoto al sentirsi in catene, perché queste esistono solo se le accettiamo noi.

Dott.ssa Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali


[1] Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari, 2003, pag.54.

[2] E. Fromm, La disobbedienza ed altri saggi, Mondadori, Milano, 1982.

[3] Ibidem, pag.12

[4] Ibidem, pag. 13

[5] Ibidem, pag. 14


IL FENOMENO DEL BODY SHAMING

di Francesca Santostefano

In una cultura misogina e patriarcale la quale impone con veemenza canoni di bellezza e di perfezione corporea, molti sono denigrati per una qualche imperfezione del loro aspetto fisico, vittime di questo fenomeno che sta prendendo il sopravvento in primis le donne e le adolescenti costrette a subire discriminazioni da una società che pretende perfezione e modulata dal paradosso della ricerca del “corpo perfetto” .

<<== Dott.ssa Francesca Santostefano

Si parla pertanto di “Body Shaming”  secondo la descrizione fornita da Wikipedia esso rappresenta una derisionedel corpo, consiste appunto in una vera e propria azione di derisione verso una persona per il suo aspetto fisico e qualsiasi caratteristica fisica può essere presa di mira:ad esempio l’adiposità o la magrezza, l’altezza o la bassezza, la presenza, l’assenza o la cura della peluria corporea, il colore dei capelli e molte altre caratteristiche fisiche.

Nel Body Shaming il carattere fisico viene colpito perché considerato non conforme ai canoni estetici della cultura in cui la vittima vive: non ha importanza che sia anormale o dannoso per la salute, o semplicemente diverso dalla presunta “forma fisica perfetta”, né che la vittima abbia la possibilità di modificarlo o no. Il canone estetico, spesso lontano dalle caratteristiche di un corpo umano comune o sano, è posto come normale e necessario per considerare una persona apprezzabile e degna di rispetto: tutto ciò comporta conseguentemente che vi sia una vittima ed un carnefice il quale commette tale atto provocando gravi danni e vessazioni psicofisiche nei confronti  della vittima come uno status di colpevolizzazione per il suo aspetto fisico, riduzione dell’autostima, disturbi alimentari o ancora fenomeni ansiogeni che sfociano spesso in depressione. Terreno di diffusione di tale fenomeno è senza dubbio il mondo dei social, luogo o per meglio dire “non luogo” ove avvengono discriminazioni di ogni qualsivoglia natura, a cominciare dal cyber bullismo, diffusione illecita di materiale privato,  sino alla ghettizzazione dell’aspetto fisico postato sui social. Oggi si tende al costante confronto con l’altro basandosi sui modelli e canoni proposti dai social si può divenire giudici spietati di noi stessi aumentando l’insicurezza e l’incertezza,  una costante della società odierna.

Sono particolarmente soggetti gli adolescenti, a causa della ricerca di accettazione sociale e dei cambiamenti fisici legati all’età, e le donne in post-parto. Può essere aggravato dalla diffusione di modelli estetici nei mass media e nei social media e può sfociare in forme di bullismo e cyberbullismo.  

Il Body Shaming è considerato un reato penale nel caso in cui gli insulti sull’aspetto fisico sono fatti pubblicamente, in modo tale da offendere la reputazione della vittima, allora v’è il rischio che il Body Shaming si tramuti in diffamazione. “La diffamazione consiste nel ledere la considerazione che una persona ha all’interno della società (o di una stretta cerchia di persone), proferendo commenti ingiuriosi o comunque irriguardosi alle spalle della stessa, cioè in sua assenza .

La diffamazione può tranquillamente integrarsi anche a mezzo social: in questo caso, si tratta di diffamazione aggravata, in quanto il commento irriguardoso è fatto in modo tale che chiunque possa leggerlo.”Il body Shaming in internet può dunque assurgere a forma di diffamazione aggravata, pertanto è punita con la reclusione ed una cauzione penale.

Dott.ssa Francesca Santostefano – Sociologa, specializzanda in SAOC (Scienze delle amministrazioni e delle organizzazioni complesse, Counselor Sociolostico ASI.


VIOLENZA DI GENERE “POST MORTEM”

Editoriale

Durante il ritiro sociale della prima ondata di Covid -19 (marzo-giugno) la presenza del nemico in casa è stata talmente destabilizzante da frantumare la resilienza anche di quelle donne dotate di grande capacità di sopportare il peso dei maltrattamenti, delle botte e delle violenze psicologiche.  

<<=== Antonio Latella

Le statistiche del lockdown registrano un’impennata degli episodi di violenza nei confronti della donna, ma anche un significativo aumento delle telefonate al numero verde (1522) che offre supporto alle vittime di abusi e stalking. Un aumento del 120%: il 96% di richiedenti aiuto (di sesso femminile) ha dichiarato che la violenza è avvenuta tra le mura domestiche. Aggressività fisica e psicologica da parte di mariti, compagni, conviventi: carnefici “dai modi gentili”, demoni annidati sotto lo stesso tetto.  Il lockdown ha ridato voce a tantissime donne che per anni, in silenzio e con rassegnazione, hanno subito violenza all’interno delle mura domestiche.  La responsabilità per la famiglia, l’amore dei figli le aveva rese insensibili al dolore. E quando il tempo passa alla fine ci si abitua.

Quell’abitudine – scriveva Oriana Fallaci- che diventa “la più infame delle malattie: ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.  L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente e cresce poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza e quando scopriamo d’averla addosso, se ogni gesto è condizionato non esiste medicina che possa guarirci”.  

Esasperazione o nuova presa di coscienza? La rottura del silenzio va oltre la denuncia. Riteniamo che si tratti anche di una richiesta di aiuto rivolta alla società maschilista. Perché come ha scritto un giovane politico calabrese (il consigliere regionale Nicola Irto) “la battaglia contro la violenza di genere deve essere condotta innanzitutto da noi uomini”. La sindrome di Stoccolma non aiuta a diventare eroi. Quando finisce l’amore e viene a mancare il rispetto è giusto che ognuno vada per la propria strada.

Nella postmodernità anche l’amore è diventato liquido perché – come insegna Zygmunt Bauman – “non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, i legami sono stati sostituiti dalle connessioni, l’amore affronta la noia della quotidianità e diventa come qualsiasi altro bene offerto dal libero mercato”.   In questi giorni abbiamo assistito ad un nuovo modello di violenza sulle donne: post mortem.   Non siamo giudici e pertanto ci asteniamo dal sostenere la pubblica accusa.

Tuttavia – nel rispetto del diritto di cronaca – non possiamo non registrare che l’episodio continua a far discutere, al punto di diventare motivo di lotta tra e all’interno di una politica sempre più individualista, nazionalista, populista, negazionista: ben rappresentata da personaggi che obbediscono al loro io che continua a prevalere sul noi.

 Scatenando– come dice Papa Francesco nella sua ultima enciclica – quel “tutti contro tutti che sarà peggio di una pandemia”.  E quando assistiamo ad una tiepida condanna dell’opinione nei confronti di quanti avrebbero oltraggiato la memoria di Jole Santelli vuol dire che la società dell’indifferenza si appresta a cancellare le ultime oasi di socialità, solidarietà e di fratellanza in una terra, la Calabria, ostaggio della ‘ndrangheta, della corruzione e di vecchi stereotipi. Anche questa è violenza sulle donne. Tradite da chi rappresenta le istituzioni e non riconosce che l’uso di un certo linguaggio diventa la ghigliottina della democrazia e delle nostre libertà. “Perché quando il dolore morale perde la salutare funzione  di avvertimento, di allarme e di spinta  ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale” (1)

                                                            Antonio Latella

(1) Zygmunt Bauman e Leonidas Donskis – Cecità Morale ( Editore Laterza)


”LA DONNA ARTEFICE DI UN NUOVO UMANESIMO”

di Nausica Sbarra*

Il “ritiro” sociale imposto dall’attuale pandemia ha aumentato i rischi di violenza sulle donne. Violenze, in prevalenza psicologiche, registrate tra le mura domestiche, dove la donna ha scoperto quanto sia difficile convivere con il “nemico”.

Non sono poche le madri, le mogli, le compagne che, nel periodo compreso tra marzo e giugno dell’anno che volge al termine (come rilevano i dati Istat) hanno avuto il coraggio di dire basta a quel sottile legame che, forse, reggeva solo per la presenza di bambini e anziani. In molte famiglie l’amore coniugale è finito da tempo e il vivere rassegnati è diventato un inferno che si ripercuote sull’intero nucleo. Il bisogno di amare e di essere amati si è talmente liquefatto al punto che, di giorno in giorno, aumentava il rischio che la violenza psico-fisica potesse diventare la causa di femminicidi e di stragi familiari.Tutto questo fino a quando la donna non trova il coraggio di ribellarsi tranciando di netto quel legame che le impedisce di vivere libera da qualsiasi condizionamento.

L’attuale società, sempre più litigiosa e rissosa, continua a cancellare gli antichi valori della solidarietà e dell’accoglienza. Questa mancanza genera nuove povertà, diseguaglianze, persecuzioni che incidono sulla condizione delle fasce più deboli: bambini, adolescenti e, soprattutto, donne. La comunicazione globale, in tutte le ore del giorno e della notte, veicola nelle nostre case fatti di violenza inaudita che provocano assuefazione senza lasciare traccia nella nostra coscienza. Penso alla giovane immigrata che, fuggendo dalla Libia nel tentativo di lasciarsi alle spalle miseria e persecuzione, ha visto inghiottire nelle acque del canale di Sicilia i suoi due figlioletti.

La violenza sulle donne di qualsiasi età non ha confini: tra le mura domestiche come sul posto di lavoro, in politica come nella società e in tantissime altre esperienze di vita. Episodi che provocano solo un’indignazione momentanea: scene che vengono “resettate” dal rincorrersi di altre negatività prodotte, direttamente o collateralmente, dalla globalizzazione. Cioè dalla più prolifera e meno controllata “linea di rifiuti e di esseri umani di scarto”.

Un nostro nuovo protagonismo è fondamentale e improcrastinabile.

Come Coordinamento Regionale Donne CISL, siamo impegnate su più fronti con un’azione che, oltre alla parità di genere, comprende anche il diritto delle fasce più deboli della nostra società: gli immigrati, i giovani, i disoccupati, i bambini, gli adolescenti, i pensionati. Abbiamo dichiarato guerra alle differenze di genere e siamo determinate a proseguire nell’azione di frantumazione degli arcaici paradigmi che ancora oggi, nella postmodernità, considerano la donna subalterna all’altro sesso.

Il mese di novembre, nel corso del quale si rinnova l’appuntamento con la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, registra dei segnali positivi sulla parità di genere. Nella nostra regione, terra che non manca di confermarsi protagonista dello sfascio del sistema sanitario pubblico e di nuovi sospetti sull’intreccio ‘ndrangheta-politica, alla donna, con la legge sulla doppia preferenza, finalmente è stato riconosciuto il diritto alla parità di genere per la rappresentanza in Consiglio Regionale. Un diritto che l’universo femminile si è conquistato combattendo contro una società maschilista che ancora oggi è arroccata a difesa di antichi privilegi di genere. Tutto bene?  Su questo fronte, finalmente, è stato riconosciuto un sacrosanto diritto che in altre realtà geografiche era presente da tempo.

 Peccato che la memoria della principale protagonista del tratto finale dell’iter di questo provvedimento di legge regionale sia stata profanata da un rappresentante di quella politica che considera sempre e soltanto nemici quanti sono schierati sul fronte opposto. L’On. Jole Santelli ha speso gli ultimi istanti di vita al servizio di questa Calabria. La prima donna governatrice della nostra regione merita di essere rispettata sia da quanti governano questa terra sia da chi, per volontà popolare, è all’opposizione. Ci vuole rispetto,  soprattutto per chi non è più tra noi, lasciando da parte ogni linguaggio di tipo populistico.

Siamo, tra l’altro, in un tempo in cui la politica, pur nelle giuste diversità di scelte, non può più correre il rischio parlare il linguaggio dell’individualismo: “Un io – come sostiene Edgar Morin –  senza il noi, che si atrofizza e sprofonda nella solitudine”. Perché, come scrive Papa Francesco nella sua ultima enciclica, “Fratelli tutti”, alla fine di questi giorni difficili che il mondo sta vivendo “voglia il cielo che non ci siano più gli altri, ma un solo noi”. Per il Pontefice “se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto”. Perché il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti” e questo sarà peggio di una pandemia. Scienza e tecnica stanno trascinando il mondo verso la post-umanità, ma non dobbiamo pensare ad una rivoluzione capace di trasformare l’uomo in un essere perfetto o quasi divino.

Per Morin, il quale auspica un Umanesimo rigenerato, dobbiamo “tentare di sviluppare ciò che di meglio c’è in lui: ossia la sua facoltà di essere responsabile e solidale. Solidarietà e responsabilità sono imperativi non solo politici e sociali, ma anche personali. Dovremmo quindi capire quanto la riforma della società e la riforma della persona sono inseparabili”. “Sii tu il cambiamento che vogliamo vedere nel modo”, scriveva Gandhi. E anche su questo fronte il protagonismo delle donne della Cisl è, ormai da tempo, finalizzato all’inclusione sociale, alla necessità di unire ragione e passione; un protagonismo che nasce dalla consapevolezza che le scoperte di scienza e tecnica possono portare al meglio e al peggio, che accoglienza e solidarietà fanno parte delle nostre radici che vanno rinverdite e irrobustite.

In Calabria la strada della parità di genere è ancora disseminata di ostacoli. Il protagonismo femminile, da noi come nel resto d’Italia, riguarda anche la lotta al Covid-19, soprattutto negli ospedali, ma anche nel mondo dell’associazionismo e sul posto di lavoro pubblico e privato. E mentre nel modo si aggira lo spettro populista-nazionalista e negazionista si è aperta un’altra breccia di speranza. Nella più grande democrazia del pianeta, gli Stati Uniti d’America, sono stati scacciati i falchi la cui politica faceva presagire il pericolo di una rivolta sociale interna e lo stravolgimento degli assetti mondiali. Anche in questo c’è stato il protagonismo femminile: quello della Vice Presidente degli Stati Uniti d’America Kamala Harris. La stessa speranza riguarda il vecchio continente per la presenza di Ursula von der Leyen, presidente della commissione UE.  La strada è ancora lunga, ma il protagonismo della donna assume più una dimensione globale.

  •  Nausica Sbarra – Responsabile Coordinamento Donne                          Giovani e Immigrati Cisl Calabria

“La battaglia contro la violenza di genere deve essere condotta innanzitutto da noi uomini”

di Nicola Irto*

” La battaglia contro la violenza di genere deve essere condotta innanzitutto da noi uomini. Solo attraverso un impegno straordinario dell’universo maschile contro questo triste fenomeno riusciremo ad avere risultati concreti e duraturi. Ne sono convinto da tempo”.

<< ===Arch. Nicola Irto

Negli ultimi anni, ho avuto l’opportunità di partecipare a numerose iniziative organizzate dal mondo delle associazioni attive nella difesa delle donne e nella promozione della parità di genere. E mi ha sempre molto colpito la circostanza che le platee, quando era ancora possibile riempirle di pubblico, fossero in larghissima maggioranza composte al femminile. Ma di violenza contro le donne – non ‘sulle’ donne, ma ‘contro’ le donne – occorre che ragionino, discutano e comprendano il disvalore soprattutto gli uomini, responsabili di quegli atti ripugnanti e vili che con frequenza inaccettabile continuano a verificarsi nel nostro Paese, specie al Sud.

In Italia si consuma un femminicidio ogni tre giorni. Questi numeri agghiaccianti ci consegnano una realtà che la società tende a rimuovere colpevolmente, salvo poi ricordarsi nel mese di novembre dell’esistenza di tale drammatico fenomeno. Soccorrono, ancora una volta, le opportune parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un faro per l’intera comunità nazionale in tempi così difficili, che ha definito  ’emergenza pubblica’ la violenza contro le donne, sollecitando l’intera società civile a far crescere la coscienza collettiva su questi crimini.

Nella scorsa legislatura regionale, d’intesa con la Questura di Reggio Calabria all’epoca guidata dal dottor Maurizio Vallone, con le istituzioni scolastiche, con l’Osservatorio contro la violenza di genere da noi costituito, nonché con i centri antiviolenza e le tante associazioni attive in questo campo, abbiamo condotto un intenso lavoro di sensibilizzazione e promozione della cultura del rispetto di genere. Tutto ciò, nella consapevolezza che solo la diffusione, in seno alle giovani generazioni, dei valori della nonviolenza, del dialogo, delle pari opportunità, della democrazia può contribuire a eradicare questo triste fenomeno. 

Tra le numerose iniziative che abbiamo promosso assieme all’Osservatorio coordinato da Mario Nasone, mi piace ricordare l’istituzione della Stanza della memoria e dell’impegno a Palazzo Campanella, ma non posso non citare anche lo storico premio ‘Ragazzi in aula’ intitolato alla memoria di Fabiana Luzzi. Oggi il compito di chi fa politica e di chi è chiamato a svolgere un ruolo all’interno delle istituzioni democratiche è quello di non abbassare la guardia sulla violenza contro le donne, che anche negli ultimi anni ha causato episodi gravissimi e dolorosi come un pugno nello stomaco. Si pensi alla vicenda di Maria Antonietta Rositani, coraggiosa leonessa reggina, cui l’intera comunità regionale deve rivolgere il più forte abbraccio e incoraggiamento. 

Per riuscire a vincere questa battaglia, è necessario moltiplicare le occasioni di incontro e di confronto, rafforzare nel bilancio della Regione i finanziamenti alla legge 20 del 2007 sul sostegno ai centri antiviolenza, istituire un fondo di solidarietà regionale a favore delle vittime di violenza, continuare a promuovere tutte le iniziative culturali idonee a diffondere, specie in età scolare, una consapevolezza delle più giuste dinamiche nei rapporti tra i sessi. Una società migliore – conclude Irto – si costruisce affiancando alle attività di repressione condotte dalle forze dell’ordine, quelle pedagogiche da promuovere in classe. Si tratta di un indispensabile investimento sul futuro di cui siamo tutti responsabili. Un investimento che ciascuno di noi deve compiere, mettendo a disposizione una delle risorse più importanti di cui disponiamo: il tempo, da dedicare all’ascolto e all’impegno.

*Consigliere regionale Partito democratico


“Oggi più di ieri è in crisi il rapporto tra il paese e i decisori politici”

di Patrizio Paolinelli

” I conflitti sul lavoro in era Covid. L’assunzione dei rider come dipendenti. La riforma dello Statuto dei Lavoratori “.(Giorgio Benvenuto)

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

In piena pandemia permangono i conflitti sul lavoro. Per esempio, di recente c’è stato lo sciopero nazionale degli addetti alle pulizie, da sette anni in attesa del rinnovo contrattuale, e gli operai della Whirlpool di Napoli sono ancora in lotta nonostante l’azienda abbia deciso la chiusura degli stabilimenti. Non le sembra che sulle questioni del lavoro l’emergenza sanitaria ed economica in corso insegni davvero poco?

Non è che mi sembra: è proprio così. Fino a qualche settimana fa il dibattito politico era concentrato sulle grandi strategie da adottare per la digitalizzazione, il Mezzogiorno, le politiche fiscali, gli investimenti e sulle regole a cui attenersi rispetto a una pandemia in fase calante. Invece è arrivata la seconda ondata di coronavirus e i cittadini stanno reagendo. Durante la prima ondata è prevalsa la fiducia nei confronti del governo nonostante le difficoltà in cui tutti ci siamo trovati a causa della quarantena e gli altri limiti alle libertà personali che ci sono stati imposti. Oggi la fiducia è caduta drasticamente e i cittadini sono arrabbiati e impauriti. Impauriti per un futuro che si profila denso di nubi. Arrabbiati perché gli italiani non riescono a spiegarsi come mai durante l’estate non ci si è attrezzati per l’ampiamente previsto ritorno del coronavirus. Un altro motivo della rabbia è il fatto che adesso le conseguenze sull’economia sono assai più pesanti. Molti si erano attrezzati per convivere con un’epidemia sotto controllo mettendo a norma uffici e negozi e all’improvviso devono di nuovo chiudere.  

Mi pare di poter dire che oggi più di ieri è in crisi il rapporto tra il paese e i decisori politici. Non si vede un fronte comune delle istituzioni, non c’è un messaggio chiaro, il vaccino in arrivo a gennaio è qualcosa di vago e si assiste allo spettacolo degli amministratori pubblici che litigano sull’attendibilità dei dati relativi al contagio. Insomma, non c’è una sola certezza a cui i cittadini possono aggrapparsi. Pertanto non si fidano più di nessuno. Persino l’Europa sembra scomparsa dai radar. Nel frattempo come ha evidenziato lei nella sua domanda il conflitto tra impresa e lavoro non conosce tregua. Anche in questo caso la politica non ha gestito i problemi dell’economia in maniera soddisfacente. Nessuno chiede miracoli. Ma di affrontare le tante situazioni di crisi questo sì. Penso che in una fase drammatica come quella che stiamo attraversando il governo debba presentarsi come soggetto mediatore tra le parte sociali e cercare il più possibile delle soluzioni. Invece ci sono crisi aziendali che si trascinano da troppo tempo e ancora oggi lì giacciono. Il risultato è un paese drammaticamente diviso, 12 milioni di lavoratori sono in attesa del rinnovo contrattuale e si va al muro contro muro.

Just Eat sconfessa il contratto di comodo firmato tra Assodelivery e Ugl e annuncia che dal 2021 assumerà i rider come dipendenti. Se così sarà questo episodio resterà un caso isolato o può aprire una nuova strada nel rapporto tra lavoro e imprese dell’economia digitale?

Di certo una rondine non fa primavera. Se si vuole affrontare il problema occorre che il governo prenda l’iniziativa per superare gli iniqui rapporti di lavoro che investono, se non tutto, gran parte di un intero comparto. Debbo dire che da parte dei sindacati è arrivata un’indicazione interessante. E cioè la presa d’atto che lo Statuto dei Lavoratori ha qualche ruga, che il mondo della produzione è cambiato e dunque diverse norme contenute in quella legge vanno cambiate. Ecco perché è necessario che il governo intervenga. Quello che tuttavia mi chiedo è che fine ha fatto la documentazione raccolta durante gli Stati generali dell’Economia. È stata messa da parte per accendere il fuoco quest’inverno?   

Battute a parte, ricordo che quando Di Maio era ministro del lavoro aveva preso delle iniziative su questo fronte, si è poi ritornati sul problema dopo le ultime regionali, ma ad oggi non si è visto nulla di concreto. Tuttavia sul lavoro organizzato tramite piattaforme bisogna intervenire. Però è necessaria una maggiore operatività da parte del governo. Io, come tutti gli italiani, ascolto in Tv i suoi maggiori esponenti ed è un fiorire di buone intenzioni, di rassicurazioni, di distribuzioni. Sembra che sia soprattutto così che il governo manifesta la propria esistenza perché di fatti poi se ne vedono pochi.  

Mi ricollego al suo richiamo dello Statuto dei Lavoratori perché nella prima giornata di Futura 2020 in un confronto con Landini il premier Conte ha dichiarato di essere d’accordo nel riformarlo per passare allo statuto dell’impresa. Quali sono le opportunità e le incognite di un dibattito che sembra avviarsi davvero?

Mi sembra che quella di Conte sia una battuta da Twitter. Cosa significa statuto dell’impresa? Poiché la proposta di riformare lo Statuto dei Lavoratori è partita proprio da Landini non sarebbe stato meglio rispondergli che andava stabilita un’agenda tra governo e sindacati? Rilanciare invece con una controproposta in cui si parla di un vago, vaghissimo statuto d’impresa significa fare un’amabile conversazione ma nulla più. Ancora una volta non vedo concretezza.

Guardi, Conte è una persona gentile, disponile e ha accettato l’invito di partecipare all’iniziativa della Cgil. E questo è un atteggiamento positivo. Dunque, bene la cortesia, ci mancherebbe altro. Però qui c’è bisogno di aprire tavoli negoziali per definire le cose che non vanno nello Statuto dei Lavoratori e cambiarle. Se invece si introduce lo statuto dell’azienda intanto occorre consultare anche le parti datoriali e non mi pare che se ne sia parlato. Intendo dire che una materia come questa va maneggiata con grande attenzione perché include il tema della formazione permanente, della digitalizzazione, dello smart working, della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’innovazione tecnologica e così via. Insomma si tratta di un intervento molto complesso per il quale le battute servono a poco.

Patrizio Paolinelli, fondazionebrunobuozzi.it, 16 novembre 2020.

http://www.cloudwbo.com/fondazionebrunobuozzi.it/blogzine.do?key=1605535006&dettagli=notizia


Unindustria Calabria scrive al Presidente Mattarella: “La nostra regione diventi questione nazionale”

La drammatica questione calabrese, che nasce dalle inaccettabili vicende della sanità ma che rischia di avere gravissime ripercussioni socio-economiche in tutti i settori, è al centro della lettera che i vertici degli industriali della regione hanno già indirizzato al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

<<== Presidente Sergio Mattarella

Nella missiva al Capo dello Stato, i più alti rappresentanti confindustriali hanno rivolto un appello alla sensibilità di Mattarella affinché “la Calabria assurga a questione nazionale, di cui l’Italia intera deve farsi carico nel rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale sanciti dalla Costituzione”.

La lettera, firmata dal vicepresidente nazionale di Confindustria, Natale Mazzuca, dal presidente di Unindustria Calabria Aldo Ferrara e dal presidente di Ance Calabria Giovambattista Perciaccante,

Natale Mazzuca Vicepresidente Confindustria =====>>

è stata il frutto di una linea condivisa dal consiglio di presidenza regionale, di cui fanno parte i presidenti delle associazioni territoriali Fortunato Amarelli (Cosenza), Mario Spanò (Crotone), Domenico Vecchio (Reggio Calabria) e Rocco Colacchio (Vibo Valentia) nonché i presidenti della Piccola Industria, Daniele Diano, e dei Giovani imprenditori, Marella Burza.

I rappresentanti del mondo imprenditoriale sottolineano come in Calabria “si faccia fatica a garantire la dignità della condizione di cittadini” con riferimento alle vicende, che hanno destato “profondo sconcerto”, riguardanti “il settore sanitario”.

<<== Aldo Ferrara Unindustria Calabria

Unindustria Calabria ha esposto, altresì, al presidente Mattarella “i rischi di una deriva sociale dagli sviluppi imprevedibili, generati dall’incontrollato e atavico tasso di disoccupazione, dal mancato rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni nella quasi totalità dei campi sociali e civili e dalla diffusa povertà. È di tutta evidenza che, in questa condizione di estrema fragilità, si comprometta l’esercizio dell’attività di impresa, diritto costituzionalmente garantito”.

Nella lettera si legge ancora: “Bisogna restituire la nostra Regione all’Italia, per porre fine al triste fenomeno dell’emigrazione che ha depauperato la nostra comunità delle più brillanti intelligenze e per azzerare il ritardo di sviluppo.

Giovanbattista Perciaccante ANCE Calabria === =>>

È necessario che lo Stato cambi radicalmente strategia ed è per questo che ci rivolgiamo a Lei – scrivono gli industriali – come garante dell’unità nazionale oggi esposta a un rischio esiziale, affinché eserciti una funzione di forte stimolo verso le autorità di governo e la Calabria assurga così a questione nazionale”.

Unindustria chiede, infine, “di contribuire responsabilmente alla costruzione del futuro, affinchè possano essere avviate a soluzione le numerose criticità”: dai nuovi ospedali rimasti sulla carta, alla realizzazione dell’ Alta Velocità Ferroviaria, agli investimenti previsti dai Cis, dalla Green economy all’effettiva attuazione della Zes. E ancora, l’inserimento di Gioia Tauro nella Rust & Belt Road, l’attrazione di investimenti e la riqualificazione delle aree industriali, il turismo, la sfida del digitale. “Abbiamo bisogno di una reale dignità di cittadinanza: lo Stato non si sostituisca a noi, ma ci accompagni in una visione di crescita e di sviluppo di cui non possiamo non essere diretti protagonisti. Vogliamo dare il nostro contribuito al futuro della Calabria, senza piangerci addosso – concludono gli industriali calabresi – con la consapevolezza di dover realizzare il cambiamento necessario e con l’ambizione di avviare la stagione di un nuovo meridionalismo culturale e produttivo”.

Comunicato di Unindustria Calabria


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