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Più Umanisti In Parlamento

ARETE’

di Elisabetta Festa

La nostra è una Repubblica parlamentare attualmente composta da 630 deputati e 315 senatori, a questi vanno aggiunti i senatori a vita che possono essere massimo 5 e i senatori di diritto a vita ossia i Presidenti emeriti della Repubblica.  Dico attualmente perché la vittoria dei sì al referendum sul taglio dei parlamentari, vittoria avvenuta con un quasi 70% di voti favorevoli, ha portato alla modifica di ben tre articoli sul numero degli eletti 56, 57 e 59 della nostra Carta Costituzionale.

<<=== dott. ssa Elisabetta Festa (sociologa)

Dalla prossima legislatura, dunque, i deputati scenderanno da 630 a 400 mentre i senatori passeranno da 315 a 200. Si tratta del quarto referendum costituzionale della storia italiana e del secondo ad essere approvato dal voto popolare. Saremo pure un popolo di santi, poeti e navigatori ma a scorrere uno per uno i profili dell’attuale formazione del nostro Parlamento si scopre come vada di gran lunga per la maggiore un’altra professione: quella dell’avvocato. A cominciare proprio dalla Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati esponente di Forza Italia nonché matrimonialista, specializzata nelle cause di nullità davanti alla Sacra Rota. Ma non solo. Di avvocati, infatti, se ne contano in tutto 132: 85 a Montecitorio e i restanti 47 a Palazzo Madama. Diciannove in più rispetto alla XVII Legislatura, quando il conto si fermò a 113.

Al secondo posto nella classifica delle professioni ci sono gli imprenditori. Balzati dai precedenti 93 a 116, di cui 68 a Montecitorio e 48 a Palazzo Madama. Sull’ultimo gradino del podio salgono invece gli impiegati. Nei due rami del Parlamento ce sono 114 (erano 99 nella passata Legislatura). Novanta sono invece insegnanti e docenti universitari, 20 in meno rispetto al precedente quinquennio quanto toccarono quota 110. A 44 si fermano i giornalisti (meno 4 unità). A un’incollatura dalle penne prestate alla politica ci sono i consulenti, che si attestano a 45: 26 a Montecitorio e 19 Palazzo Madama. I medici passano da 44 a 31, mentre 24 sono i commercialisti. E ancora, nelle due Camere siedono – fra gli altri – 25 funzionari di partito, 21 ingegneri, 16 ricercatori, 14 commercianti e 13 sindacalisti.

 Come vediamo tante sono le professioni in campo ma sembra venir meno una categoria, quella che più genericamente potremmo definire degli “Umanisti”, che ingloba studiosi e conoscitori di saperi legati alla centralità dell’individuo nell’accezione più generica ed ampia del termine: filosofi, sociologi, ecc. Sappiamo che la base della nostra civiltà ha profonde matrici filosofiche, e la stessa politica nasce dalla filosofia, molteplici infatti sono i classici, “I padri costituenti” della filosofia politica, ne ricordiamo alcuni tra quelli più rappresentativi appartenenti a diverse epoche storiche: da Platone e Aristotele, a Macchiavelli e Hobbes da Rousseau e Kant a Hegel e Tocqueville tutti hanno lasciato un’impronta indelebile su questo tema.  Ad esempio uno dei principali interessi di Platone fu quello di dedicarsi alla filosofia proprio con l’intento di istituire una società armonica ed orientata al bene, grazie alla figura del politico che doveva saper operare “l’arte della misura”; ancora Macchiavelli secoli dopo fu considerato il fondatore della politica come scienza autonoma ecc. ecc.

Venendo poi ai sociologi, questi sono profondi conoscitori dei sistemi sociali, studiano i loro processi evolutivi ed involutivi, analizzano i fatti e la realtà in maniera oggettiva ed empirica, rappresenterebbero quindi una risorsa in termini di competenze non indifferente data la complessità della nostra realtà globale ne cito soltanto uno quello più contemporaneo Bauman noto per il suo paradigma sulla “Società Liquida”. Ritornando al nostro discorso, se è vero com’è vero che da ogni professione scaturisce una specifica competenza, una mancanza di eterogeneità di professioni, e quindi di competenze della nostra classe dirigente in Parlamento, inevitabilmente indirizza lo stesso verso meccanismi unilaterali di costruzione dell’ordinamento giuridico, basati su saperi prevalentemente di carattere tecnico-giuridici che, seppur necessari, restano comunque privi di quegli altri saperi di matrice antropo-filosofica, che garantirebbero la completezza della normativa.

Così facendo, si compromette una delle finalità più nobili del legislatore, ossia quella di emanare leggi che dovrebbero essere generate a monte da un background di competenze variegate, rispecchiando di conseguenza la eterogeneità della società, in modo da facilitarne anche la tacita e pacifica accettazione da parte del cittadino. Per dirla meglio, come si può pensare che la prassi legislativa possa essere priva di “saperi umanisti” così necessari per una costruzione olistica ed efficace della norma? Potrebbe o non potrebbe scaturire anche da questo fattore, poco o per nulla attenzionato, il caos sistemico che da sempre caratterizza la nostra politica?  Le continue crisi parlamentari che siamo abituati a vivere sempre più frequentemente, anche oggi in piena pandemia, potrebbero dipendere anche da una cristallizzazione di professioni nel Parlamento e quindi di competenze che agiscono in nome di una stessa e perenne visione? A mio parere, un approccio integrato multi-disciplinare come tratto distintivo della genesi legislativa potrebbe rappresentare la svolta significativa verso un cambiamento.

Aldilà di questo aspetto sono egualmente da condannare i toni e le condotte sempre più aspre e bellicose che ormai da decenni caratterizzano la vita parlamentare nel nostro paese, comportamenti deviati e irrispettosi del luogo in cui vengono invece indistintamente perpetrati. La dialettica, il confronto anche lo scontro costruttivo hanno ceduto il passo all’egoismo, al tatticismo cinico e utilitaristico, a condotte di bassa levatura. Bisognerebbe che fra gli scranni parlamentari sedessero personalità inclini alla mitezza, alla ragionevolezza, al dialogo costruttivo, alla mediazione, che seppure presenti non ne costituiscono di certo la maggioranza.

Che la politica ritorni ad essere la casa non più o comunque non solo di tecnocrati o di urlatori seriali  ma di uomini saggi e di ARETE’.


Marx e la critica alla religione

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In quest’articolo prenderemo in considerazione le teorie  di Marx intorno alla religione, che egli definì “l’oppio dei popoli”.       

<<==Prof.GiovanniPellegrino                                                                            

Marx era ateo ragion per cui formulò dei giudizi molto duri intorno alla religione.La critica alla religione era per lui un fatto inevitabile anche perché egli pensava che sarebbe giunto il momento nel quale si sarebbe verificata la fine storica del Cristianesimo. D’accordo con Feurbach Marx rileva l’assoluta incopatibilità di tutte le norme dell’agire pratico con i precetti fondamentali del Vangelo e dei Padri della Chiesa. Marx pensava che la religione cristiana insegnava che le sofferenze di questa vita non sono nulla in confronto alla gloria della vita ultraterrena.                                                

Essa spingeva gli uomini ad assumere un atteggiamento passivo nella vita terrena rinunciando ad ogni tentativo di modificare lo status quo.  Pertanto il Cristianesimo del suo tempo è per Marx la religione del capitalismo in quanto sarebbe funzionale agli interessi della classe dominante che non vuole in nessun modo la modifica dello status quo. Marx ritieneva che bisognava opporsi con forza ai dogmi cristiani dal momento che era convinto che la liquidazione definitiva del Cristianesimo era  il primo presuposto per eliminare il dominio dei capitalisti sul proletariato.Inoltre Marx si opponeva fermamente alla credenza cristiana dell’esistenza nell’universo di un ordine voluto da Dio.                                                                                                 

Marx negava che esisteva una dipendenza dell’uomo da un ordine divino indipendente dalla volontà umana e pertanto pensava che il genere umano doveva esercitare un dominio sul proprio mondo. Marx sosteneva che bisognava sfidare i miti cristiani che a suo dire impedivano agli esseri umani di diventare padroni del mondo e del proprio destino.Partendo dal proprio ateismo Marx professava tutta la sua ammirazione per Epicuro da lui definito “ il più grande illuminista greco. Marx sosteneva che la negazione dell’esistenza di un ordine divino nell’universo era il presupposto della rivoluzione economica mondiale che doveva mettere fine al dominio dei capitalisti sugli altri uomini. Marx metteva in evidenza che non era possibie mettere fine al dominio del capitalismo se si accettava l’idea cristiana di porgere l’altra guancia in maniera passiva. Secondo Marx finchè si accettava questa idea cristiana non sarebbe mai stato possibile per il proletariato esigere il rispetto dei propri diritti nonché ribellarsi per ogni violazione della libertà personale.

Cosa possiamo dire intorno a queste affermazioni di Marx intorno al cristianesimo? Si può affermare che la fede marxiana della possibiltà dell’uomo di assumere il pieno controllo sul mondo materiale sia una pseudoforma di messianesimo laico basato sulla convinzione che il proletariato rivoluzionario possa redimere l’umanità dal dominio delle leggi del mercato mondiale capitalistico. Parliamo di pseudo messianesimo perchè Marx attribuisce al proletariato la capacità di redimere l’umanità da tutte le ingiustizie. Ma in ultima nalisi che cos’è la religione per Marx?  E’ una forma di falsa coscienza che determina l’autoalienazione dell’uomo. Marx afferma che il Cristianesimo determina l’autoalienazione dell’uomo dal momento che impedisce al genere umano di rendersi conto che nella storia non esiste la rivelazione di Dio , bensì la rivelazione dell’uomo.                                                                    

 Marx si chiede perché si creano le condizioni della genesi della falsa coscienza religiosa e dell’auto alienazione dell’uomo. Egli prende le mosse dall’affermazione di Feurbach giudicandola insufficiente per spiegare l’autoalienazione.In sintesi egli sostiene che non basta affermare con Fuerbach che la religione è una creazione dell’uomo che lo rende estraneo a se stesso e sdoppia il mondo in un universo religioso immaginario e in un mondo reale. Infatti per Marx il compito del materialismo storico consiste nell’analizzare le particolari contraddizioni e necessità esistenti nel mondo reale che rendono possibile l’esistenza della religione. In ultima analisi che cos’è per Marx che rende possibile e necessaria l’esistenza della religione nel mondo materiale?                                     

Marx precisa che bisogna giungere alla consapevolezza che la religione altro non è che l’autocoscienza dell’uomo che non è ancora rientrato dalla propria alienazione. Per dirla in altro modo Marx sostiene che la religione è resa possibile o necessaria dal fatto che l’uomo non ha ancora ritrovato se stesso nella sua esistenza terrena. Marx sostiene che la religione è “ un mondo alla rovescia” e che deve necessariamente sussistere fino a quando l’essenza dell’uomo non avrà trovato una realizzazione adeguata nel mondo materiale. Solamente quando l’uomo si sarà liberato dalle pericolose illusioni che impediscono di essere se stesso, sarà possibile a detta di Marx eliminare la religione dal mondo  reale. L’eliminazione della “beatitudine illusoria della religione mediante la critica materialistica è soltanto l’aspetto negativo dell’esigenza positiva di raggiungere una “ felicità reale. Marx è convinto che la morte definitiva della religione verrà determinata dalla volontà di felicità terrena, forma secolare dell’esigenza soteriologica.  La vera critica materialistica della religione non consiste nel suo semplice rifiuto e neppure nella sua seplice umanizzazione, bensì nell’esigenza postiva di creare le condizioni che privino la religione della sua ragione d’essere.           

In altri termini secondo Marx solamente la critica della società può permettere l’eliminazione della religione. Quindi per eliminare la  religione bisogna modificare radicalmente la struttura della società lonttando contro quelli che Marx definisce gli idoli terreni. L’idolo più importante del mondo capitalistico è il carattere feticistico delle merci, che scaturisce dal pervertimento dei mezzi di produzione, pervertimento tipico del mondo capitalistico. A causa di questo pervertimento, l’uomo, il produttore di merci diventa il prodotto della sua stessa produzione.  Marx affera che come l’uomo nella religione è dominato dal prodotto del suo stesso cervello, così nella produzione capitalistica è dominato dal prodotto delle sue stesse mani. Di conseguenza Marx sostiene che non basta ricondurre la teologia e la religione alla “cosiddetta coscienza dell’uomo”ma si deve fare attenzione all’insorgenza dei nuovi  idoli. Marx afferma che bisogna rendere impossibile l’insorgenza di tali idoli mediante una critica continuamente rinnovata delle condizioni reali, cioè storico- materiali.                                                                                    

Per Marx ed Hengels il materialismo storico rappresenta il compimento della filosofia hegeliana e il movimento dei lavoratori in Germania realizzava l’eredità della filosofia classica- tedesca. Marx rimproverava a Hegel non la sua affermazione teoretica della realtà della ragione ma la sua mancata realizzazione pratica.Marx afferma che invece di criticare teoricamente in nome della ragione l’intera realtà esistente, Hegel accetto la storia politica e religiosa come razionale in se.Dal punto di vista critico e rivoluzionario di Marx tale assunzione di Hegel è una forma di manifesto materialismo mentre il marxismo deve essere considerato il vero idealismo.                                                                                                                       Concludiamo tale articolo mettendo in evidenza che il messianesimo marxsistico trascende la realtà esistente in modo così radicale da conservare intatta la sua tensione escatologica. In confronto a Marx la filosofia di Hegel è relistica dal momento che si conciliava con il mondo quale esso realmente era.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri


INTERAZIONE SIMBOLICA E SIGNIFICATO DELLE IMMAGINI NELLA SOCIETA’ MEDIATICA

di Francesca Santostefano

Intercorre un nesso significativo e fondamentale tra le immagini e la comunicazione, tra l’arte intesa nel senso proprio del termine e l’arte della parola. “Uomo inteso come essere comunicante”. L’etimologia della parola comunicare ossia “mettere in comune” sottolinea la valenza sociale di tale atto , oppure  “azione in comune” dunque un continuo scambio di informazioni, idee e concetti, interazioni tra persone o gruppi in un determinato contesto sociale.

Dott./ssa Francesca Santostefano ===>>

Qualsiasi tipo di interazione rimanda ad uno scambio comunicativo-attivo. Occorre tenere presente che la comunicazione rappresenta un fenomeno sociale , dunque tutto ciò che è osservabile in un contesto sociale. La fine del XX secolo è contraddistinta da una grande rivoluzione “sociale” e come tutte le rivoluzioni accadute negli anni addietro, suddetta ha avuto un impatto notevole sugli effetti in primis della globalizzazione e successivamente sulle relazioni interpersonali: la tecnologia digitale ha prodotto i nuovi “Media” come il telefonino, gli smartphone, la televisione digitale e Internet o meglio noto come il w.w.w ( world-wide-web). La cosiddetta digitalizzazione la quale ha permesso agli individui di avere uno scorcio maggiore sul mondo.

Da una parte se il XX secolo è stato contrassegnato dalla nascita del web,  dall’altra oggigiorno si parla della “terza generazione informatica” , l’era del computer ubiquo in cui esso è mobile e integrato in tutti i contesti sociali. L’antropologo Marc Augè  parlava dei “non luoghi” appunto spazi i quali sono costruiti per un fine specifico, come il rapporto che viene a crearsi fra gli individui che interagiscono in questi stessi spazi. Infatti le interazioni in internet hanno luogo in un mondo virtuale del ciberspazio (incertezza dello spazio e del tempo). Sono due i filoni ideologici contrapposti per quanto concerne l’utilizzo di internet: da un lato molti considerano il web un garante di promozione di relazioni che arricchiscono o integrano le interazioni fisiche a noi note.

Benefici dunque perché quando si viaggi o si lavora all’Estero internet può servire per comunicare o mantenere la comunicazione con amici e parenti lontani (elimina le distanze mentali). Un fattore di spinta è dato dalle “chat room” dove molti account si riuniscono per discutere di interessi comuni. Ma il beneficio di internet è opinabile. Sono in molti a schierarsi dalla parte opposta. Maggiore è il tempo che si passa a comunicare online, minore è il tempo connesso alle relazioni umane/fisiche.  Da un punto di vista sociologico si nota un cambiamento molto consistente anche nel linguaggio comune, per cui alcuni dei termini quotidiani sono sostituiti dai nuovi termini “social” come like, chat, verbi come condividere, postare, taggare, linkare, una moda soprattutto diffusa fra i più giovani, i cosiddetti “millenials”.

PATOLOGIE MENTALI CAUSATE DALLA DIPENDENZA DI INTERNET.

La dipendenza dal web, come tutte le dipendenze sociali e mentali, sono classificate nel “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” come patologie cliniche le quali prevedono una determinata diagnosi e vi sono riconosciuti dei sintomi correlati. Alla base di questa dipendenza presa in considerazione si trova una personalità a tratti fragile con una bassa autostima, una socio fobia radicata nelle relazioni e disagi legati alla sfera cognitiva che conducono spesso e volentieri a vere e proprie ossessioni. Tutte le dipendenze sono riconducibili ai disturbi della personalità. Molti sono i sintomi di un atteggiamento iniziale ossessivo- compulsivo che si ostenta verso questa realtà virtuale tra cui:

– In primis l’isolamento sociale riducendo il tempo di qualità che si trascorre nella realtà. Il fenomeno dell’Hikikomori nato in Giappone, diffuso oggi giorno in molti altri paesi industrializzati tra cui l’Italia, prevede un uso smodico di internet dove un individuo si rifugia nel suo personale ambito sociale (in questo caso la propria camera) e trascorre intere ore persino giornate a condividere il proprio quotidiano con amici virtuali.

– Il pubblicare costantemente foto, selfie e i luoghi che si visitano. Apparire perfetti come la foto di una bella famiglia felice e sorridente, ostentare un  trucco elaborato e bei vestiti, incoraggiandosi con frasi del tipo “sii forte” “sorridi sempre” maschera un vero e proprio smarrimento della propria individualità, l’apparire piuttosto che l’essere.

– Il sintomo maggiore è rappresentato da ansia e depressione diffuso soprattutto fra i più giovani. Il cyber bullismo è una conseguenza negativa dell’uso eccessivo dei social dove alcuni ragazzi sono costretti a subire della violenza virtuale/psicologica da bulli virtuali, conduce a conseguenze irreparabili e talvolta induce al suicidio.

– La mancanza di sonno dei “social addicted”. Problemi legati alla mancanza di sonno dovuti al voler continuamente controllare i social, anche di notte, e dunque ha un impatto molto negativo sulle prestazioni notturne.

– “FOMO” (Fear of missing out) ossia la paura di sentirsi tagliati fuori se ci si dovesse staccare dai social più diffusi quali  Facebook o Instangram, la paura di non essere accettati dagli amici virtuali (ad esempio 500 amici su facebook, 1000 follower su Instangram, 1 amico nella vita reale).

– Da un punto di vista del genere le ragazze adolescenti soffrono maggiormente dei disturbi ossessivi dai social in quanto ispirate da foto di modelle, mirano sempre a cercare quella perfezione fisica che spesso si tramuta in depressione, anoressia, episodi di autolesionismo, bassa gratificazione di sé stessi, bulimia cronica.

Sui social è possibile esprimere stati d’animo, condividere momenti di tristezza e felicità, scorci di vita privata cosicchè la privacy diviene un disvalore.

Dott.ssa Santostefano Francesca- Sociologa – Socia ASI

ABSTRACT IN ENGLISH LANGUAGE


SYMBOLIC INTERACTION AND MEANING OF THE IMAGES IN MEDIA SOCIETY

There is a significant and fundamental connection between images and communication, between art understood in the proper sense of the term and the art of the word. “Man intended as being communicating”. The etymology of the word to communicate means “to pool” a continuous exchange of information, ideas and concepts, interactions between people or groups in a specific social context. Any kind of interaction refers to a communicative-active exchange. It should be kept in mind that communication is a social phenomenon, therefore all that is observable in a social context. The end of the twentieth century is marked by a great “social” revolution and like all the revolutions that took place in the past, the aforementioned had a significant impact on the effects of globalization in the first place and subsequently on interpersonal relations; digital technology has produced the new “Media” such as mobile phones, smartphones, digital television and the Internet or better known as the w.w.w (world-wide-web). The so-called digitalization which has allowed individuals to have a greater glimpse of the world. On the one hand, if the twentieth century was marked by the birth of the web, on the other, nowadays we speak of the “third computer generation”, the uniquitous computer era in which it is mobile and integrated in all social contexts. The anthropologist Marc Augè spoke of the “non-places” precisely spaces which are built for a specific purpose, like the relationship that is created between the individuals that interact in those same spaces. Infact, internet interactions take place in a virtual world of cyberspace (uncertainty of space and time). There are two opposing ideological strands as regards the use of the internet: on the one hand, many consider the web a guarantor of promoting relationships that enrich or complement the physical interactions known to us. Benefits therefore because when you travel or work abroad, the Internet can be used to communicate or maintain communication with friends and distant relatives (eliminates mental distances). A boost factor is given by the “chat rooms” where many accounts come together to discuss common interests. But the benefit of the internet is questionable. Many take sides on the other side. The more time you spend communicating online, the less time you have in human / physical relationships. From a sociological point of view there is a very substantial change also in the common language, so some of the daily terms are replaced by the new “social” terms like like, chat, verbs like sharing, posting, tagging, linking, a widespread fashion among the youngest, the so-called “millenials”.

MENTAL PATHOLOGIES CAUSED BY INTERNET DEPENDENCE

Dependence on the web, like all social and mental addictions, are classified in the “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders” as clinical pathologies which provide for a specific diagnosis and there are recognized related symptoms. At the base of this dependence taken into consideration is a personality that is at times fragile with low self-esteem, a phobia partner rooted in relationships and discomforts linked to the cognitive sphere that often lead to real obsessions. All addictions are attributable to personality disorders. There are many symptoms of an initial obsessive-compulsive attitude that shows off towards this virtual reality including:

– First and foremost the social isolation by reducing the quality time spent in reality. The phenomenon of Hikikomori born in Japan, widespread today in many other industrialized countries including Italy, provides for an immoderate use of the internet where an individual takes refuge in his personal social sphere (in this case his own room) and spends entire hours even days to share your newspaper with virtual friends.

– Constantly posting photos, selfies and places you visit. Appearing as perfect as a picture of a beautiful, happy and smiling family, showing off an elaborate make-up and beautiful clothes, encouraging oneself with phrases such as “be strong”, “smile always” masks a real loss of one’s individuality, the appearance rather than the ‘to be.

– The major symptom is widespread anxiety and depression, especially among younger people. Cyber ​​bullying is a negative consequence of the excessive use of social media where some children are forced to suffer virtual / psychological violence from virtual bullies, leading to irreparable consequences and sometimes leading to suicide.

– The lack of social addicted sleep. Problems related to lack of sleep due to wanting to continually check social media, even at night, and therefore have a very negative impact on nighttime performance.

– “FOMO” (Fear of missing out) or the fear of feeling cut off if you were to break away from the most common social media such as Facebook or Instangram, the fear of not being accepted by virtual friends (for example 500 friends on facebook, 1000 followers su Instangram, 1 friend in real life).

– From a gender point of view, adolescent girls suffer more from social obsessive disorders, as they are inspired by models’ photos, they always aim to look for the physical perfection that often turns into depression, anorexia, episodes of self-harm, low self-gratification themselves, chronic bulimia.

On social media it is possible to express moods, share moments of sadness and happiness, glimpses of private life so that privacy becomes a negative value.


Le false accuse nel panorama giuridico

Avv. Martina Grassini

di Martina Grassini

“Prima di intraprendere il viaggio della vendetta scava due fosse”. 

Così suggeriva Confucio qualche secolo fa. Un suggerimento che pare essere lentamente sfumato nel tempo. 

Oggi, quella delle false accuse è una tematica scottante, che continua a coinvolgere specialisti del diritto e non. Avvocati, Magistrati, Psicologi, Psichiatri.

Incolpare una persona di un reato è di per sé semplice: “basta” formulare un’accusa nei suoi confronti depositando formale denuncia/querela e descrivendo i fatti.

Il legislatore, però, consapevole della possibile falsità delle accuse ne ha stabilita la punibilità ai sensi dell’art. 368 c.p. (reato di calunnia), con gravi conseguenze per il (falso) accusatore.

Capita che alcune persone si definiscano “vittime” anche se non lo sono, trattandosi in linguaggio medico di una vera e propria sindrome “false victimization syndrom”. 

Le false accuse possono provenire da soggetti con aspetti irrisolti, anche patologici e con latenti disturbi della personalità.

Terreno fertile per le false accuse pare essere quello delle separazioni giudiziali, ove i reati denunciati (come i maltrattamenti psicologici o lo stalking), non si compongono quasi mai di elementi tangibili e verificabili: ciò che rileva è per lo più la percezione della vittima. 

Le statistiche riconoscono che solo rare accuse si rivelano fondate: il resto costituisce unicamente arma di ritorsione allo scopo di ottenere ingiusti vantaggi.

Ed invero non è raro che “a controversia sanata”, la querela venga rimessa. Ma quali sono le conseguenze? Spesso sono impagabili.

Per la persona calunniata la “falsa accusa” è un’esperienza distruttiva, con snervante sforzo psicologico ed anche impegno di risorse economiche.

E l’accusatore? Se si pensa che raramente diventi un “paziente” della Giustizia, così non è.

La simulazione di reato e la calunnia sono le armi della giustizia contro chi denuncia un crimine inesistente, con le pesanti conseguenze previste dal Codice Penale.


I conflitti nel mondo contemporaneo

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In tale articolo prenderemo in considerazine un oggetto di studio molto importante per la sociologia e per la psicologia sociale: i conflitti.  I conflitti possono essere divisi in due gruppi fondamentali: conflitti intrapsichici e conflitti sociali. I conflitti intrapsichici avvengono nella mente dell’individuo e vedono coinvolti l’Io, il Super Io e l’ID, le tre istanze psichiche che compongono la psiche degli individui. I conflitti sociali vedono contrapposti due o più individui oppure due o più gruppi sociali.                                                                                                                <<<=== Prof. Giovanni Pellegrino

I conflitti sociali si dividono in due gruppi: conflitti a livello microsociologico, che coinvolgono un numero limitato di individui e conflitti a livello macrosociologico che vedono coinvolti un grandissimo numero di persone. Riguardo ai conflitti intrapsichici dobbiamo dire che essi causano un forte spreco di energie nervose. Di conseguenza se durano per troppo tempo oppure se sono particolarmente violenti possono determinare un blackout energetico con conseguente adinamia ed anergia psichica. Particolarmente dannosi sono i conflitti intrapsichici tra tendenze avversative che possono condurre a gravi alterazioni psicologiche dovute all’accumulo di stress. Vogliamo precisare che si parla di conflitto intrapsichico tra due o più tendenze avverastive quando l’individuo deve scegliere tra due o più opzioni tutte negative.                                                       

 In pratica egli deve scegliere il male minore. Meno destabilizzanti per l’equilibrio psicologico del soggetto sono i conflitti intrapsichici tra due o più tendenze attrattive in quanto il soggetto deve scegliere tra opzioni considerate tutte positive. Molto destabilizzanti sono anche quei conflitti intrapsichici che nascono dal fatto che l’individuo deve scegliere tra due tendenze di cui la prima è avversativa e la seconda è attrattiva ma la cui attuazione scatenerebbe dei complessi di colpa molto dispendiosi dal punto di vista energetico.Spesso i conflitti intrapsichici tendono a cronicizzare esponendo l’individuo a rischio di raggiungere il breack point (punto di rottura dell’equilibrio psichico).  A volte i conflitti sociali che perdurano nel tempo possono causare conflitti intrapsichici scatenando sensi di colpa o minando l’autostima dell’individuo. Per risolvere i conflitti intrapsichici non sempre è sufficiente una personalità forte e ben strutturata ma a vole è necessario il concorso di favorevoli circostanze esterne al soggetto. Tali circostanze favorevoli sono: conoscenza di nuovi dati e opzioni, modifica del contesto sociale in cui agisce l’individuo, collaborazione di persone con le quali il soggetto interagisce, etc..                                                                                          

 Riguardo ai conflitti sociali dobbiamo dire che essi sono più frequenti nei periodi storici nei quali sono più forti i fenomeni di mutamento sociale dal momento che i mutamenti causano sempre conflitti tra tradizionalisti e modernisti. Molto importante nel pensiero sociologico è la teoria del conflitto che ha dato luogo ad una interessante lettura della realtà umana. A tale riguardo Wolf afferma che la teoria del conflitto considera la società un’arena nella quale gli individui e i gruppi sociali lottano per la conquista del potere. La società è dunque per i teorici del conflitto un campo di battaglia e i rapporti interpersonali sono in realtà conflitti sociali più o meno intensi. La teoria del conflitto si basa su tre presupposti fondamentali tra loro collegati. In primo luogo tutti gli individui possiedono degli interessi fondamentali da difendere e realizzare. Proprio per difendere tali interessi gli individui entrano in conflitto con altre persone che hanno interessi opposti o comunque non compatibili con i loro. In secondo luogo i teorici del conflitto considerano la lotta per il potere il primum movents delle relazioni sociali dando molta enfasi al carattere egoistico della natura umana. Essi dividono gli uomini in due categorie, ovvero vincitori e vinti. Di conseguenza i teorici del conflitto attribuiscono molta importanza allo studio di quelle caratteristiche che permettono all’individuo di conquistare i vari tipi di potere e di perseguire i propri interessi nei vari sistemi sociali.                                               

 Per i teorici del conflitto il desiderio di potere in tutte le sue forme è innato negli uomini dal momento che fa parte del loro codice genetico. A volte la lotta per il potere è manifesta e dà luogo a conflitti manifesti nei quali le parti in lotta ammettono di volere perseguire determinati interessi non compatibili con quelli della controparte. Altre volte la lotta viene compiuta in maniera non manifesta, in modo diplomatico e velato, dando luogo a conflitti latenti nei quali vengono utilizzate strategie subdole  A volte gli in dividui preferiscono cercare di ottenere il potere con strategie manipolative: tali strategie sono estremamente subdole e molto spesso si basano sul presupposto macchiavellico che “il fine giustifica i mezzi”. Molto interessanti per quanto riguarda differenziazione dei conflitti sono le teorie di Coser. Egli divide i conflitti in due gruppi: “conflitti “realistici” e conflitti “non realistici”. I conflitti realistici sono caratterizzati dal fatto che gli individui utilizzano il conflitto come uno strumento per ottenere quello che desiderano. Al contrario i conflitti non realistici sono finalizzati esclusivamente a diminuire le tensioni psichiche esistenti negli individui.                                                                                                   

Coser mette in evidenza che spesso nei conflitti sono presenti sia elementi realistici che non realistici. Coser, inoltre, ha studiato con molta attenzione i rapporti esistenti tra conflitti e coesioni di gruppo. A tale riguardo egli distingue tra conflitti esterni e interni al gruppo. Entrambi, a suo parere, possono aumentare la stabilità e la coesione di gruppo, rafforzandone l’identità. Coser sostiene che il conflitto esterno rafforza l’identità di gruppo in quanto introduce un nemico esterno al quale è possibile contrapporsi. Tale contrapposizione aumenta il senso di appartenenza e la coesione di gruppo, facendo passare in secondo piano eventuali problemi interni al gruppo. Tali problemi in assenza di conflitti potrebbero a lungo andare compromettere seriamente la coesione di gruppo e far venir meno il senso di appartenenza degli individui al gruppo.  Coser ritiene che anche i conflitti interni possono aumentare la stabilità del gruppo in quanto la lotta contro i devianti è un modo per riaffermare le regole e la morale di gruppo. Vogliamo precisare che i devianti sono quei membri del gruppo sui quali si concetra l’aggressività dgli altri componenti del gruppo dal momento che i devianti rifiutano le regole e la morale di gruppo.                                                                                                       

   A nostro avviso non sempre i conflitti interni aumentano la coesione e la stabilità di gruppo. Ciò è vero solamente se i devianti sono dotati di risorse limitate che non permettono loro di opporsi con successo agli altri membri del gruppo. Qualora non fosse così i devianti potrebbero scatenare una guerra interna al gruppo che potrebbe portare alla disgregazione del gruppo oppure al mutamento delle regole e della dinamica interna.   Dopo aver esposto il pensiero di Coser torniamo ad interessarci dei presupposti della teoria del conflitto enunciando il terzo presupposto: i teorici del conflitto considerano i valori e le idee uno strumento utilizzato dai vari gruppi per difendere i loro interessi e per mantenere o conquistare il potere in tutte le sue forme. Per dirla in altro modo i detentori del potere userebbero la forza delle idee per legittimare il loro dominio, mentre i dominati si servirebbero delle idee per delegittimare il potere dei loro avversari. A nostro avviso non è sempre vero che le idee siano semplici riflessi degli interessi di potere, dal momento che possono nascere anche da esigenze conoscitive che niente hanno a che vedere con le esigenze di legittimazione o di delegittimazione dello status quo esistente in un dato sistema sociale.                                                                                 

 In ogni caso il problema della legittimazione sociale è senza dubbio un problema importante sia a livello micro sociologico che macro sociologico.   Per fare degli esempi un individuo deve legittimare il fatto che emargini un altro individuo mentre una nazione deve legittimare il fatto che scateni una guerra contro un’altra nazione.  Soprattutto nella società contemporanea nella quale l’opinione pubblica è diventata sempre più importante, il problema della legittimazione sociale ha assunto un notevole rilievo. Molti sociologi mettono in evidenza che il potere dell’opinione pubblica è diventato una delle forme di potere più forti nei sistemi democratici. Tuttavia bisogna mettere in evidenza che l’opinione pubblica non è sempre un giudice attendibile in quanto è facilmente manipolabile ed inoltre è particolarmente incostante e volubile nelle sue valutazioni. Chiudiamo il nostro discorso sui conflitti sociali affermando che esistono vari modi per giungere alla risoluzione di essi.

  In primo luogo un conflitto termina quando una delle due parti in lotta viene sconfitta. In secondo luogo un conflitto si esaurisce se le parti giungono ad un compromesso accettabile da entrambe. In terzo luogo un conflitto si esaurisce quando le parti non hanno più energia e motivazioni sufficienti per continuare la lotta. In quarto luogo un conflitto può esaurirsi anche momentaneamente quando si presentano dei fatti che abbassano il livello di attenzione nei riguardi del conflitto stesso. Se non si verifica nessuna di queste tre condizioni il conflitto diventa cronico. Vogliamo evidenziare che tendono a cronicizzare soprattutto quei conflitti che presentano minore violenza e intensità La violenza di un conflitto dipende dal tipo di armi utilizzate nella lotta mentre l’intesità del conflitto dipende dalla percentuale di risorse che ciascuna parte inpegna nel conflitto. A volte un conflitto si cronicizza perché tale cronicizzazione è funzionale agli interessi delle parti. Per fare un esempio un conflitto può diventare cronico perché l’esistenza di tale conflitto permette alle parti in lotta di distogliere l’attenzione da importanti problemi presenti nei sistemi sociali delle parti in lotta.                                        

Per essere ancora più chiari possiamo dire che una guerra tra due nazioni nel momento in cui si protrae nel tempo permette ai governi delle due nazioni di far passare in secondo piano i problemi di politica interna presenti nei due sistemi sociali.      

                                                                                                                              Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri


Nuove frontiere della diagnostica medica: gastroscopia e colonscopia ora si fanno con la pillola che filma il nostro organismo…

di Emilia Urso Anfuso

Nel 1966 fu proiettato nei cinema un film dal titolo “Viaggio allucinante”. La pellicola di fantascienza era tratta da un racconto, scritto a quattro mani, dal produttore cinematografico Otto Klement e da Jerome Bixby, uno scrittore e sceneggiatore statunitense. Per la sceneggiatura fu incaricato addirittura Isaac Asimov, il famoso biochimico e scrittore sovietico autore di tanti successi editoriali. La trama del film è davvero fantastica.

<<== Dott.ssa Emilia Urso Anfuso

Ambientato nel periodo della cortina di ferro, frontiera politica imposta sul territorio europeo e che, dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino alla fine della Guerra Fredda, permise agli URRS di controllare l’Europa orientale, in contrapposizione al potere politico statunitense che aveva in mano il controllo del versante occidentale, vede protagonisti un gruppo di scienziati russi e americani che lavorano a un progetto di nanotecnologie dedicato alla miniaturizzazione del corpo umano. Riescono nell’intento, ma con un limite: l’effetto dura solo 60 minuti. Uno dei ricercatori scopre il modo d‘estendere all’infinito l’effetto della riduzione delle misure corporee, e in una rocambolesca serie di azioni, durante la sua fuga subisce un attentato e viene colpito quasi mortalmente, rimanendo in stato comatoso e con un embolo cerebrale. Pur di salvarlo, un team di scienziati statunitensi decide di operarlo con una soluzione incredibile: miniaturizzare un sottomarino alle dimensioni di un chicco di riso con, a bordo, lo staff medico necessario ad agire per rimuovere l’embolo.

In 60 minuti, e con una serie infinita di contrattempi, l’operazione riesce. Il gruppo di microscopici specialisti, a missione compiuta, riesce a salvarsi grazie all’intervento esterno degli altri scienziati, e appena in tempo per ritornare alle dimensioni umane… Incredibile, vero? O forse no…Le nanotecnologie non interessano esclusivamente il settore informatico. Da molto tempo i ricercatori di tutto il mondo lavorano per trovare soluzioni atte a sostenere la salute umana con minor dispendio di tempo, e con tecniche non cruente e meno invasive. I risultati ottenuti sono ormai così soddisfacenti da averci abituato a realtà che, fino a qualche decennio fa, potevano essere incluse unicamente nei romanzi e film fantastici.

Ecco quindi una di quelle informazioni che ci spinge a riflettere sull’evoluzione e il progresso che l’umanità sta continuando a compiere: è già in uso da un paio di anni, in alcuni reparti di gastroenterologia e in particolari modo nei centri diagnostici privati, la capsula da ingerire che permette a uno specialista di vedere il nostro tratto gastrointestinale senza dover ricorrere a metodi diagnostici quali la gastroscopia o la colonscopia. Si tratta di una capsula da ingerire come un qualsiasi farmaco e la cosa incredibile è che al suo interno è installata una microtelecamera in grado, nelle ore successive all’assunzione orale, di far vedere al medico le condizioni del nostro corpo dall’interno.

Questo permette di non dover subire l’introduzione di tubi e tubicini per via orale o peggio anale. Ingollando una capsula con un sorso d’acqua si permette la visione endogena, che con questa soluzione rende possibile di scrutare anche gli anfratti, cosa che con le tradizionali metodologie non è concesso di ottenere. Questa “magia” della scienza si chiama PillCam, ed è una capsula ovviamente monouso. Presentata pubblicamente nel 2018 durante un incontro con la stampa organizzato da MedTronic, azienda statunitense leader a livello mondiale per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie biomediche, permette non solo di risparmiare tempo durante le attività diagnostiche, bensì di impattare meno sui costi che il SSN deve affrontare ogni anno per le patologie gastroenterologiche.

Diagnosi per arrivare alle quali sono necessari altri esami – almeno quattro o cinque – prima di giungere alla risoluzione finale di “guardare” dentro il corpo umano.  I prezzi adottati presso i centri privati di diagnostica si aggirano sui 1.000 euro, e ancora non esiste la possibilità di poter passare per il Sistema Sanitario Nazionale , anche se già nel 2017 il metodo fu inserito nei LEA – Livelli Essenziali di Assistenza. Per ora, a livello ospedaliero, se ne avvalgono presso l’Ospedale Niguarda di Milano, tra i primi in Italia, il centro ospedaliero di Ravenna e altri poli sanitari pubblici. Il futuro è già qui…


L’era della mediocrità

di Patrizio Paolinelli

La cultura sta morendo? Questa preoccupante domanda capita di sentirla formulare in orazioni più o meno esplicite durante convegni, dibattiti, trasmissioni radiofoniche, interviste e così via. Ovviamente la cultura non sta morendo, basti pensare solo al fatto che tutti noi continuiamo a utilizzare la nostra lingua. E se la cultura fosse morta non ci sarebbero più parlanti. Tuttavia, se la domanda si pone ormai da diversi anni e non trova una risposta, vuol dire che qualcosa di importante è accaduto e questo qualcosa ha un effetto catastrofico tanto da ricorrere all’immagine della morte.

<<=== Prof. Patrizio Paolinelli

Prima di individuare le cause della catastrofe e capire cosa ha lasciato al suo passaggio è necessario indicare anche solo sommariamente le basi materiali su cui si è edificato l’immaginario culturale del nostro recente passato. Quello ricordato con una punta di nostalgia da anziani, da uomini e donne di mezza età e che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso. Un battito di ciglia dal punto di vista della storia, un abisso per un giovane di oggi.

In quel passato l’espressione artistica e la lotta politica formavano un sodalizio che produceva l’intellettuale impegnato tra i cui compiti c’era quello di scandalizzare  la borghesia benpensante. Non solo: gli stessi partiti politici avevano una precisa idea di società e un progetto a realizzare. Per non andare troppo indietro nel tempo si pensi agli scritti di Enrico Berlinguer, di Aldo Moro e dei leader di gruppi e movimenti extraparlamentari. Accanto ai partiti di massa (o aspiranti tali) si affermavano poi istituzioni quali la scuola e l’università. Che non solo si radicavano nella società ma proliferavano con la moltiplicazione di discipline, cattedre, istituti, dipartimenti e così via. Conseguenza: il professore di scuola media  e delle superiori godeva di un forte prestigio sociale, che diventava fortissimo per il docente universitario. Altra conseguenza: il libro costituiva un oggetto circondato da un’aura quasi sacrale. Era grazie a questo mezzo di comunicazione che il sapere veniva trasmesso e gli scrittori guerreggiavano tra loro rafforzando simbolicamente il ruolo sociale dello studente e dell’autore.

A costruire l’immaginario di una cultura come motore della civiltà e opportunità di emancipazione per i ceti popolari ha contribuito il mercato editoriale. Negli anni ’60  e  ’70 del secolo scorso le case editrici nascevano come funghi, andavano a caccia di talenti e scommettevano sulle novità. Le major dell’editoria nazionale fiutata l’euforia del mercato si adeguavano producendo collane memorabili: per tutte ricordiamo il “Nuovo Politecnico” dell’Einaudi. Sempre in quei due decenni alcune discipline godevano di altissima reputazione. Ad esempio: la vecchia filosofia, la giovane sociologia e la ancor più giovane antropologia culturale. Tutte e tre, si badi bene, erano vissute come strumenti per il cambiamento del mondo. La cultura espressa da queste branche del sapere si presentava come una leva per spingere all’azione (politica e non). La millenaria filosofia con le sue idee sulla società giusta, la rampante sociologia con le sue verifiche sulla disuguaglianza, e l’ultima arrivata, l’antropologia culturale, con le sue indagini sui nostri modelli interpretativi dell’Altro diventavano armi intellettuali di cui tutti in qualche maniera si appropriavano orientando un senso comune che, ad esempio, si esprimeva con cantautori impegnati come Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fabrizio De Andrè solo per citare alcuni nomi. Insomma, tra gli anni ’50  e gli anni ’70 del Novecento ha raggiunto la sua massima espansione una koinè culturale fondata sull’idea di progresso, di critica del presente e di emancipazione sociale.

Ed è su questo terreno che le organizzazioni sindacali da un lato e il femminismo dall’altro hanno dato luogo a un’intensa produzione di libri e riviste, ricerche e riflessioni sul lavoro, il movimento operaio, i movimenti delle donne. Ultima architrave degli anni ruggenti della cultura è data dall’espansione del welfare state. Il quale non solo ha finanziato direttamente o indirettamente tante delle iniziative e delle istituzioni di cui abbiamo fatto cenno, ma ha creato un clima, appunto culturale, per cui era considerato automatico che all’aumento di solidarietà sociale corrispondesse un miglioramento della qualità della vita di tutti.

A partire dagli anni ’80 iniziano a sgretolarsi le basi di un immaginario che viveva la cultura come un’esperienza viva, un’esperienza che metteva in discussione molti aspetti della vita quotidiana in vista di una società più giusta. Come noto la spinta propulsiva alla “rivoluzione conservatrice” è stata data dalle politiche di Ronald Reagan negli Usa e da quelle di Margaret Thatcher in Inghilterra. Il resto della storia è ancora più noto: in Europa il socialismo reale collassa, gli Stati Uniti vincono la guerra fredda e il liberismo si impone su scala mondiale. Di quel mondo, il mondo della cultura intesa come mezzo per la trasformazione della propria vita e della società oggi non resta quasi più nulla. Ed è per questo motivo che si sente parlare di morte della cultura. In senso lato effettivamente una cultura è davvero in via di estinzione. Le cause politiche le abbiamo appena accennate. La conseguenza forse più importante di tali cause è che dagli anni ’80 ad oggi il capitale ha stabilito la propria egemonia sul lavoro. Ed è a partire da questo progressivo squilibrio di rapporti di forza tra classi sociali che ad una ad una sono attaccate, demolite e trasformate le basi che sorreggevano i codici culturali del Novecento.

Tuttavia la messa in crisi del lavoro salariato e a tempo indeterminato, così come l’implacabile demolizione del welfare state imposta dal neoliberismo non bastano a elaborare il lutto di una cultura che non c’è più.  Ad essa si è sostituita un’altra visione del mondo. Una visione che non molto tempo fa ha fatto affermare a Giulio Tremonti, allora importante ministro della Repubblica, che con la cultura non si mangia, e più recentemente al presidente Barack Obama che è meglio lavorare in fabbrica anziché prendere una laurea in storia dell’arte (Obama si è poi scusato per la sua affermazione, il nostro ministro no). Come si è giunti a questo rovesciamento di senso in tempi tutto sommato così rapidi? Attraverso il crollo più o meno rovinoso delle colonne che sorreggevano il precedente immaginario. Un immaginario in cui la cultura è precondizione all’agire collettivo indipendentemente da qualsiasi appartenenza. Ed ecco una ad una le colonne che crollano.

L’arte si è separata dai movimenti politici antisistema. I partiti politici sono fagocitati dall’economia e non ipotizzano più un progetto sociale (non fanno più sognare). La scuola pubblica è il primo bersaglio da colpire quando i governi decidono di ridurre la spesa. La piccola editoria muore mentre le major hanno fatto del libro una merce come le altre. Il libro stesso, con la diffusione dei media elettronici e l’avvento di Internet, ha perduto il suo privilegio di strumento principe per la trasmissione del sapere. La filosofia, la sociologia  e l’antropologia culturale si sono trasformate in discipline per addetti ai lavori, discipline incapaci di parlare a un vasto pubblico, meglio, a un pubblico concorrenziale rispetto a quello della Tv; i cantautori impegnati invece non ci sono più e se ci sono si ritrovano frullati nella più che abbondante offerta di musica pop. Il sindacato è sulla difensiva a causa della diffusione del precariato, delle delocalizzazioni e del potere assunto dall’economia finanziaria, mentre il femminismo è quasi scomparso dal nostro habitat culturale. In quanto al nostro arretrato welfare state è sottoposto da vent’anni a continue cure dimagranti tanto che la maggioranza dei pensionati italiani percepisce oggi un reddito di circa 500 euro al mese. E gli intellettuali impegnati? Definitivamente scomparsi. E con loro è finita la guerra dei libri.

Tutti questi crolli dell’immaginario novecentesco hanno aperto il passaggio a un inedito immaginario fondato sul consumo, sulla mercificazione e la spettacolarizzazione di ogni cosa. Tuttavia, nonostante il passaggio d’epoca, ci ritroviamo oggi senza un’idea del futuro, anzi, peggio ancora, ci ritroviamo ad aver paura del domani. Per di più il mondo attorno a noi è sempre più complesso e incomprensibile. Ma quel che è peggio è che le parole hanno perso valore. In una società dello spettacolo ogni libro che esce è un capolavoro, ogni film meriterebbe l’Oscar, ogni canzone è indimenticabile, ogni performance artistica imperdibile e così via. Paradossalmente è vero anche il contrario: il prodotto culturale di alto profilo viene rapidamente dimenticato. E’ la sindrome del successo. E siccome per arrivare al successo ci sono dei costi da sostenere molta produzione culturale si trova incanalata nelle strategie del marketing. Strategie per le quali il consumo viene prima della cultura. Sicuramente si tratta di un modo per fare profitti, ma in alcuni settori ha condotto a una evidente crisi della creatività. Prendiamo l’industria dei best seller. Sforna libri pianificati a tavolino, magari con un sapiente mix di generi letterari, per un prodotto vendibile a livello planetario.

Ciò implica una preoccupante uniformità di stile che si insinua nel circuito della cultura di massa. Basti pensare ai romanzi di Stephen King che, con la supervisione dello stesso autore, si trasformano ipso facto in serie televisive. O alle saghe cinematografiche: sempre più prevedibili con la loro teoria di prequel e sequel. O ai remake, sempre del grande schermo, basati su originali poco conosciuti, se non addirittura sconosciuti, a un pubblico privo di memoria.

Da questi processi viene fuori che in una società incredibilmente frammentata come la nostra una parte significativa della cultura segua il movimento opposto e si condensi. Tra gli effetti principali effetti c’è quello conformare i gusti del pubblico alla logica dell’intrattenimento. E intrattenimento diventa sinonimo di semplificazione dei linguaggi: dall’italiano standard della TV ai romanzi dal volo radente che rinunciano ad affrontare sul serio le problematicità della vita. Insomma, tiranneggiano le dee attualità, novità, mediocrità. Si vive confinati nell’orizzonte del presente, tanto che l’ideologia del corpo ha preso il sopravvento su ogni trascendenza. Nel migliore dei casi le esigenze di utopia e di spiritualità vengono dissolte nel calderone della New Age o di quel che ne resta. Il corpo glamour, con tutto il suo contorno di vita mondana e viaggi esotici, costituisce oggi una delle massime aspirazioni collettive. E l‘investimento principale da fare non è sugli altri ma su se stessi. Come sa bene qualsiasi attore queste sono le dure regole dello spettacolo. E queste regole sono diventate oggi habitus mentale. Il vantaggio di tale pragmatismo è dato da una radicale semplificazione della vita: se il tuo prodotto (culturale e non) non ha successo lascia perdere.  

Insomma, l’umanesimo è finito da un bel po’ ed è finito anche il tempo delle avanguardie. Il grande pubblico del terzo millennio chiede modelli culturali per passare da un’identità all’altra. Certo ricorre ancora al testo scritto quando è in crisi. Ma sotto forma di manuali di auto-aiuto e di rubriche per i lettori. Ci sono in commercio ormai così tante verità che ognuno compra la sua finché non si stanca e cambia. Tutto questo produce piccole e grandi mode cultuali in continua fluttuazione nel firmamento mediatico tanto che la parola “rivoluzione” è talmente abusata che non si sa più bene cosa voglia dire. Persino il principe Harry è definito un ribelle. In questo traffico di icone lo stilista, il tecno-scienziato e la rockstar sono rivoluzionari di professione in servizio permanente effettivo. E offrono verità provvisorie al pubblico. Verità buone per il qui e ora in attesa della prossima rivoluzione.  

La produzione tecnica dell’immaginario collettivo ha trasformato il modo di lavorare  e di consumare il prodotto culturale (ad esempio dando vita al romanzo natalizio e a quello scritto per essere sceneggiato), e ha generato un nuovo tipo di consumatore. Di più: una nuova figura sociale perennemente assetata di novità da divorare rapidamente. E le industrie culturali sono pronte a soddisfare tale domanda. Se si aggiunge l’enorme pressione esercitata dai visual media, la generalizzata contrazione della carta stampata e le trasformazioni del modo di comunicare indotte dalla rete comprendiamo quanto siano solide le colonne dell’immaginario culturale fondato sullo spettacolo. E quanto sia penoso lo scacco in cui è costretto l’immaginario fondato sul libro. Tutto questo suggerisce che forse siamo alle battute finali di una guerra per l’egemonia culturale. Al momento il consumatore di immagini assedia il lettore impegnato.

Patrizio Paolinelli, VIAPO, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro.


MIGRAZIONE E WELFARE

di Alessia Maria Lamberti

Come l’immigrazione viene gestita dai governi centrali o a livello internazionale? Generalmente le politiche pubbliche in materia di immigrazione si suddividono in due grandi classi: le politiche migratorie rivolte alla regolazione del flussi migratori e al controllo dell’ammissione sul territorio di cittadini stranieri, e le politiche relative agli immigrati, che comprendono quelle di integrazione e di ammissione alla cittadinanza .

Dott./ssa Alessia Maria Lambaerti ==>>

La questione del controllo  dei flussi migratori assume una posizione di rilievo nelle agende politiche dei governi, in particolare a partire dal blocco dell’immigrazione nei primi anni Settanta. Negli ultimi decenni, infatti, si è verificato un noto paradosso per cui sono stati liberalizzati molti tipi di scambi e flussi attraverso le frontiere, mentre i movimenti di persone sono stati sottoposti a regimi restrittivi e sempre più stringenti, con l’intento di dimostrare di poter tenere sotto controllo i confini dello Stato, per evitare di incorrere in crisi di fiducia da parte dei cittadini che chiedono di essere protetti da potenziali terroristi, fiancheggiatori o reclutatori. La letteratura sul tema ha sottolineato la de naturalizzazione dei confini mediante la crescente dotazione di strumenti tecnologici per l’identificazione dei viaggiatori e la sorveglianza dei punti di passaggio, ma anche con il ricorso all’antichissima tecnica dei muri. Ambrosini, ci propone l’evoluzione di tale controllo in tre direzioni: verso l’alto con l’accresciuto ricorso ad agenzie ed organismi sovranazionali ( il Frontex); verso il basso con la richiesta alle autorità locali di collaborare all’attuazione di politiche più stringenti di controllo del territorio; verso l’esterno, con il coinvolgimento di attori privati, a cui viene richiesto sotto pena di sanzioni, di verificare con scrupolo la validità dei documenti degli stranieri. 

Facendo riferimento allo scenario Europeo, la priorità viene attribuita alla repressione dell’immigrazione irregolare: l’Unione Europea promuove una chiusura verso Sud e verso l’immigrazione scarsamente qualificata, resistenza nei confronti dei rifugiati, apertura verso l’Est Europa e completa libertà nel caso dei nuovi paesi membri. Le possibilità di ingresso legale oggi disponibili nei maggiori paesi Europei, si collocano ai due poli opposti della struttura occupazionale:  o si tratta di autorizzazioni per lavori stagionali, oppure  di lavoratori ad alta qualificazione. Le restrizioni, in particolare, si sono abbattute sul diritto d’asilo e sulla possibilità di ingresso per ragioni umanitarie; tra le svariate misure misure volte ad ostacolare l’ingresso dei richiedenti asilo, la più incisiva e discussa riguarda la responsabilizzazione dei paesi di transito o di primo ingresso ( Convenzione di Dublino): è qui che il rifugiato deve presentare la domanda di asilo, e in caso di riconoscimento questi paesi hanno l’obbligo di accoglierlo. Alessandra Corrado, in Migrazioni per lo sviluppo, infatti, ci  ricorda due principali strumenti adottati dalla cooperazione europea: la politica europea di vicinato ( PEV) e la politica di co-sviluppo. La PEV rappresenta il quadro strategico per l’intensificazione della cooperazione con i paesi prossimi, permettendo di realizzare un sistema di cogestione delle frontiere. La politica di co-sviluppo, invece, è rivolta ai paesi in via di sviluppo; in particolare è da annoverare il piano di azione adottato a Rabat nel 2006 composto da tre assi: la promozione dello sviluppo, promozione della migrazione legale, repressione della migrazione illegale attraverso il rafforzamento della capacità di controllo delle frontiere nazionali dei paesi di transito e di partenza. I progetti messi in atto a livello istituzionale, per la promozione del co-sviluppo, però, sono spesso complessi e di difficile realizzazione, non riscuotono fiducia ma sospetto nella gestione dei fondi ecco perché i migranti scelgono attività informali di natura individuale o comunitaria.

Infatti gli stessi, anziché sottomettersi ai vincoli imposti dai paesi riceventi, hanno perseguito strade alternative, ma spesso sono stati intercettati e fermati nel corso del viaggio, altri sono caduti  preda di organizzazioni criminali, molti sono arrivati ma hanno avuto la possibilità di inserirsi in qualche interstizio dell’economia sommersa. Di conseguenza, si registra un divario tra immigrazione autorizzata ed immigrazione effettiva, che rimane aperto nonostante la capacità degli Stati nel controllo dei flussi migratori si sia rafforzata nel corso del tempo; i governi di questo ne prendono coscienza assumendo provvedimenti per superare tale divario. L’ICMPD, a tal proposito,  ci fornisce due principali classi di sanatoria della condizione di soggiorno irregolare degli immigrati: i programmi di regolarizzazione, validi per periodi di tempo limitati e mirate su specifiche categorie di stranieri in condizione irregolare; e i meccanismi di regolarizzazione, ovvero l’insieme di procedure attraverso cui gli Stati garantiscono uno status legale agli stranieri presenti irregolarmente sul territorio, sulla base di una lunga permanenza o per caratteri umanitari.

Ma osserviamo, in particolare, i caratteri rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia: il carattere collettivo e di massa ( nel nostro paese non sono stati adottati provvedimenti individuali, concessi caso per caso, ma la strada adottata è stata quella di provvedimenti con termini rigidi nella presentazione delle domande, che comportano lunghi tempi di attesa, difficoltà di esame approfondito delle istanze, e l’inevitabile ricerca di escamotage e soluzioni di comodo); la ricorrenza periodica ( la media è stata fino al 2012 circa una sanatoria ogni tre anni e mezzo. Questo comporta una costante precarietà degli immigrati presenti nel territorio Nazionale); elevati livelli di discrezionalità ( lasciati alla macchina burocratica e ai funzionari che esaminano concretamente le istanze, gli immigrati subiscono disparità di trattamento e persino peregrinazione delle istanze da una questura ad un’altra).

Tutto ciò, ci permette di avanzare due osservazioni: la prima fa riferimento al dilemma delle democrazie liberali; la seconda, invece, fa riferimento alla precarietà evidente a causa delle sanatorie. Per quanto riguarda il dilemma delle democrazie liberali possiamo dire che per diventare più efficienti nella repressione dell’immigrazione irregolare, gli stati dovrebbero diventare meno liberali. E’ per tali ragioni che hanno messo in atto delle Sanatorie rivolte alla regolarizzazione, ma che hanno generato maggiore precarietà: è quasi surreale pensare che gli immigrati per poter conservare lo status di regolari, devono avere un’occupazione stabile, quando il mercato li richiede in riferimento all’economia sommersa e quindi per lavori instabili e precari. Diventa sempre più complicato riuscire a conservare il permesso di soggiorno, ma, anche riuscire a ritornare nel proprio paese d’origine.

Il secondo versante delle politiche migratorie, riguarda, come anticipato precedentemente,  l’integrazione degli immigrati nelle società riceventi. La letteratura sull’argomento ha individuato tre principali modelli d’inclusione delle popolazioni immigrate:

il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea in cui la stessa è vista come un fenomeno funzionale, ovvero gli immigrati sono considerati lavoratori chiamati, in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non devono mettere radici. Questo è il caso della Germania che si riteneva un paese di lavoratori ospiti; Castels a tal proposito parla di un modello di esclusione differenziata, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società, ma si vedono negato l’accesso ad altre ( come la partecipazione politica e la cittadinanza);

il secondo modello  può essere definito assimilativo che ha trovato in Francia una sua manifestazione convinta. Qui il criterio fondamentale è l’omologazione anche culturale dei nuovi arrivati: è aperta l’ammissione ai nuovi venuti, a patto che aderiscono alle regole della politica democratica adottando la cultura della nazione ospitante. Per entrare a far parte a pieno titolo della nazione, gli immigrati devono avere alcuni anni di soggiorno, la fedina penale pulita, la conoscenza della lingua, e alcune conoscenze di base circa la storia e i fondamenti costituzionali. Le seconde generazioni acquistano a pieno titolo la cittadinanza secondo il principio dello ius soli: chi nasce sul territorio ne acquisisce la nazionalità;

il terzo modello è quello pluralista o multiculturale, in cui convergono esperienze storiche, matrici culturali e orientamenti politici differenti. Questo terzo modello può essere distinto in due varianti: quella liberale, tipica degli Stati Uniti, in cui si è tolleranti verso le differenze culturali, ma non sono favorite dall’impegno statale; e quella delle politiche multiculturaliste esplicite che implicano la volontà del gruppo di maggioranza di accettare le differenze culturali. Gli aspetti positivi di questo terzo modello, seppur nelle sue varianti, sono quello di attribuire un primato ai diritti individuali rispetto le norme comunitarie promuovendo una concezione multiculturale di cittadinanza, e quello di eliminare le forme discriminatorie e gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati.

Ma in questo panorama, dove si colloca l’Italia? Possiamo partire definendo i caratteri delle politiche migratorie in materia di inclusione, nella nostra Nazione: non ci sono politiche di reclutamento, vi è una scarsa regolazione istituzionale, vi è un’influenza rilevante degli attori sociali, una ricezione contrastante che va da aperture umanitarie a fenomeni di chiusura e rigetto, una diffusa rete di mutuo aiuto spontaneo tra connazionali, un inserimento nel mercato del lavoro informale. Pertanto, secondo queste premesse, Ambrosini ci suggerisce di parlare di un modello implicito di inclusione, in riferimento all’Italia, caratterizzato da politiche per lo più di carattere emergenziale. Tra queste ricordiamo la legge Turco-Napolitano, che poneva l’enfasi sulla parità giuridica e il rispetto delle differenze culturali, e introdusse l’istituto dello sponsor, per fornire maggiori garanzie per consentire l’accesso e il soggiorno a immigrati per motivi di lavoro; la legge Bossi-Fini che ha eliminato quest’ultimo istituto, ponendo alternative più stringenti. Per arrivare, poi, al governo di centro destra eletto nel 2008 che promuove il collegamento immigrazione e ordine pubblico, ancora oggi al centro del dibattito pubblico e politico e oggetto delle future politiche migratorie, in particolare quelle relative al governo M5S-Lega.

La logica emergenziale, infatti, ha caratterizzato tutte le forme di inclusione nel nostro paese, come ad esempio: le strutture di prima accoglienza e smistamento (CPSA, CDA, CASA) situate soprattutto nelle regioni meridionali, che avrebbero compiti di primo soccorso, identificazione e raccolta delle domande di asilo; i centri del sistema SPRAR istituito nel 2003 e rinominato SIPRIOMI nel 2018, che prevede un’accoglienza integrata per gruppi limitati di persone, in collaborazione con i Comuni che si candidano presentando appositi progetti ( dal 2018,però, possono accedervi solo persone in condizioni di vulnerabilità); i centri di accoglienza straordinaria  che sono stati istituiti come soluzione di emergenza per tamponare la mancanza di posti nel sistema SPRAR.
L’accoglienza, in sostanza, è stata ridotta alla risposta ad esigenze minimali, che candida, inoltre, gli immigrati alla  quasi totale esclusione sociale.

Abbiamo parlato della cittadinanza, e abbiamo visto come differenti modelli di inclusione, hanno concezioni differenti di cittadinanza in rapporto all’immigrazione.  Vi sono tre diversi criteri di attribuzione della cittadinanza: il diritto di sangue, il diritto di suolo e il diritto di residenza ( si può aggiungere anche lo ius culturae, ovvero l’attribuzione della cittadinanza a chi frequenta almeno 5 anni di scuola nel nostro paese e consegue un titolo di studio). Ma cosa vuol dire cittadinanza in rapporto ai processi migratori?  Riprendendo Zincone, consideriamo i principali significati: il primo riguarda l’appartenenza ad uno Stato, quindi risiedere liberamente sul territorio,  uscire e rientrare dai suoi confini. Il secondo fa riferimento all’emancipazione, soprattutto alla possibilità di partecipare alle decisioni pubbliche ( diritti politici di Marshall); con il terzo intendiamo, invece, la possibilità di godere della protezione e dei benefici garantiti dai poteri pubblici ( diritti sociali di Marshall); infine, vi è il quarto significato per cui si registra un uguaglianza tra i cittadini, in cui non si esclude il pluralismo. Ma, se nel campo degli studi, si considera sempre la cittadinanza dall’alto, è importante anche la cittadinanza attribuita dal basso, ovvero l’insieme di relazioni tra individui, gruppi e istituzioni che si costruisce giorno dopo giorno nel tempo.

Tra le pratiche di cittadinanza dal basso emergono le pratiche di volontariato, formali e informali a cui partecipano gli immigrati con l’intento di presentarsi come cittadini attivi, solleciti del bene comune e impegnati a migliorare la qualità della vita sociale. A tal proposito, è importante sottolineare anche gli aspetti positivi della nostra nazione, l’Italia, citando l’esperienza di Camini. Dal 2010, e ancora nel 2016 e 2018, il comune calabrese, è stato protagonista di vari progetti volti a garantire l’inclusione della popolazione immigrata. Questi progetti hanno avuto impatti positivi non solo dal punto di vista degli immigrati, ma anche della popolazione autoctona:  la presenza di giovani e bambini migranti ha contribuito ad evitare la chiusura dei servizi educativi di un paese ormai in spopolamento; vi è stata una ripresa degli esercizi commerciali,e grazie all’aumento di manodopera si è promossa la ristrutturazione del centro storico, sono stati recuperati terreni abbandonati per la produzione dell’olio extravergine d’oliva, sono stati creati laboratori artigianali di cucina, legno, pittura, sartoria, ferro battuto e ceramica.

Possiamo concludere questo capitolo, pertanto, affermando che a livello nazionale e internazionale, in rapporto ai processi migratori, si è registrata una crescente deresponsabilizzazione dei governi centrali e delle istituzioni, mentre un ruolo centrale viene attribuito ai governi locali, al terzo settore e alle associazioni di volontariato. Ciò a cui puntano le politiche migratorie è un controllo delle frontiere, mediante un’azione di esternalizzazione: bloccare i flussi migratori ai confini degli Stati membri e bloccare le domande di asilo, deresponsabilizzandosi, attribuendo responsabilità nella valutazione delle domande e nell’accoglienza ai paesi di transito dei migranti. Ma perché i flussi migratori sono al centro dei discorsi politici, ma poi vengono depoliticizzati attraverso l’implementazione di tali politiche? Tutta la visione migratoria sembra essere Eurocentrica, mai si considerano le condizioni dei paesi in via di sviluppo o non sviluppati a cui si riversa questa responsabilità, non ci si chiede perché le persone decidono di emigrare dal loro paese d’origine, e quali possono essere i giusti mezzi per fronteggiarla. La migrazione viene dibattuta con carattere emergenziale, lo stesso carattere che fa emergere l’ostilità della popolazione autoctona, utilizzata per giustificare le politiche di esternalizzazione e deresponsabilizzazione.

Tutte queste dinamiche occultano gli effettivi numeri della popolazione immigrata ( nel 2017 circa il 3% della popolazione mondiale), ma soprattutto la costante precarietà e incertezza, sembra essere la principale causa per cui diminuisce il numero di immigrati regolari, ma viene avvantaggiato l’arrivo dei migranti illegali o la permanenza dei migranti irregolari.

Ora, concentriamoci ai sistemi di welfare in Italia, e quindi alle garanzie dei diritti sociali rivolti agli immigrati. Come suggerisce Alessandro Sicora,  per comprendere la situazione attuale e le prospettive future, è utile volgere uno sguardo al passato. Solitamente i diritti di cittadinanza vengono indicati in un pacchetto di servizi, detti welfare, che riguardano i livelli minimi essenziali per una vita decente delle persone e delle famiglie, ossia: l’istruzione, la sanità, la sicurezza sociale, l’alloggio, e in caso di necessità, i servizi particolari alle persone. A partire dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, possiamo riconoscere tre fasi del sistema di welfare: la fase della beneficienza privata, dove una serie di realtà private, religiose o laiche, effettuano un’attività di beneficienza rivolta a persone in stato di difficoltà, dove lo Stato non ha alcuna responsabilità. La fase della beneficienza pubblica, che prende avvio con la legge Crispi, che inserisce la beneficienza entro le funzioni pubbliche; la fase dei servizi sociali pubblici, contestualizzabile intorno agli anni ’70, che porta alla transizione dal concetto di beneficienza a quello di servizi sociali, visti come un vero e proprio diritto.

Infine vi è la fase dei servizi sociali integrati, che prende avvio con la legge-quadro 328-00; l’obiettivo è qui rilanciare una situazione caratterizzata dalla compresenza di realtà pubbliche e private, considerate componenti necessarie per “ la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.  Con questa ultima fase, si passa dall’espressione welfare State, che sembra essere divenuta inadeguata, a quella di Welfare mix, che evoca la compresenza tra sfere diverse, quindi tra pubblico e privato. Ma come le due sfere gestiscono gli interventi e i servizi di welfare? La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali sono di pertinenza dell’ambito pubblico, mentre alla gestione e all’offerta dei servizi provvedono sia i soggetti pubblici che il privato. In particolare, i Comuni sono tenuti a svolgere le attività volte a soddisfare gli interessi della collettività locale, riconosciuti dalla legge; accanto ai Comuni vi sono le Aziende Unità Sanitarie Locali, che si occupano delle prestazioni socio-sanitarie e collaborano per la stesura dei Piani di Zona.

Le Regioni, infine, esercitano la funzione di coordinamento, organizzazione e valutazione dei servizi erogati a livello locale. Per quanto riguarda il Terzo settore, invece, il campo è più diversificato; all’interno di questo, infatti, troviamo espressioni di solidarietà organizzata che possono assumere la forma di organismi senza scopo di lucro, cooperative, associazioni di volontariato, fondazioni, associazioni ed enti di promozione sociale. Ma come vengono inseriti i migranti nel complesso sistema dei servizi sociali?  La finalità del Welfare Mix, in riferimento ai migranti, è l’ integrazione  sociale, culturale ed economica degli stranieri immigrati in Italia, dei richiedenti asilo e (…) la lotta alla tratta e le vittime dello sfruttamento della prostituzione. Tale tipologia di utenza fa riferimento a due macrocategorie del sistema integrato dei servizi sociali: “ Interventi o servizi sociali” e  “ centri e strutture residenziali, semiresidenziali e diurne”. Per quanto riguarda la prima macrocategoria citiamo: i centri telematici di ascolto, gli interventi per l’integrazione sociale dei soggetti deboli o a rischio, le attività ricreative di socializzazione, il sostegno socio-educativo scolastico, i servizi di prossimità/buon vicinato/ gruppi di auto-aiuto. Nella seconda macrocategoria, invece, gli immigrati ricevono una protezione sociale prevalentemente orientata all’accoglienza abitativa, oppure orientata ad accoglienze di emergenza.

Oggi, però, il fenomeno migratorio appare eterogeneo, sia nelle sue caratteristiche ( Stato di provenienza, modalità d’arrivo), sia nelle sue motivazioni ( per ragioni economiche, per ricongiungimento familiare, per ragioni politiche o altro), di conseguenza vi è la necessità di costruire, talvolta, percorsi individuali di inserimento socio-economico. Ma la crisi economica, come scrivono Morniroli e Pugliese, “ ha fatto fallire migliaia di progetti migratori che ormai sembravano essersi stabilizzati in condizioni di successo e inclusione (…). Fallimenti che in molti casi hanno spinto i migranti ad accettare (…) condizioni di lavoro caratterizzate da forte sfruttamento e precarietà di vita (…).”. Ecco, in questo contesto, emerge la differenza tra “noi” e “loro”: differentemente dal caso in cui a cadere al di sotto della soglia minima di reddito sono i cittadini italiani, quando a trovarsi in difficoltà è il lavoratore straniero, in una fase di soggiorno precaria, lo Stato è legittimato ad imporre il rimpatrio, non essendo un appartenente alla comunità, non essendo un cittadino, ma soprattutto un non cittadino che non può mantenersi.  Elena Spinelli propone un momento di riflessione a partire dal concetto di discriminazione e come questo influenza le politiche migratorie, ma anche l’accoglienza degli immigrati nel Welfare.

Discriminazione significa separazione, e deriva dal latino “discriminatio”: distinguere, fare una differenza; in sociologia la discriminazione è un comportamento non favorevole verso gruppi sociali che hanno particolari peculiarità. Nel caso del sistema di Welfare, vediamo un sistema legale che è discriminatorio nei confronti dei “non italiani” in quanto li esclude o ne limita il godimento di alcuni dei diritti civili, come il voto, il diritto alla libera circolazione, il diritto di accedere ai servizi pubblici o ,ancora, la libertà professionale. La studiosa Lidia Morris a tal proposito, parla di “stratificazione civica”, facendo riferimento ad una crescente complessità con un accesso differenziato alla distribuzione delle risorse tra cittadini, semi-cittadini e stranieri. Le principali variabili che condizionano l’accesso ai servizi sono: la sussistenza del diritto d’accesso, la consapevolezza di questo diritto e l’effettivo esercizio del diritto; ma in realtà se ci pensiamo bene, i diritti nel caso degli immigrati diventano frutto di una negoziazione politica. Con la Legge 94 del 2009, ad esempio, vi è l’introduzione del reato di ingresso/ o soggiorno illegali, che ha tra le innumerevoli conseguenze, anche quello di imporre agli operatori socio-sanitari, la segnalazione per l’espulsione di coloro che si rivolgevano ai servizi non in possesso del soggiorno.

L’accesso e la fruibilità dei servizi sanitari e sociali, inoltre, sono resi complicati anche dalla scarsa informazione degli operatori sulla normativa che regola le diverse possibilità e modalità di accesso alle prestazioni per stranieri; tutto ciò deve essere confrontato, ancora, con il quadro burocratico formale,  permeato da pratiche informali: una Asl prevede la riabilitazione anche per stranieri irregolari con il tesserino “Straniero Presente Temporaneamente”, altre Asl no; un Municipio prevede l’erogazione dell’assegno di maternità con il permesso di soggiorno, altri chiedono la carta di soggiorno. La non conoscenza della normativa e la differente applicazione della stessa, ha aumentato il potere dell’operatore, che manca di riferimenti culturali sull’organizzazione del Welfare italiano. A rendere difficile l’accesso ai servizi, inoltre, sono le barriere organizzative, le barriere economiche, che sono frutto di incompetenza e discriminazione istituzionale.  In tutto questo contesto gli immigrati, per l’implementazione di politiche a carattere emergenziale, vengono percepiti dagli autoctoni come privilegiati nell’ambito delle politiche sociali,  facendo sorgere movimenti xenofobi e anti-immigrati, che vengono utilizzati dal dibattito politico per giustificare i processi di espulsione e categorizzazione dei flussi migratori tra “ migranti utili allo Stato” e “ migranti da controllare perché minano lo sviluppo dello Stato stesso”. 

Ma, pensare che gli immigrati, secondo i criteri di povertà e precarietà, rappresentano un costo particolare sul sistema di Welfare e, in generale, sull’economia dei Pesi di arrivo, non fa altro che ingigantire la portata della povertà degli immigrati, attribuendo meno attenzione ai processi di inclusione e inserimento.

La pratica dell’accoglienza, infatti, richiede in primo luogo un atteggiamento di apertura e di disponibilità nei confronti di una utenza immigrata, già a partire dal primo contatto con i servizi affinché il migrante riesca ad esprimere la propria soggettività, il proprio codice culturale, al fine di ricevere accoglimento della propria esperienza nella sua complessità e stabilire una relazione di fiducia. In effetti, è necessario non dimenticare che l’immigrato è prima di tutto un emigrato, che sta affrontando quello che viene definito “trauma migratorio”; la prima conseguenza dell’emigrazione è che la persona passa da un luogo in cui possedeva un’identità sociale, una storia, dei legami affettivi solidi, ad un altro in cui la stessa svanisce totalmente in un luogo in cui diventa un “nessuno”. Domande quali  “ da dove viene, da quanto tempo è qui, cosa faceva lì, chi della sua famiglia sta ancora lì, come risolveva tali bisogni nel suo paese d’origine”, sono la base per un intervento d’aiuto, per un ascolto emotivo della persona che si ha di fronte.

Al contrario, osservazioni come “ signora ma un altro figlio!…”, ad una donna immigrata incita, con altri quattro figli al seguito, può far sentire la stessa “diversa”, facendo nascere sentimenti come l’imbarazzo, l’umiliazione, la delusione, il sentirsi sbagliati; nello stesso tempo tutto ciò può avere come conseguenza la paura di instaurare un rapporto con le istituzioni, e quindi il non utilizzo dei servizi di welfare anche quando ne hanno pieni diritti. Non va dimenticato, infine, che la categoria “migranti”, non deve essere analizzata secondo una visione eurocentrica, perché nella stessa vi sono una varietà di persone, non solo in riferimento alla provenienza, ma perché ognuno costruisce i proprio orizzonti di senso in maniera originale, ognuno ha una propria storia “lì”, ed una storia “qui”. Ma soprattutto ognuno da un significato differente alla sua storia “lì” ed alla sua storia “qui”. Probabilmente le istituzioni, per avanzare un welfare in grado di garantire a tutti la stessa sicurezza, dovrebbero comportarsi così come Weber insegna a noi sociologi: considerare l’agire dotato di senso, cioè tutte quelle azioni determinate da interessi e valori a cui gli individui attribuiscono uno specifico significato soggettivo.

Concludo questo capitolo, e la mia tesina, con le parole di Lorenz: “ La diversità culturale non rappresenta una questione di ordine culturale in quanto tale, ma diviene una critica per il fatto che evidenzia l’esistenza di una crisi della solidarietà in seno alle società contemporanee”.

Dott.ssa Lamberti Alessia Maria

BIBLIOGRAFIA

  • Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, terza edizione, il Mulino, Bologna, 2020;
  • Alessandra Corrado, Migrazioni per lo sviluppo. Modelli di cooperazione e politiche di co-sviluppo;
  • Mariafrancesca D’Agostino, Alessandra Corrado, Francesco Caruso, a cura di, Migrazioni e confini. Politiche, diritti e nuove forme di partecipazione, Rubbentino Editore srl, 2016;
  • Colf e badanti, l’immigrazione silenziosa (secondowelfare.it).

Movimenti popolari: ne nasce uno ogni cinque anni ma non risolvono nulla

di Emilia Urso Anfuso

Su una facciata del Palazzo della Civiltà che si trova a Roma in zona Eur, è incisa una scritta riferita agli italiani: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Sono parole tratte dal discorso che Benito Mussolini tenne il 2 Ottobre 1935, in risposta alle Nazioni Unite che condannarono l’Italia per aver aggredito l’Abissinia.

Dott.ssa Emilia Urso Anfuso ===>>

84 anni dopo è necessario modernizzare la descrizione con un più indicato “Popolo d’indignati, incazzati e collerici verso le élite”. È un dato di fatto e spiego le ragioni.

Il seme della trasformazione è riconducibile all’inchiesta Mani pulite, quando gli italiani furono informati delle ruberie e dell’illegalità maturate in seno al mondo della politica. Diversi di essi si rivelarono errori giudiziari, ma la macchina dell’indignazione era ormai lanciata. Le monetine gettate addosso a Bettino Craxi davanti all’Hotel Raphaël di Roma certificò una convinzione collettiva: i politici sono tutti ladri. Appresa la cattiva novella, l’opinione pubblica maturò un profondo rancore contro il sistema e a prescindere.

Movimenti popolari comparirono sulla scienza nazionale, come il “Popolo dei fax”, che nel 1993 quasi bloccò le comunicazioni del belpaese a causa dell’invio smodato di fax all’indirizzo di giornali e procure italiane, con lo scopo di manifestare apprezzamento al pool di Mani pulite.

Così come nacque morì, ma il sentimento negativo rimase appiccicato al DNA di molti connazionali, in prevalenza di sinistra, che ritengono di essere la parte buona del paese per volontà divina. La collera si mantenne sonnacchiosa per qualche anno, anche se in realtà covava come la brace sotto la cenere in attesa di un refolo di rabbia, che giunse puntuale nel 2002 con l’avvento dei Girotondi, un gruppo di cittadini che per contrastare il governo Berlusconi arrivarono a comporre una catena umana di circa 4.000 persone, per abbracciare il palazzo di giustizia di Milano in segno di sostegno dei magistrati.

A essi si unirono personaggi pubblici come Nanni Moretti ed esponenti di sinistra che non persero l’occasione di farsi notare in mezzo alla gente. Tutto questo durò il tempo di uno sbadiglio, e nel Gennaio del 2003, a un anno dalla creazione, l’estinzione avvenne per cause naturali. D’Alema aveva visto giusto quando dichiarò “I Girotondi sono come il vento”.

Cinque anni dopo, puntuale come la scadenza di una cambiale, Beppe Grillo – forte delle migliaia di seguaci collezionati grazie al suo blog personale e alla conoscenza di Gianroberto Casaleggio – arringa la folla dal palco del primo Vaffa Day. I motivi delle proteste non cambiano, all’origine dei guai degli italiani c’è una sola malattia e si chiama illegalità. Contemporaneamente il Popolo viola si genera attraverso un tam-tam su Facebook allo scopo di cacciare Berlusconi, una vera fissazione. Scomparsi nel nulla in breve tempo.

In pochi anni i grillini sono riusciti a salire al governo, pur non avendo aperto il parlamento come una scatoletta di tonno, e assimilando molto delle devianze che propagandavano di voler sconfiggere.

Storia finita? Quando mai…il 2011 è il momento dei Forconi, un gruppo di agricoltori e allevatori meridionali che risalgono lo stivale per dar battaglia al governo Monti e alle misure economiche e fiscali lacrime e sangue. E’ stato un fuoco di paglia, a tratti a tinte fosche, finito nel dimenticatoio.

Ora è tempo di sardine, e se Di Maio e i suoi vi erano apparsi impreparati, la dimostrazione che al peggio non c’è fine è protagonista nelle piazze d’Italia. Rivelatisi alla pubblica opinione il 4 Dicembre 2019 grazie a una manifestazione organizzata a Bologna, quest’ennesima sollevazione di popolo nasce ancora una volta per abbattere un leader di partito, ma stavolta tocca a Matteo Salvini parare i colpi di un odio nato per nulla e che porta a niente. Verificheremo la durata di questo ennesimo sollevamento popolare.

In ognuna di queste organizzazioni nate dal basso, albergano alcuni elementi fissi. Il primo è il nemico, rappresentato da esponente politico. Il secondo è la mancanza di contenuti, se non quelli generici che parlano di democrazia e libertà. Il terzo è forse il più importante: queste organizzazioni non fanno del bene alla popolazione perché non generano proposte concrete. La gente si convince d’aver fatto la rivoluzione e non si accorge di aver perso un’occasione per chiedere il dovuto alla classe dirigente. Un po’ come accade con certi sindacati, che da anni portano i lavoratori in piazza non per risolvere i problemi quanto per farli sfogare e tutti a casa. Un metodo gattopardesco: sembra che tutto cambi ma resta esattamente com’è.


Punti di vista sulla pandemia

di Patrizio Paolinelli

La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.

Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106 pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri, Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro). Entrambi gli autori polemizzano violentemente con le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non negano la pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento del virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali sarebbero? Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica, ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali, ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di spostamento sul territorio.

Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore. Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali.

Andrea Miconi è assai vicino alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima sociale. Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.

Ma torniamo a Miconi. Il succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione. Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva, per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali senza subire alcun scossone.

Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro). A differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti).

L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti.

L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli eventi con la realtà effettuale delle cose. C’è poi un altro aspetto che lascia ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante scrittura.

L’ultimo tascabile della nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro). Il libro è composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2)  numerosi colossi dell’economia non sarebbero neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare e sopravvivere.

Il timore della Mazzucato è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al decesso. E allora come intervenire? La ricetta della Mazzucato prende le mosse dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere il Covid-19.  Non solo: gli enormi stimoli all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione.

Per la Mazzucato la pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore, plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori, rivedendo il sistema fiscale e così via.  Come si vede le proposte della Mazzucato sono piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia del capitale.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, gennaio 2021.


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