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Il caso Weinstein tra la Waterloo del giornalismo e il lavoro servile

di Patrizio Paolinelli

All’improvviso le luci di Hollywood sono letteralmente esplose e la più importante fabbrica dei sogni dell’Occidente si è rivelata al mondo come una tenebrosa casa degli orrori per tante, tantissime donne che lavorano nel celeberrimo quartiere di Los Angeles.

<< === prof. Patrizio Paolinelli

A fare da detonatore è stato il caso del molestatore seriale Harvey Weinstein, potentissimo produttore cinematografico statunitense, fondatore di una macchina da Oscar come la Miramax e in altri tempi definito “Dio” da Meryl Streep. Il caso è esploso grazie a un’inchiesta del New Yorker condotta per oltre un anno da Ronan Farrow (figlio di Mia Farrow e Woody Allen). Dall’inchiesta è emerso che per decenni Weinstein ha molestato attrici, impiegate e collaboratrici. Da parte del magnate sono seguite scuse contrite, qualche smentita e il momentaneo ritiro dall’attività. Lo scoop di Ronan Farrow non si è fermato al cinema e ha varcato i confini della città degli angeli generando un effetto domino in diverse nazioni e settori produttivi: il cinema appunto, ma poi la televisione, il mondo dell’alta tecnologia, quello della politica. Il sexgate parla anche italiano. L’attrice Asia Argento ha accusato Weinstein di averla stuprata nel 1997 in un hotel di Cannes, poi è scoppiato il caso del regista Fausto Brizzi e le molestie hanno lambito anche il mondo dello sport.

Tornando negli USA lo scandalo si è esteso a macchia d’olio nel mondo dei media e un discreto numero di dirigenti maschi sono stati denunciati. Nomi che dicono poco al grande pubblico, ma dietro i quali ci sono i grandi burattinai di quanto tutti noi vediamo su ogni tipo di schermo. Harvey Weinstein è uno di questi. Ma nella lunga lista possiamo segnalare John Lasseter, fondatore della Pixar e direttore creativo dell’animazione Disney. Il quale si è preso sei mesi di congedo dopo aver essersi scusato pubblicamente per i suoi abbracci un po’ troppo calorosi, “abbracci indesiderati” come lui stesso li ha definiti. Anche diversi divi del pantheon hollywoodiano ne sono usciti con l’immagine seriamente incrinata per non dire devastata. Rivelazione dopo rivelazione è venuto fuori che allungare le mani su donne (attrici e non) che gravitano nell’ambiente dello spettacolo è una pratica diffusa e sono fioccate denunce nei confronti di star del calibro di Ben Affleck, Dustin Hoffman, Sylvester Stallone e altri ancora, mentre Kevin Spacey accusato di molestie sessuali da un altro attore si è scusato e ha rivelato di essere gay. Certo, non mancavano precedenti terrificanti come quello di Bill Cosby, geniale uomo di spettacolo accusato da decine di donne di averle stuprate. Allo stesso tempo alcuni libri quali “Hollywood Babilonia” (1959), “Hollywood Babilonia II” (1984) di Kenneth Anger e “Sul sofà del produttore. Il rito del «Pedaggio sessuale» nella storia di Hollywood” (1990) di Selwyn Ford avevano acceso i fari sugli eccessi, gli abusi, le debolezze di tanti personaggi hollywoodiani a partire dall’alba dei grandi Studios. Ma fino a ieri i casi che emergevano erano di volta in volta presentati dalla stampa come un problema soggettivo e non come un problema sociale all’interno della numerosa comunità dello spettacolo. Mentre i libri alla fin fine hanno avuto più l’effetto di alimentare il mito di Hollywood che di dare il via a inchieste giornalistiche e giudiziarie.

Dinanzi ai sistematici ricatti sessuali subiti dalle donne nella mecca del cinema internazionale dai suoi esordi a oggi la prima cosa che salta in mente è che si tratta del segreto di Pulcinella. Lo stesso Ronan Farrow ha sostenuto che Weinstein ha potuto molestare indisturbato per anni perché protetto da una vera e propria “congiura del silenzio”. D’altra parte, senza andare in California, chiunque abbia anche solo sfiorato il mondo dello spettacolo di casa nostra si rende immediatamente conto di quante pressioni sgradite debbono subire le donne che circolano in quell’ambiente. Ambiente nel quale per molti è considerato del tutto normale che per fare carriera una donna debba andare a letto con qualcuno che conta. E pensare che Ed Wood nel 1966 scrisse un libro (pubblicato nel 1998 e in Italia nel 2000) dal provocatorio titolo “Hollywood: la corsa dei topi. Istruzioni ad uso di aspiranti divi“. Si tratta di un vero e proprio vademecum per riuscire a sfondare nel mondo del cinema. Ma si tratta anche di un manuale di autodifesa. Scrive Wood: “Posso dirvi che sono molto poche le persone che ottengono la loro prima occasione a Hollywood, New York e in qualche altro posto del mondo senza che capiti loro di essere inseguite intorno a un tavolo o due (o anche tre o quattro) da qualche produttore sudicione. Questo vale non solo per le ragazze, ma anche per i ragazzi. E non parlo di donne produttore; ce ne sono molto poche. … Da qualsiasi luogo veniate, da una grande città o da una piccola, o da qualsiasi posto del mondo, badate di portarvi le scarpe da tennis, perché sarà più facile catturarvi se avete i tacchi alti”.

Molte donne non sono riuscite a correre abbastanza in fretta eppure il caso Weinstein sembra indicare la rottura di un globale muro di omertà. Per questo in tanti fingono di cascare dalle nuvole. Che lo facciano i politici, ad esempio i Clinton e gli Obama, può essere comprensibile anche se difficilmente giustificabile. Ma la stampa? Bisognava aspettare il 2017 per sapere quel che tutti, al di qua e al di là dell’Atlantico, sapevano da sempre? Possibile che la cosa sia sfuggita ai giornalisti che si occupano di costume, spettacolo, moda, cultura? Per fortuna non a tutti. Difatti in passato diversi cronisti avevano provato, senza riuscirci, a rivelare le malefatte di Weinstein. Nel 2004 ci provò una giornalista che all’epoca lavorava per il New York Times, Sharon Waxman. Ma la sua indagine venne insabbiata forse per timore di perdere importanti inserzionisti o forse per l’intervento di un paio di noti attori. Comunque sia non venne pubblicata. Lo stesso Ronan Farrow si è vista rifiutata la sua inchiesta da parte del colosso radiotelevisivo NBC prima di pubblicarla sul New Yorker. E se non fosse una catastrofe per l’informazione mainstream ci sarebbe da ridere nell’apprendere che, pochi giorni prima dell’esplosione dello scandalo, Harvey Weinstein sia stato insignito del titolo di “Uomo verità” dai giornalisti del Los Angeles Press Club. Quantomeno la scoperta che il New York Times abbia insabbiato un’inchiesta sgradita ai potenti dovrebbe costituire una notizia-bomba, un vero e proprio Watergate alla rovescia e dunque un serio motivo di riflessione per tutta la stampa visto che la testata statunitense è indicata come un modello da seguire. Al momento così non è. Non resta che sperare in qualche sussulto deontologico.

Sul piano dell’informazione la vicenda nata con lo scandalo Weinstein purtroppo conferma che la stampa deve rendere conto a poteri più forti, in primo luogo quello economico, e che dunque la sua libertà è limitata e il suo ruolo di cane da guardia della democrazia dipende dalle situazioni. Parole queste, libertà e democrazia, che vengono ripetute ogni giorno innumerevoli volte sui media per convincere il grande pubblico di vivere in una realtà che nei fatti è diversa, ma intanto i fatti sono sostituiti da una realtà mediatica che diventa più vera della realtà fattuale. E così delle donne impegnate nel mondo dello spettacolo la fabbrica del consenso mostra quasi esclusivamente i sorrisi, la vita mondana, le gioie del successo. Finché un giorno accade l’irreparabile, o meglio qualcosa molto complicato da riparare come l’emersione di un violento e generalizzato machismo nel mondo dei media. Naturalmente c’è chi parla di una nuova inquisizione, chi soffia sul fuoco di un probabile complotto politico, chi ipotizza regolamenti di conti tra élite del cinema e qualche filisteo prova persino a sostenere che in fondo è grazie alla stampa che il caso Weinstein è venuto fuori. Mi è persino capitato di leggere l’articolo di una corrispondente italiana da New York in cui sosteneva di essere stata più volte abbracciata da John Lasseter senza mai percepire secondi fini. Anche il pressappochismo aiuta a rimettere insieme i cocci del mito hollywoodiano. Mentre l’informazione mainstream gestisce con grande professionalità la memoria e l’oblio del grande pubblico. E in direzione dell’oblio si muovono le preoccupazioni di Joseph Nye, politologo di Harvard a teorico del soft power, la strategia morbida di penetrazione dello stile di vita statunitense su tutto il pianeta. Nye in una breve ma molto chiara intervista rilasciata a Francesco Semprini il 14 novembre scorso e pubblicata su La Stampa di Torino ha dichiarato che lo scandalo degli abusi danneggia soprattutto Hollywood, ma se dovesse perdurare potrebbe mettere a rischio l’efficacia di un’arma strategica come il soft power. Il messaggio implicito non lascia spazio a dubbi, soprattutto se si tiene conto che Hollywood è integrata col Pentagono a tutela degli interessi statunitensi nel mondo tramite quello che Jean-Michel Valantin ha definito il “cinema di sicurezza nazionale”.

Tralasciando la stampa di destra impegnata a colpevolizzare le vittime, il dibattito pubblico innescato dallo scandalo Weinstein si è concentrato su aspetti importanti. Ad esempio l’onda lunga del patriarcato, il rapporto uomo donna, quello tra sesso e potere e così via. In poche parole ci si è interrogati quasi esclusivamente sulla natura culturale del fenomeno molestie sessuali. Il che è senz’altro importante, anzi decisivo. Ma da quanto ho letto e ascoltato un elemento centrale è passato in secondo piano. E cioè il fatto che le donne molestate, abusate e violentate cercavano lavoro o stavano lavorando. Occorre allora porsi la seguente domanda: qual è il modello occupazionale imperante nel mondo dello spettacolo visto che le molestie nei confronti delle donne sono una routine? E’ presto detto. Il lavoro è a chiamata e temporaneo, il contratto è individuale e una volta concluso ci si ritrova a spasso, le ferie retribuite non esistono e l’assistenza sanitaria è a proprie spese così come i contributi per la pensione. Bastano queste poche pennellate per immaginare in quale gorgo di ricatti, compromessi e autosfruttamento precipitino tante aspiranti dive e divi.

Certo per chi diventa star del piccolo o del grande schermo la fortuna economica è assicurata. Ma spesso il prezzo è alto. E a proposito di prezzo, cari lettori, ora vi rivelo un altro segreto di Pulcinella che, chissà, tra una ventina d’anni potrebbe assurgere alle cronache internazionali grazie all’inchiesta di qualche giornalista statunitense permettendogli forse – come già si vocifera per Ronan Farrow – di vincere il Premio Pulitzer. Il segreto è il seguente. Abbiamo tutti notato che da molti anni praticamente la quasi totalità dei film destinati al grande pubblico e le serie televisive di prima serata contemplano inderogabilmente diverse scene di attrici senza veli e più o meno lunghe sequenze porno-soft. Le attrici che sono indisponibili a girarle semplicemente non lavorano e la loro carriera è compromessa o quantomeno molto rallentata. D’altra parte c’è un esercito di attrici disoccupate pronte a tutto pur di avere una parte. Attendiamo il prossimo scoop internazionale.

Cosa ricorda il modello occupazionale fondato sulla tournée, sul contratto personale attore-produttore e sul piegare la testa dinanzi a qualsiasi vessazione, molestie sessuali comprese? Ricorda le politiche di deregolamentazione del lavoro in atto da una trentina d’anni a questa parte in tutto l’Occidente. Ricorda il trionfo del neoliberismo, ovvero l’affermarsi di una nuova edizione del lavoro servile che nel caso del grande schermo convive con l’alta tecnologia degli effetti speciali. E forse non è un caso che Ronald Reagan provenisse dal mondo del cinema. In fondo, per quanto concerne il lavoro, la sua politica non ha fatto che riprodurre su larga scala il sistema occupazionale hollywoodiano. Sistema in cui chi cerca lavoro è letteralmente in balia di chi lo offre. Una vera e propria condizione di sudditanza medioevale che fa strame dei diritti più elementari conquistati nel corso della modernità. Uma Thurman ha rivelato le molestie subite da Weinstein dopo anni e come lei tante altre attrici. Perché hanno aspettato così tanto tempo? Perché se lo avessero denunciato subito la loro carriera si sarebbe bruscamente interrotta e in altri casi neanche iniziata. Arrivati a questo punto resta un interrogativo: finiranno le molestie sulle donne nel mondo dello spettacolo? Nell’immediato sicuramente molti maschi si terranno le mani in tasca. Ma finché i rapporti di forza tra domanda e offerta di lavoro saranno così squilibrati c’è da dubitare che l’autocontrollo reggerà a lungo.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 9 dicembre 2017.


15 MARZO, GIORNATA NAZIONALE SUI DISTURBI ALIMENTARI

 “Siamo ciò che mangiamo” L. Feuerbach

di Francesca Santostefano

Il 15 Marzo si celebra la Giornata nazionale di sensibilizzazione sui disturbi alimentari, una problematica che colpisce quasi il 40% dell’intera popolazione italiana, spesso a soffrire di tale disturbo sono gli adolescenti e spesso da un punto di vista del genere sono le ragazze tra le più colpite. Cosa si intende nello specifico per disturbo alimentare o correlato all’alimentazione?

<< == dott.ssa Francesca Santostefano

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono delle patologie connotate da una sorta di alterazione delle normali abitudini alimentari e da un’ossessione per le proprie forme del corpo al fine di mantenere il proprio peso corporeo negli standard che spesso una società troppo perfezionista pretende. Tali disturbi, i quali hanno correlazioni psicologiche e sociali, insorgono durante il periodo adolescenziale, un periodo di transizione ove il corpo muta e si hanno molteplici conflitti con il mondo circostante. Vi sono dei comportamenti tipici riguardo il disturbo alimentare quali il digiuno, la minor quantità di cibo consumato, vomito per controllare il proprio peso, l’uso talvolta di lassativi o diuretici.

Fra i disturbi alimentari più diffusi vi sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa ed il disturbo da alimentazione incontrollata (o Binge Eating disorder, BED); tali disturbi sono riportati dal DSM 5 e vi riporta anche i disturbi della nutrizione (Feeding disorders). Le condizioni psico-sociali sono un terreno fuorviante a favorire l’esplosione di tali disturbi, pertanto, da un punto di osservazione sociologica, il corpo o meglio ancora la percezione di esso e la percezione del mondo esterno sono condizionati ininterrottamente dalle forme congetturate dalla società. Altresì si afferma che le condotte sociali siano “parte strutturale del nostro modo di recepire il corpo: i modelli culturali appaiono letteralmente incarnati nel corpo stesso”, dunque noi siamo quello che mangiamo, ostentiamo ciò che mangiamo attraverso il nostro comportamento che dipende altresì dalla cultura di soggiorno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’anoressia nervosa colpisce con maggior incidenza le donne.

Dagli anni ’50 del secolo scorso si comincia a parlare di anoressia nervosa definendola come un disturbo etnico ovvero un disturbo tipico di una certa cultura, secondo Gordon l’interiorizzazione del modello fisico dominante rappresenta una soluzione patologica del problema dell’identità in quanto consente di ridurre il disagio causato dai sentimenti di debolezza e dal conflitto interiore. L’identità femminile si concretizza in una donna più sicura e consapevole di sé tuttavia rinchiusa nello spazio dell’effimera apparenza, l’aspetto estetico è divenuto un must per poter scalare la strada del successo o della carriera. Sempre da un punto di vista sociologico, i mass media giocano un ruolo cruciale in tale prospettiva influenzando i soggetti predisposti a questi tipi di disagi incentivando con i modelli che propongono come la pressione sulla magrezza e la stigmatizzazione della grassezza. La donna di oggi è sottoposta a pressioni e contraddizioni dettate dall’esigenza di assumere ruoli che possano contrastare con le sue abitudini, un conflitto morale tra identità personale e modelli imposti dalla società.

CORRELAZIONE FRA DISTURBI ALIMENTARI E PANDEMIA DA COVID-19

L’incidenza fra disturbi alimentari e Covid 19 è aumentata del 30% ma non a causa del virus bensì dalle restrizioni sociali a cui abbiamo dovuto attenerci. Secondo una recente valutazione nei pazienti già in cura per i disturbi alimentari prima pandemia da Covid 19, vi è un peggioramento di essa causato soprattutto dall’isolamento sociale, la permanenza forzata a casa, la chiusura delle scuole e tutte le iniziative di coinvolgimento sociale. Inoltre le strutture atte all’assistenza ed al supporto socio relazionale dei pazienti durante il lock-down hanno dovuto sospendere le attività e dunque il piano terapeutico volto al sostegno non ha avuto, in tal periodo, riscontri positivi. Diciamo un’emergenze nell’emergenza poiché i colloqui psicologici e clinici sono stati sostituiti dalle video-call che non hanno la stessa valenza, a ciò si aggiungono in tali pazienti stati di perenne angoscia, insonnia e depressione. Sul cibo proiettiamo le nostre inquietudini più profonde, ci ingozziamo se siamo ansiosi o ci si chiude lo stomaco per qualche pensiero di troppo, un paradigma piuttosto emblematico, uno specchio in cui riflettiamo noi stessi. Cibo è conflitto e noi siamo conflitto, tale commemorazione è un monito per sensibilizzare questo disturbo e soprattutto per fomentare la prevenzione che da poco tempo è stata sottovalutata.

Dott.ssa Santostefano Francesca – Sociologa – Socia ASI

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI – SITOGRAFIA

Disturbialimentariveneto.it., Cosa sono  i DCA disturbi del comportamento alimentare.

Thebottomup-it.cdn.ampproject.org., Anoressia,,bulimia e il rifiuto del cibo.  

Www.nelfuturo.com.,  L’aspetto sociale dell’anoressia.

Www-avvenire-it.cdn.ampproject.org., Boom dei disturbi alimentari, ecco il virus degli adolescenti.


Il borghese e lo sguardo. Mutazioni dei sensi nella civiltà capitalistica

Saggio di Patrizio Paolinelli

prof. Patrizio Paolinelli

1. Il capitalismo è un modo di produzione fondato sulla merce. La civiltà capitalistica è un sistema di riproduzione sociale della forma-merce in forma-pensiero. Questo tipo di riproduzione si fonda sull’instabilità e la trasformazione, sullo sviluppo e la sua crisi. Qualità che trovano nella città il luogo di affermazione. E la città ha esteso ovunque la sovreccitazione sensoriale come modo di vivere, ha esteso in chiunque un sistema di bisogni percettivi corrispondente a quella sovreccitazione. Vettori dell’estensione sono i mass-media. Il loro ruolo è oggetto di molteplici analisi. Quelle critiche hanno generato concetti interni alla nozione di riproduzione sociale quali: la trasmissione ideologica dell’individualismo borghese, l’induzione al consumismo, la spettacolarizzazione della merce, la manipolazione dell’opinione pubblica, il pensiero unico. I risultati sono notevoli: nessuno si aspettava che i riproduttori della civiltà capitalistica dessero vita a un poderoso movimento transnazionale di opposizione sociale alla globalizzazione neoliberista. Una sorpresa della storia che ha affrontato a viso aperto la marcia trionfale del capitalismo dopo il crollo del socialismo reale e le forsennate retromarce della sinistra moderata europea colpevolmente incapace di cogliere le occasioni spalancate da quel crollo.

2. Uno dei libri che ha gettato le basi per una definizione delle istanze del movimento è No Logo, di Naomi Klein: inchiesta giornalistica che individua nel marchio aziendale una merce-immagine il cui valore simbolico è immediatamente politico. E la politica dei marchi aziendali contiene un elemento illiberale del controllo sociale: lo scambio a senso unico che trasferisce la personalità del prodotto nell’identità delle persone. La riduzione dell’esistenza a una <vita sponsorizzata>, <la piena integrazione tra pubblicità e arte, marchio e cultura>, l’espansione coloniale del marchio nello spazio mentale, l’innesto dell’immagine del prodotto nel modo d’essere e di apparire sono effetti che segnalano il profondo mutamento di statuto della merce, la radicale trasformazione del rapporto tra percezione e pensiero, lo stretto rapporto tra liberismo e totalitarismo. Rapporto che emerge dalla congiura del silenzio da parte dei mass-media sulla notevole quantità e qualità di forme di resistenza al potere del branding puntualmente descritte nell’inchiesta della Klein. Ma i mass-media non si limitano a pilotare l’informazione. Fanno molto di più: si appropriano delle icone nate dalle linee di fuga dell’immaginario critico e le mercificano assegnandogli un valore simbolico che entra in concorrenza con altre icone. Per evitare di finire nel ciclo della riproduzione No-Logo è un marchio registrato. Buona mossa. Commercializzandosi ha evitato la commercializzazione. Ha evitato la sicura sconfitta. A conferma della guerra tra griffe per catturare lo sguardo. A conferma della sottigliezza metafisica della merce.

3. La riproduzione della civiltà capitalistica è oggi l’oggetto del modo di produzione capitalistico: le idee dominanti sono le merci principali vendute dai dominatori. Sul piano pratico-ideologico obiettivi della borghesia sono: la prevalenza del mercato sulla società, il conseguente sogno liberale di estinguere lo Stato e l’altrettanto conseguente mercificazione di ogni cosa. In buona misura gli obiettivi sono stati centrati generando anche il loro contrario: un’opposizione mondiale contro il pensiero unico. Forze antisistema propongono modelli di sviluppo alternativi alla globalizzazione capitalistica, rapporti più equilibrati tra centro e periferia, tra produzione e consumo, tra società e ambiente. Lo scontro è aperto. Rispetto al passato la dimensione del conflitto sociale è su scala planetaria. In continuità con il passato la riproduzione della civiltà capitalistica avviene attraverso strutture profondamente antidemocratiche identificate da Samir Amin in cinque monopoli <che consentono al centro di polarizzare il mondo a proprio esclusivo vantaggio>: il monopolio tecnologico, il controllo finanziario dei mercati finanziari di tutto il mondo, l’accesso monopolistico alle risorse naturali del pianeta, il monopolio sulle armi di distruzione di massa, il monopolio sui media e la comunicazione.

4. La riproduzione della civiltà capitalistica avviene grazie al monopolio borghese dei media e della comunicazione: monopolio strategico per la combinazione di forze degli altri monopoli. Ed è a questo livello che si esercita una vasta opposizione. Lo strumento teorico del movimento e dei comunisti che sono dentro il movimento è la critica alle idee dominanti. E il discorso critico è in genere organizzato intorno ai seguenti postulati: demistificazione ideologica (della retorica sul pluralismo dell’informazione, sulla sovranità del consumatore ecc.), denuncia di una condizione asimmetrica e/o d’ingiustizia, rivelazione delle minacce più o meno occulte alla libertà, smascheramento della realtà, enunciazione di proposte alternative. A questa struttura discorsiva è plausibile agganciare nuovi postulati, nuove enunciazioni in grado di cogliere fattori di forza e di debolezza del monopolio capitalista dei media e non ancora precisamente individuati. Il punto di partenza è costituito da una domanda tanto macroscopica quanto semplice: è possibile superare la cultura borghese?

5. Le ondate tecnologiche producono maree di tecno-ottimisti. E le varie tribù di tecno-ottimisti sono divise tra loro da visioni radicalmente opposte. Due esempi: il Media-Lab del MIT di Boston capitanato da affaristi come Nicholas Negroponte schierato con la commercializzazione della convergenza tra informatica e media; i sostenitori della democrazia elettronica schierati con le comunità virtuali e ispirati da guru come Howard Rheingold. In genere entrambi i poli si attestano sulla nozione di società dell’informazione. Nozione di successo adottata persino nei documenti ufficiali dell’Unione Europea e nella versione del cyberspazio o ciberia da trasgressori impenitenti come Timoty Leary: <La funzione principale dell’essere umano del Secolo XXI sarà l’immagigneria –ingegneria dell’immagine- e la fabbricazione di realtà elettroniche; per imparare a esprimere, a comunicare e a condividere con altri le meraviglie del nostro cervello>. L’obiettivo è nobile. Ma al momento l’imagigneria è ad esclusivo appannaggio di una ristretta élite. Per favorirne l’estensione le profezie progressiste hanno un lavoro di autoconoscenza da compiere. Lavoro che parte dallo scrollarsi di dosso un elemento della cultura borghese: l’ideologia del determinismo tecnologico che presiede al concetto di società dell’informazione. Si tratta di un atteggiamento pseudorazionale che suppone la digitalizzazione di ogni cosa come un progresso in sé senza alcuna considerazione delle scelte politico-economiche che hanno determinato tale sviluppo e senza considerarne l’impatto sociale reale. Senz’altro entro un paio di generazioni l’Information Communication Technology (ICT) stravolgerà l’attuale ordine visivo: su Internet la tradizionale pubblicità dei vecchi media non funziona. Ma da questo a presagire una società svincolata dalle grandi corporation in virtù del solo progresso tecnologico ce ne passa. La battaglia contro i meccanismi di riproduzione della civiltà capitalistica si combatte sul terreno della politica e non su quello delle applicazioni tecnologiche per il semplice fatto che l’attuale tecno-scienza è un punto di vista semiotico e materiale. In una parola: non è oggettiva. In due parole: l’oggettività non esiste. In definitiva: l’osservatore è sempre di parte. Ciò non toglie che l’ICT non sia una buona occasione per i movimenti antisistema: per restare in Italia le reti di comunicazione alternativa presenti nel Web costituiscono una delle poche opportunità per lottare contro la dittatura mediatica di Berlusconi.

6. La cultura aziendale e la mercificazione della cultura diffusa dal monopolio capitalista sui media determinano l’essere prima ancora della coscienza. È una presa di posizione del pensiero critico che presenta tre vantaggi: permette di evitare il meccanicismo che interpreta la cultura come cinghia di trasmissione dell’economia; riconosce alla semiosfera, ossia l’ambiente culturale in cui circolano, si integrano e si trasformano i singoli atti della comunicazione, il triplo ruolo di: produttori di consenso sociale, contestatori del consenso sociale, merci immateriali generatrici di comportamenti materiali; il terzo vantaggio consiste nel ricondurre la critica alle radici bio-culturali dell’essere, al rapporto tra i sensi umani e le merci-immagine destinate a soddisfarli. Il telecomando che permette di accedere a decine di canali richiede una base fisica non ancora sviluppata dallo spettatore ottocentesco che nel buio delle prime sale cinematografiche si spaventa e fugge all’avanzare del treno sullo schermo. La mise super-sexy da italica soubrette televisiva con cui si abbigliano oggi ragazzine in età pre-puberale è un’altra manifestazione del riorientamento sensoriale. Cosi come lo sono le brucianti sconfitte che i bambini infliggono ai genitori quando gareggiano davanti ai videogiochi. Certo: l’addestramento dell’occhio e del cervello per muoversi in nuovi ambienti visivi è un dato ricorrente, basti pensare ai passaggi che vanno dall’introduzione della prospettiva nella pittura alla visione mobile e delocalizzata permessa da handy-cam, fotocamere digitali, videofonini. Ma la coevoluzione bio-culturale conosce fasi di accelerazione. Oggi attraversiamo una di queste fasi. E i processi di adattamento alle merci-immagini premiano nuove esperienze sensoriali. Una conferma dalle neuroscienze: il rapporto tra cervello e ambiente è un circolo virtuoso. Jean Pierre Changeux: <La macchina cerebrale costruisce rappresentazioni mentali perché essa è rappresentazione del mondo circostante>.

7. Il potere della merce-immagine consiste in questo: segni e simboli, marchi e linguaggio sono materie prime costantemente lavorate per gestire il mercato e le sue crisi. Esempio: nell’economia della riproduzione capitalistica il ruolo immateriale di dimensioni quali il design, il colore, il look diventa essenziale per la conquista dell’occhio: cavallo di Troia per espugnare il gusto e il tatto. La merce-immagine ha tendenze olistiche: tutto è in rapporto con tutto: bisogni e cultura, esperienza e denaro. La merce-immagine: un inquieto rapporto sociale che fa interagire funzionalmente percezioni e realtà. La merce-immagine: una sintesi mai compiuta, un’ecologia del valore che determina il remix del sistema sensitivo umano. Conseguentemente: odori, sapori, paesaggi, suoni e cose sono sottoposti a una mercificazione che non si esaurisce nella compravendita. Sconfina nella politica perché tutto è mercato: la comunicazione e la socializzazione, l’informazione e lo spettacolo, l’attività biologica e l’attività culturale, il piacere e il dolore.

8. La riproduzione del capitalismo è nel segno della trasformazione dell’esperienza sensoriale, include dominati e dominatori ed è oggi concentrata sulla produzione di un nuovo essere e di una nuova coscienza, di un nuovo sistema percettivo e di un sistema di idee. La presa del potere borghese sull’apparato sensoriale umano profila un’inedita sinestesia, una nuova coordinazione dei sensi integrata ad un immaginario generato da vecchi e nuovi media: processi di mutazione che alcune correnti dell’arte contemporanea stanno sondando da tempo. Sul piano della riflessione critica siamo in ritardo. Troppe volte non si prende atto che il liberismo prima di costituire un’ideologia è una pratica di adattamento in grado di servirsi di ogni ideologia, in grado di prosperare sotto ogni circostanza politica. Camaleontica capacità che gli permette la tanto gridata quanto silenziosa rivoluzione sensoriale al cui vertice impera un sesto senso assai eccentrico: lo sguardo mediatizzato.

9. I sensi umani sono una società naturale. Cooperano tra loro così come cooperano i meccanismi della mente. In quanto società ogni senso è dotato di ragioni e passioni, saperi e poteri: è dotato di una storia. La separazione dei sensi è un artificio conoscitivo. Nella prassi attaccano in branco rispettando ruoli, gerarchie e aspettative. Nella prassi prevale la natura sinestetica del gesto che si appropria di determinate merci-immagine: aprire la lattina della bibita preferita, guidare la motocicletta a lungo sognata, indossare jeans attillati… La ricerca del piacere unifica i sensi e li coordina dando modo al cervello di assegnare significati alla realtà. Il mondo esterno sfida continuamente gli organi percettivi in una partita senza fine. Si potrebbe elaborare una nuova psicologia, una psicologia materialista partendo dalle pratiche percettive. Gli sguardi più o meno innamorati preludono all’incertezza del tatto, all’intimità del gusto e dell’olfatto, agli stimoli delle parole e ai dolorosi dubbi che alimentano il desiderio o lo stroncano. Gli sguardi giudicano e selezionano l’altro, le mani maneggiano carta-moneta e materiali innaturali, i consiglieri d’amministrazione delle multinazionali del fast-food non si nutrono di hamburger e patatine fritte, odori e profumi stabiliscono differenze, distanze e vicinanze, le parole trasformano la realtà agendo sotto forma di ordini, raggiri, menzogne, insulti. La mortificazione o la soddisfazione dei sensi concorre a determinare l’umore di un individuo, di un gruppo, di una società. In genere sono considerate raffinate quelle civiltà che ordinano i sensi intorno a elaborate visioni del piacere. E l’occhio la fa da padrone. La versione attuale del suo dominio ha compiuto un salto nel cammino della coevoluzione bioculturale: nella civiltà capitalistica non c’è separazione tra merce-immagine e immagine della merce.

10. La civiltà capitalistica è un sistema vivente attualmente in grado di accelerare i mutamenti bio-culturali. Domanda: se le conseguenze dello sviluppo industriale e della modernizzazione hanno modificato la direzione evolutiva della natura perché il repertorio percettivo umano sottoposto alla pressione dei media sarebbe dovuto restare inalterato? È noto: le funzioni cerebrali possono essere modificate dall’esperienza. Di conseguenza: spettatori e internauti hanno sviluppato capacità decodificatrici multimediali parallele allo sviluppo di tecnologie che trasmettono simultaneamente codici di tipo polisemico attraverso spot pubblicitari, video-musicali, ipertesti, pagine Web. Le nuove abilità indicano due percorsi da esplorare sulla percezione visiva compatibile con l’ICT: 1) lo sguardo si è evoluto in relazione agli effetti reversibili tra merci e immagini; 2) il rapporto dello sguardo con i meccanismi di riproduzione della civiltà capitalistica è autoalimentante. L’origine di entrambi i percorsi è conflittuale: il borghese lavora la coevoluzione bio-culturale ai fianchi. Il primo punto di attacco è di vecchia data nella storia del razzismo/colonialismo di tipo capitalistico. Consiste nella rendita dell’eugenetica e nei salti di soglia resi probabili dai futuri sviluppi dell’intreccio tra ingegneria genetica, rivoluzione informatica, business. Il secondo punto di attacco è meno eclatante. Consiste nella capitalizzazione di nuove performance sensoriali che indirizzano in maniera diseguale l’evoluzione biologica della specie umana per mezzo della riproduzione culturale.

11. Molti pensano che ai progressi scatenati dall’irruzione della tecnologia in ogni aspetto dell’esistenza umana non corrisponda un’altrettanta crescita della coscienza. Il punto è un altro: la civiltà capitalistica ha aperto una falla bioculturale che non distingue: il sistema dei valori dai mutamenti sensoriali, il cervello dall’ambiente, la percezione dall’esperienza. Se questa nuova finestra apre in maniera plausibile a un orizzonte conoscitivo allora: all’evoluzione biologica determinata dal rapporto tra media e merci-immagine corrisponde un’evoluzione culturale fondata su nuove forme di cooperazione: tra i sensi, tra i sensi e la realtà. L’attenzione critica può così spostarsi verso l’alto: dalla coscienza all’essere; e verso il basso: dall’essere alla riconfigurazione sensoriale. In ogni caso restiamo sul piano dell’immanenza: nella nicchia ecologica abitata dai mondi sensoriali dell’Homo sapiens si combatte una battaglia tra un ottimo performativo di tipo capitalista e l’emancipazione dell’intera specie umana. Bisogna prenderne definitivamente atto: il sistema borghese dei valori è esclusivo ed escludente. Ma pragmatico: l’habitat è chiuso a differenti modi di produzione e aperto a differenti modi di riproduzione: l’homo oeconomicus è uno e molteplice. Precisazioni necessarie: per il borghese la negazione dell’etica non è storicamente costante, non è volontaria, non riguarda i borghesi in quanto individui, non è il risultato di un progetto preordinato o effetto di un’inclinazione particolarmente malvagia, infine: coinvolge pienamente gli oppositori della borghesia. Sono le trasformazioni della merce a spingere l’agire del borghese e la lotta contro l’agire borghese. La domanda conseguente è: in quali direzioni il capitalismo dirige l’evoluzione dello sguardo?

12. Lo sguardo mediatizzato è una modificazione della percezione amministrata dal potere dei mass-media. Dipende dagli altri sensi ma li domina, è di tipo tattile, impone la partecipazione sensoriale attiva di individui, gruppi, società, comprende i principali modi del guardare, è immediato, è mediato dalla tecnologia, comunica principalmente per immagini, è interclassista, intergenerazionale e non conosce distinzioni sessuali, è plurale ma non democratico, è strutturato per reti, è difficilmente traducibile a parole, è tendenzialmente antistorico, è il guardiano della memoria, è anticipatore della conoscenza, seleziona il meraviglioso e i suoi contrari, influenza la struttura del sentire, agisce sull’immaginario collettivo, stimola aspettative, aspirazioni, emozioni e trasforma il dolore di aspettative mancate, aspirazioni tradite ed emozioni irrealizzate in creatività artistica, iniziativa politica, movimento critico. Lo sguardo mediatizzato privilegia il tempo dell’accelerazione, vive il cambiamento come bisogno, soffre per l’inflazione di stimoli visivi, definisce l’identità soggettiva e collettiva, costituisce l’ordine visivo dominante, proviene dalla vita reale e si risolve nella vita reale, evolve storicamente, evolve biologicamente, scaturisce dall’agire politico del principe della modernità e della post-modernità: il borghese.

13. Per gran parte della sua vita Marshall McLuhan ha lottato contro Satana. Questo inconsueto ritratto emerge dalla corrispondenza privata pubblicata postuma. McLuhan ritiene Tv, radio e telefono strumenti del Maligno annidato negli ambienti elettronici. Posizione mantenuta segreta al grande pubblico che peraltro non si è mai impegnato troppo a discutere se il villaggio è globale o locale. Non è strano che da un visionario e da un reazionario della portata di McLuhan siano emerse intuizioni utili al materialismo. Proprio perché sentiva di avere una missione da compiere a McLuhan il coraggio intellettuale non faceva difetto e rompeva gli schemi cercando relazioni e significati dove pochi o nessuno pensavano di trovarli. In questo senso non era un conservatore. Tutt’altro. L’idea dei media come estensione dei sensi e l’immagine di equilibrio sensoriale sembrano uscite dalla testa di un ateo. Invece no. Sono uscite da quella di un fervente cattolico. Per McLuhan ogni ambiente mediatico privilegia un particolare equilibrio sensoriale. La cultura orale favorisce l’orecchio. Quella scritta l’occhio. La cultura delle immagini l’esperienza audio-tattile. La Tv è uno dei vari agenti tattili perché guardare un’immagine è un’esperienza che chiede la partecipazione totale di tutti i sensi e: <Il tatto è un senso integrale, quello che porta tutti gli altri in rapporto tra loro>. A partire da questa riconversione della percezione non viviamo più in un mondo visivo ma tribale. Un mondo teso al recupero di esperienze ancestrali, orientali, occulte. Nell’epoca della televisione e di Internet il passato è facilmente attualizzato in una compresenza di tempi storici che conduce alla tribalizzazione della società. Qui finisce la canzone di McLuhan.

14. La perturbazione percettiva causata dallo sviluppo del monopolio borghese sui media e la comunicazione ha provocato un riorientamento dei domini di validità sensoriali così articolato: la vista gusta, l’udito fiuta, l’olfatto ascolta, il gusto tocca, il tatto vede. Lo slittamento percettivo verso nuove specializzazioni segna l’appartenenza dell’individuo ad un’epoca. Nella nostra il centro percettivo è lo sguardo mediatizzato: risultato della combinazione tra la vista che gusta, il tatto che vede, l’udito che annusa. Una simile riconfigurazione della costellazione sensoriale non è pacifica per il rapporto tra cultura e biologia. Tutt’altro. Nella civiltà capitalistica l’udito è costretto a nuove dislocazioni delle proprie utilità: da organo prioritariamente deputato a permettere la riconoscibilità del mondo assegnando coerenza ai suoni a organo specializzato nel fiutare il pericolo e la salvezza dal pericolo: dalla necessaria identificazione del rumore di un’automobile per non essere stirati, agli inviti delle parole d’amore nelle canzoni trasmesse in ogni dove. È l’udito che scatena quell’abbraccio simulato che è l’applauso. E non si è mai applaudito tanto come in un’epoca di solitari che guardano a sé stessi qual è la nostra. La sensibilizzazione dell’udito è un’allerta tanto continuo quanto improvviso stimolato dai media e soprattutto dalla loro grande madre: la pubblicità. Un tempo il suo modo di accendersi e spegnersi apparteneva all’olfatto: oggi alle promesse degli spot televisivi. Evoluzione o disagio della civiltà che mette in moto due processi: attente disattenzioni e comunicazione dell’incomunicabilità. Risultato: il monologo interiore ha spodestato il dialogo. Ma l’udito resiste, si mette all’ascolto di tutte le differenze e crea i pubblici di massa e di nicchia. Che ascoltano e si ascoltano. L’udito crea il problema delle relazioni umane. Crea il soggetto autonomo e l’aspirazione alla qualità della vita. Crea l’attenzione verso la consumer technology e la fuga dalla consumer technology. Nella civiltà capitalistica i sensi si fanno concorrenza.

15. L’olfatto è il senso umano maggiormente negato dai processi più recenti della coevoluzione bio-culturale. Diane Ackerman lo definisce: <il senso muto, l’unico privo di parole>. Tra linguaggio e odorato il contatto è debole. Tra odorato e memoria il contatto è forte. Ecco trovati due filoni da sfruttare per la riproduzione della civiltà capitalistica: il potere di censurare gli odori e l’insopprimibile potere evocativo degli odori. Ma come mettere al lavoro la volatile comunicazione olfattiva? Collocando in posizione subordinata i suoi messaggi e riconvertendo le sue funzioni nell’ascolto. È un’attività segreta, solitaria, selettiva. Che tratta molecole, oggetti immateriali tanto quanto lo sono i suoni. L’olfatto convertito in udito non è privo di una socializzazione rovesciata: gli odori respingono più delle parole, i profumi aggregano senza dire una parola. Guerra agli odori e guerre tra odori. È il generale igiene a chiedere dalle Tv di tutto il mondo di vigilare su invisibili molestie: taci l’odore ascolta. È la concorrenza commerciale tra profumi che chiede al naso di catalogare e paragonare, decidere e acquistare: sorridi la dolce fragranza di sandalo è a portata di tutti. All’olfatto spettano ormai pochi piaceri pubblici: il naso primitivo che tutto sentiva è capitolato dinanzi alla supremazia dello sguardo.

16. L’industria del palato fa parte della maggiore industria della post-modernità: l’industria del piacere. Grazie all’ingresso nel febbricitante circuito lavoro/consumo/lavoro la crisi del gusto è sempre dietro l’angolo e il suo rilancio sempre all’ordine del giorno. Sapori genuini o sapori artificiali? Weekend enogastronomico o pranzo domenicale dai genitori? Bacio sicuro o bacio protetto? La trasformazione del gusto in quel che un tempo era il tatto coincide con la massiccia riduzione del lavoro manuale e del rapporto diretto con le cose. Gli oggetti che prolungano la mano come ad esempio la falce e il martello spariscono in virtù della tecnologia, si fanno pensanti, sono il risultato del design e il tatto ha sempre più a che fare con la plastica o suoi derivati. Il contatto della bocca con il cibo è ancora un coinvolgimento diretto: lavora e trasforma come la falce e il martello. È un appuntamento obbligato tra individuo e materia. È un lavoro di tipo operaio, artigianale. Il che solleva specifici conflitti: sciopero della fame, fame nel mondo, contestazione del geneticamente manipolato. E specifiche patologie: bulimia, anoressia, paure collettive per il junk-food e il Frankstein-food. La specialità del gusto che tocca risiede nella memoria del piacere: ricamare sui ricordi dei bei sapori andati, accarezzare la nuova cultura alimentare: artificiale o naturale che sia. Nostalgia e fine della nostalgia. In ogni caso: buoni affari.

17. La psicologia del vedere ha dimostrato la capacità del sistema visivo umano ad adattarsi rapidamente a nuove condizioni: la percezione è un processo attivo che si confronta con processi attivi. Le merci-immagini che sollecitano lo sguardo da dietro le vetrine, dagli schermi televisivi, dalla pubblicità ambientale sono fonte di stimoli e depositarie del tempo presente: è la loro presa sul principio di realtà. Ma il rapporto tra i nostri organi periferici e gli oggetti ha sempre comportato l’intervento coordinato di tutti i sensi e il superamento dell’esperienza sensoriale diretta: lo sguardo è un processo dinamico che dà vita a trascendenze extrasensoriali. Konrad Lorenz osserva con affetto i suoi vecchi pantaloni, la sua superata automobile e a molti capita di litigare con il proprio personal computer. Un tipo di animismo il cui significato è assai semplice: lo sguardo s’innamora. Sentimento dilatato a dismisura dalle abilità visive nate dall’incontro tra vista, merci-immagine, vecchi/nuovi media: da quest’incontro la morsa del borghese sul principio di piacere.

18. Lo sguardo mediatizzato sorvola lo spazio errante offerto dai perenni e postmoderni flussi di immagini e informazioni proiettate e trasmesse da fotografia, televisione, cinema, computer, pubblicità. Lo sguardo mediatizzato è l’apertura dello spazio interiore nello spazio esteriore: è il movimento di continuità dell’uno nell’altro. Cosa c’è di più piacevole per i sensi della maledizione di Baudrillard che dissolve la Tv nella vita e la vita nella Tv? Lo spazio errante è un ambiente artificiale e vivente. In quanto tale non è identificabile come un punto finale perché il tempo è movimento, la realtà conflitto, la vita è scorrere, i media eserciti in guerra, la vista è il punto di vista. Lo spazio errante è un ecosistema altamente complesso. È un oceano che contiene il divenire dell’essere ed è contenuto dall’essere del divenire tipici della civiltà capitalistica. Energie che non si lasciano imbalsamare dalla variante nichilista della cultura post-moderna.

19. L’integrità compiuta tra io e mondo, tra sensi umani e realtà vede la luce nell’attuale sintesi tra mediascape e realscape, tra identità e vivente. Volendo essere pignoli non è una novità: la relazione tra l’essere e la società, tra l’essere e la natura è di reciproca appartenenza. Ma proprio perché fedele a se stesso il vecchio principio si rinnova dentro la morfologia dello spazio errante. Che in quanto movimento di riproduzione della civiltà capitalistica è di tipo materialista. Materialismo negativo che trova nel senso della vista la prima fonte di appagamento dell’essere. L’occhio scivola sullo spazio errante tramite lo sguardo mediatizzato. Sguardo sintetizzato nel perfetto slogan: la vita è un film. E l’idea che la vita sia un film è una riorganizzazione strategica del reale non il suo de profundis.

20. Lo sguardo mediatizzato assume le caratteristiche dell’ambiente in cui si è adattato: lo spazio errante. Accelerazione, ubiquità, simultaneità, turbolenza costituiscono forze che abbattono i vincoli visivi e territoriali: tutto può essere visto dappertutto e ovunque si vedono agire le stesse tendenze. Non c’è alcun giudizio di valore in quest’affermazione né l’adesione acritica all’idea di globalizzazione. Per i marxisti è cosa risaputa: l’affermazione del capitalismo comporta di per sé la mondializzazione del suo modello socio-economico. E le novità della mondializzazione non risiedono nel nominalismo ma nelle trasformazioni del modo di produzione e del modo di riproduzione. Una formula per leggere le trasformazioni: la merce-immagine ha rilanciato il modo di produzione capitalistico perché non c’è niente che non sia possibile convertire in merce-immagine. Altra formula: lo sguardo mediatizzato ha rivitalizzato il modo di riproduzione della civiltà capitalistica perché non c’è niente che non sia possibile vedere attraverso lo sguardo mediatizzato. È evidente che entrambe le pratiche sono di tipo coloniale, non conoscono regole e dove passano si lasciano alle spalle morti e feriti. Ma non segnano confini. Lo spazio errante è potenzialmente infinito.

21. Il dolore è una qualità della percezione che si somma ai classici cinque sensi. Senza dolore fisico non potrebbe esserci vita naturale: è un’appartenenza del principio di realtà. Senza sofferenza psichica non potrebbe esserci vita sociale: è un’appartenenza del principio di piacere. Come ogni senso anche il dolore è un mondo dentro il mondo. La sofferenza psichica che ha accompagnato la febbre della modernità e della post-modernità è un fenomeno ricorrente che limita i sensi e contemporaneamente li espande. Quentin Fiore e Marshall McLuhan localizzano il dolore provocato dai nuovi media e dalle nuove tecnologie, in quanto <auto-amputazioni del nostro stesso essere>, nella categoria del dolore riferito: la sofferenza mentale che sopravvive anche dopo la scomparsa della fonte del dolore. Recentemente il contorto Luc Boltanski ragiona sul fatto che quanto più la sofferenza presentata quotidianamente dai media è geograficamente lontana dalla sede dello spettatore tanto più questi è spinto all’azione tramite la presa di posizione, eventualmente la manifestazione in piazza, la partecipazione a gruppi umanitari. Implicazione per nulla inedita. Lo stesso coinvolgente meccanismo mediatico agisce sul fronte del principio di piacere: quanto più è irraggiungibile la bellezza dell’attore o della soubrette al di là dello schermo tanto più viene imitata dallo spettatore e dalle spettatrici al di qua dello schermo. Lo sguardo mediatizzato non è vissuto da un occhio epicureo: è un utilitarista privo di saggezza.

22. Lo sguardo mediatizzato conosce l’esperienza del dolore perché nell’epoca dell’intimità esibita e della guerra mediatica nessuna immagine è inaccessibile. La fortuna/sfortuna dello sguardo mediatizzato è tutta qui: non è osservato. Svincolato dal panopticon, il luogo da cui tutto si vede e da cui la visibilità si trasforma in trappola, lo sguardo mediatizzato sprigiona la soggettività borghese. Che: evade rispondendo al bisogno innato di guardare ovunque per sopravvivere ovunque; è invasiva come capita a tutti gli osservanti costretti ad assumere tutti i punti di vista; è in perenne fuga dalla propria condizione come capita a tutti i cercatori di un’età dell’oro. Il sogno americano, il sogno borghese non è fatto di nient’altro che colpi d’occhio: equivalenti ai segreti colpi di stato dello spettatore e dell’internauta che vedono senza essere visti. Così il dolore si vince con la produzione di sguardi che guardano ma non vedono. È il sogno compiuto della merce. Ma nell’epoca del voyeurismo di massa è un drammatico errore politico pensare di trovarci gettati nella visibilità totale come ipotizzano diversi teorici post-moderni, Baudrillard in testa. È sovraesposto l’intero universo della soggettività e del desiderio confezionati su misura per i ceti medi. Nient’altro. L’élite borghese non guarda la televisione. E la vita materiale delle classi popolari è esclusa dalla rappresentazione mediatica della realtà.

23. Nella materialità vivente: poveri, prostitute e disagiati mentali popolano in quantità sempre maggiori le città e sono sempre più visibilmente invisibili quanto più assediano gli avamposti del benessere. Nella fantasia: la saga cinematografica di Alien: il mostro che ti invade da dentro; Videodrome: la Tv che ti incorpora; The Truman Show: la televita. L’omeopatia non c’entra. Neanche l’anestesia. Abituato a guardare il dolore che ancora non c’è e a rifiutare di vedere quello che lo circonda lo sguardo mediatizzato produce solide disabitudini. Alla fin fine il suo bisogno inconfessabile è la rinuncia agli altri sensi. Un bisogno che sconfina in un sogno impossibile. Al momento un disegno a malapena abbozzato dalla civiltà capitalistica delle immagini. Opera incompiuta perché uno sguardo simile sarebbe costretto a un dolore smisurato per il quale non è pronto un adeguato ambiente tecnologico: un nuovo territorio abitato da individui capaci di fare a meno dell’attuale equilibrio sensoriale. Le biotecnologie sono forse su questa strada. E la poetica di molti artisti-performer la indicano con precisione. Ma solo le élite borghesi possiedono informazioni in proposito. Per il momento sul grande schermo compare il dolore disumano rappresentato in Blade Runner e la riumanizzazione post-quello-che-ti-pare rappresentata nel primo Matrix.

24. La coincidenza tra mediascape e realscape transita indifferentemente dal piacere al dolore e viceversa. Non c’è soluzione di continuità tra le due condizioni. Sicuramente entrambe hanno perduto la loro aura. La sofferenza non coincide più con i piaceri visivi offerti dallo spettacolo circense degli antichi romani né con lo splendore dei supplizi narrato da Michel Foucault. Alla fame sessuale corrisponde il digiuno del dolore. È una conquista dello spettatore post-moderno non una rinuncia. Dinanzi alle atrocità, all’indigenza e alla morte lo sguardo mediatizzato si trova nella condizione allucinata dell’eremita: l’isolamento sensoriale lo conduce a percezioni extrasensoriali. Nel caso dello sguardo mediatizzato la mossa dell’osservante è di segno negativo: il miraggio è rovesciato, la visione apre le porte all’invisibilità. In una parola: il dolore altrui è visto e contemporaneamente negato. Il rifiuto di vedere la sofferenza sociale è un comportamento intelligente che richiede complicate strategie organizzative di azione e inazione da parte di individui, gruppi, istituzioni. Per spiegare i castelli mentali con cui la normalità si protegge, giustifica e razionalizza il dolore Stanley Cohen utilizza il temine <diniego>. I più impegnati osservatori del diniego del dolore sono i mass-media perché producono e gestiscono la <sindrome da stanchezza da immagini> del pubblico nei confronti di guerre, carestie, crudeltà, calamità naturali. A questa risposta si affianca la <stanchezza da compassione>, la <stanchezza da verità>. Tre forme di esaurimento della risorsa attenzione che l’approccio cognitivista spiega e cura e che il giornalismo di regime amministra: come ogni fiaba che si rispetti tutti i Tg si concludono con un lieto fine.

25. Da buon materialista il borghese lo sa perfettamente: non si pensa solo con il cervello. Per questo il principio di realtà allestito dalla civiltà capitalistica dà vita a trascendenze extrasensoriali. Le forme che possono assumere sono molteplici e di segno opposto perché mettono in movimento sia processi di desensibilizzazione, sia processi di risensibilizzazione. Esempi di desensibilizzazione: la <trance metropolitana> di individui completamente chiusi in se stessi anche quando sono in mezzo agli altri; l’<oblio selettivo> di chi passa a fianco dei mendicanti senza vederli. Esempi di risensibilizzazione: immagini estreme corrispondenti a sofferenze estreme quali la morte per inedia di bambini africani o la fuga di profughi kurdi e utilizzate da organizzazioni umanitarie per sollecitare l’altruismo del pubblico occidentale. Entrambe le pratiche funzionano. Ma i rapporti di forza non sono gli stessi. I mass-media e in particolare la Tv generalista detengono di fatto il monopolio della produzione di immagini della sofferenza. Le organizzazioni umanitarie, il mondo dell’ambientalismo, i partiti di sinistra, il movimento antiglobalizzazione, i sindacati si affidano principalmente alla parola scritta, alla fotografia, al Web, alla manifestazione di piazza. La lotta è impari. E si stabilizza sull’impossibilità del pubblico di assorbire oltre una certa soglia ulteriori immagini di sofferenza. In questa crisi da sovrabbondanza risiede il potere del monopolio borghese della comunicazione rispetto alla sofferenza geograficamente lontana: il ritratto di una madre palestinese che piange il figlio ucciso è risucchiato nel campo gravitazionale delle merci-immagine. Da buon materialista il borghese lo sa perfettamente: non si pensa solo con il cervello.

26. L’efficace metafora della <belva dei media> è utilizzata da Stanley Cohen per descrivere una regia che tiene insieme la produzione televisiva di immagini del dolore con l’inimmaginabile: la possibilità che quel dolore possa investire la vita reale dello spettatore. È l’hollywoodiano modo di produzione delle immagini con cui la belva dei media familiarizza il pubblico al dolore che produce il diniego del dolore. L’insensibilità come costante comportamentale è innaturale. Viceversa, la desensibilizzazione del grande pubblico rientra in un ordine visivo applicato dagli individui nella realtà e nella rappresentazione della realtà. Ma gli ordini visivi non sono neutrali. Non è l’opinione pubblica ad abituarsi a vedere la sofferenza di chi patisce la fame e la sete in Africa. È l’elaborazione attuata dalla belva dei media a rendere il patimento di quei popoli un evento visivo normale per il quale non è il caso di commuoversi più di tanto. Selezione arbitraria dell’informazione, sovraccarico di messaggi, sensazionalismo: ecco tre modalità gestionali dell’immagine applicate a sofferenze lontane che aumentano la distanza psicologica dello spettatore dalle persone che soffrono. Così il déjà-vu della disperazione si rivela una tecnologia del controllo sociale doppiamente capace: 1) di saldare i messaggi televisivi della sofferenza umana con quello che accade nelle strade rendendo l’osservatore vulnerabile non tanto <al sovraccarico di informazione, bensì al sovraccarico di richiesta>; 2) di utilizzare uno stesso sguardo, lo sguardo mediatizzato per osservare e negare la vita nello schermo e la vita fuori dallo schermo. Il déjà-vu della disperazione è la messa in pratica di un potere la cui ragione <è che una qualunque attenuazione della compassione, ogni calo di preoccupazione per altre persone distanti è proprio ciò che lo spirito individuale del mercato globale vuole incoraggiare>.

27. Stanley Cohen: <C’è un triangolo dell’atrocità: in un angolo le vittime, coloro che subiscono qualcosa; nel secondo i colpevoli, coloro che infliggono qualcosa; nel terzo gli osservatori, coloro che vedono e sanno quel che sta succedendo>. Nel luglio del 2001 in occasione delle manifestazioni genovesi dei new-global contro la riunione del G8 la democrazia in Italia è sospesa e reparti di squadristi appartenenti alle cosiddette forze dell’ordine mettono in atto una violentissima repressione in perfetto stile cileno. Ma i nostrani picchiatori in divisa sono inconsapevoli del dissolvimento della linea rossa tra attori e pubblico: le vittime delle loro brutali violenze coincidono con gli osservatori. Mille occhi digitali li filmano mentre compiono i loro crimini: cariche immotivate, manganellate a manifestanti inermi, cacce all’uomo, pestaggi, lacrimogeni sparati dagli elicotteri, l’omicidio di Carlo Giuliani. A registrarli è uno sguardo che irrompe nel mondo della comunicazione: il media attivista. Sguardo molteplice che si esprime con un largo ventaglio di professionisti: videomaker, fotografi, giornalisti, hacker, redattori, scrittori, programmatori. Tutti uniti da una cultura politica che manda a pezzi le icone del neo-liberismo. DeeDee Hallek sostenitrice di Indymedia: <Sicuramente abbiamo cambiato la percezione del pubblico rispetto alle organizzazioni del mercato globale. Nessuno più guarda al Wto o alla Banca mondiale come a organismi caritatevoli: questo già rappresenta una vittoria immensa>. Durante i fatti di Genova le major dell’informazione si rivolgono ai media indipendenti per ottenere e trasmettere immagini. Non potrebbe essere altrimenti: calibrando frequenza e durata della trasmissione di immagini della sofferenza i big media ammaestrano lo sguardo del pubblico sui significati da assegnare al dolore.

28. Nel caso della repressione del movimento compiuta a Genova nell’estate del 2001 l’addomesticamento dello spettatore televisivo non è riuscito. Certo anche in quest’occasione è stato rispettato il principio: <la tortura è sempre nascosta e sempre difesa>, dai torturatori e dai loro mandanti istituzionali. E come al solito la maggior parte delle sevizie sono state commesse al riparo da occhi indiscreti. Ma impossibile nascondere il terrorismo di stato espresso nelle piazze. Gli attori del dramma visivo consumato a Genova si sono appropriati dell’opera: anzi: l’hanno scritta mentre la vivevano. Per milioni di persone il corpo straziato di Carlo Giuliani è diventato un’immagine indimenticabile di sofferenza. Con i fatti di Genova il <triangolo dell’atrocità> ha iniziato a modificarsi. Quale forma assumerà non è dato ancora saperlo. Ma non si tratta di una metamorfosi facilmente arrestabile. Non è certo la prima volta che le produzioni indipendenti organizzano la registrazione visiva delle violazioni mentre si stanno compiendo. A facilitarla sono intervenuti processi tecnologici: l’avvento delle minicamere digitali a basso costo, la convergenza video/Internet; e processi politici: l’integrazione tra movimento e new-media. Sul piano della produzione sociale di immagini la repressione fascista del luglio 2001 ha segnato un punto di svolta che indica l’ingresso in una nuova fase della guerra mediatica: la contestazione non più oggetto della comunicazione ma soggetto capace di fare comunicazione. Il passo successivo del media attivista è quello più difficile da compiere: non più testimone oculare della sofferenza ma produttore capace di fare media.

29. La guerra mediatica è una componente della <guerra senza limiti>. Concetto che dà il titolo a un libro scritto da due ufficiali dell’aviazione militare cinese, Qiao Liang e Wang Xiangsui. Guerra senza limiti significa che <la guerra è tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili>. Significa anche che la sofferenza sociale non ha confini perché le armi non detengono più l’esclusiva della guerra. Con la deterritorializzazione del dolore intervengono altri tipi di forza <che trascendono l’ambito militare ma che possono comunque essere impiegate in operazioni di combattimento>: pirateria informatica, turbative dei mercati azionari, scandali. <Ciò che va detto chiaramente è che il nuovo concetto di armi sta creando dispositivi che sono strettamente legati alla vita della gente comune. … le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anch’esse diventare armi con le quali ingaggiare una guerra>. Ambiente, risorse, reti telematiche, religione sono aree militarizzate utilizzate per difendere ed attaccare in nome della sicurezza nazionale. Non si salva niente: la cultura è un campo di battaglia e la manipolazione dell’opinione pubblica un fatto scontato. Nella guerra senza limiti il ruolo dei militari è ridimensionato, precisato ed esteso. La guerra è mobilità. E penetra nello spazio errante mentre ne è penetrata. Il soggetto e l’oggetto si fondono: tutti indossano una divisa. Anche i civili: pirati informatici, analisti di sistemi, ingegneri software, magnate dei mass media, famosi editorialisti, conduttori di programmi televisivi… Per ognuna di queste figure: <La sua filosofia di vita è diversa da quella di alcuni terroristi ciechi e disumani, ma spesso è incrollabile e la sua fede, in termini di fanatismo, non è inferiore a quella di Osama Bin Laden. … Partendo da questi presupposti, chi può dire che George Soros non sia un terrorista finanziario?>. Già, chi può dirlo. Per farla breve: la nuova guerra è parte del capitalismo come modo di produzione e della civiltà capitalistica come modo di riproduzione. La scomparsa della pace è stata a lungo preparata: da tempo lo sguardo mediatizzato è integrato in uno spazio errante in cui nulla impedisce di passare dai film di guerra alla guerra dei film. Il pubblico? Si conquista.

30. La belva dei media vive nello spazio errante e combatte una guerra senza limiti contro tutti e contro tutto per inventare l’immaginazione. La belva dei media si nutre di comunicazione e nutre i comunicatori. Ma i ruoli non sono quelli tipici del circo tradizionale. Non è il domatore ad ammaestrare la belva. È la belva che ammaestra il domatore per esibire un numero universale: usare e scambiare immagini. Per quanto renda bene l’idea, la metafora del circo va immediatamente sospesa perché circoscrive uno spazio ben definito e fornisce un’idea antiquata del valore. Mentre lo spazio errante è la terra di tutti e di nessuno. È un luogo senza punto di arrivo e senza punto di partenza. Possiamo mentalmente materializzarlo in un aeroporto: contatto tra il ritorno della preistoria e le fughe in avanti della storia. Che vuol dire ‘sta frase sibillina? Che lo spazio errante è smisurato. Che per gestire uno spazio smisurato è necessaria una forza smisurata. Che questa forza non può essere data né governata dalla ragione e da criteri di giustizia sociale. Che tende a polarizzarsi lo squilibrio tra individuo e territorio, tra individuo e individuo. Che la belva dei media controlla la produzione e la riproduzione squilibrata di merci-immagini. Che le merci-immagini controllano il movimento degli occhi. E che in ultima istanza questa lunga catena domina il movimento dei corpi, delle merci e delle macchine dentro uno spazio indeterminato e illimitatamente conflittuale. Dominare le immagini significa dominare il movimento. E nell’immaginario generato dalla civiltà capitalistica c’è un solo dominatore: lo sguardo mediatizzato.

Autori citati

Diane Ackerman, Storia naturale dei sensi, Frassinelli, Milano, 1992

Samir Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione. La gestione della società contemporanea, Asterios, Trieste, 1997.

Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello  Cortina, 1996.

Luc Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano, 2000.

Stanley Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Milano, 2002.

Jean Pierre Changeux, L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983.

Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976.

Naomi Klein, No Logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini & Castoldi, Milano, 2001.

Timoty Leary, Caos e cibercultura, Urra Apogeo, Milano, s.d. (edizione originale 1994).

Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG, Gorizia, 2001.

Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1974.

Marshall McLuhan, Corrispondenza 1931-1979, Sugarco, Varese, 1990.

Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Guerra e pace nel villaggio globale, Urra Apogeo, Milano, 1995.

Nicholas Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

Howard Rheingold, Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

Ugo Vallauri, Indymedia dopo l’11 settembre. Intervista con DeeDee Halleck, in, Matteo Pasquinelli, (a cura di) Media Activism. Strategie e pratiche della comunicazione indipendente, DeriveApprodi, Roma, 2002.

Il borghese e lo sguardo. Mutazioni dei sensi nella civiltà capitalistica, è stato pubblicato sulla rivista, Homo Sapiens, Marzo, Teseo Editore, Roma, 2004, pagg., 195-224.

Rispetto all’edizione del 2004 sono sta apportate alcune lievi modifiche al testo per renderlo maggiormente fruibile.


Il crepuscolo della gioventù

di Patrizio Paolinelli

aggregazione giovanile

Per molti giovani dare del vecchio a qualcuno significa insultarlo, irriderlo, snobbarlo. Una tale attribuzione di senso ribalta il ruolo sociale della vecchiaia così com’era inteso nelle società tradizionali e per gran parte della modernità. Se oggi gli anziani hanno perso il prestigio d’un tempo si potrebbe supporre che siamo dinanzi a un giudizio largamente condiviso nella nostra società. Il che è vero solo in parte perché a un’indagine a malapena approfondita, ci si accorge che più che dinanzi a un ethos storicamente costruito, sedimentato generazione dopo generazione, siamo dinanzi a un’efficace tecnologia del potere economico. Che nella sua versione capitalistica si caratterizza per distruggere ciò che crea, età della vita comprese. Ma procediamo con ordine.

Innanzitutto sarebbe fuorviante pensare che i giovani costituiscano un fronte compatto. Per un adolescente un venticinquenne è già vecchio e per un venticinquenne un quarantenne è un matusa. Eppure ognuno di loro si considera giovane. Dunque le fila dei giovani sono divise, come peraltro gli spazi pubblici che frequentano: i locali dei diciottenni, ad esempio le discoteche, sono di fatto preclusi ai trentenni. Ciononostante c’è qualcosa che tiene uniti i giovani in quanto idea. Questo qualcosa è la cultura. Ma la cultura è un’astrazione se non la si collega alle sue pratiche. Perciò la prima domanda da porsi è: quale tipo di cultura tiene insieme il frammentato fronte dei giovani che però è unanime nel prendere le distanze dai vecchi? E la risposta è una sola: la cultura di massa. I cui prodotti determinano comportamenti apparentemente eterogenei. Ad esempio, tra un surfista e un punk, tra un dark e un rapper ci sono notevoli differenze. Ciò che li unifica è il fatto di essere subculture inglobate nella cultura di massa; la quale, a sua volta, è prima di tutto un’attività economica gestita in termini capitalistici.

Qui incontriamo un altro nodo critico, perché a determinare la cultura di massa non sono i giovani, ma l’industria culturale (cinema, radio, Tv, fotografia, stampa, editoria, moda, sport, pubblicità, videogiochi, musica pop, nuovi media ecc.). Su questo aspetto occorre essere chiari: dal secolo scorso ad oggi sono gli adulti a decidere ciò che per i ragazzi è bene e ciò che è male, ciò che devono vedere, ascoltare, leggere, desiderare e persino pensare. D’altra parte, proprietari e manager delle industrie culturali sono in genere individui in là negli anni. I quali utilizzano a man bassa i giovani – come protagonisti e come promotori – per allargare il mercato dei loro coetanei. Per capirci, è difficile che lo stilista abbia la stessa età della modella e lo stesso meccanismo vale per i guru della pubblicità, per i proprietari di discoteche e palestre. Tanto è così che i teenager (13-19 anni) nascono negli anni Cinquanta del secolo scorso quando gli imprenditori si accorgono della loro capacità di spesa. Prima di allora i teenager non esistevano, semplicemente perché avevano pochissimi soldi in tasca. Non basta. Dagli anni Cinquanta a oggi i consumi culturali dei giovani sono prevalentemente pagati dagli adulti, sotto forma di genitori, nonni e parenti vari che dispensano ai propri ragazzi paghette sempre più crescenti e si accollano le spese per i loro bisogni, consumi, desideri peraltro sempre più differenziati e sempre più costosi: abbigliamento, scuola, attività sportive, divertimenti, prodotti tecnologici, mezzi di trasporto, corsi di ogni tipo, vacanze e così via. Detto in parole povere, gli imprenditori usano i giovani per far aprire il portafogli agli anziani.

La dinamica descritta suggerisce che più che la dialettica sociale è la ricerca del profitto a creare il mito dei giovani. Perché di mito si tratta. Dal punto di vista dell’età anagrafica i giovani esistevano anche al tempo degli antichi romani ma non erano considerati una categoria sociale a parte. In breve, le differenti età della vita e la sensibilità collettiva che ne deriva sono prodotti storico-culturali e non naturali, anche se tali possono apparire. In proposito è arcinota la tesi di Philippe Ariès, secondo il quale l’idea e il sentimento dell’infanzia appaiono solo tra il XVII e il XVIII secolo e costituiscono pertanto invenzioni della modernità̀ (per secoli in Europa l’abbandono dei neonati era una pratica diffusa che non comportava una condanna sociale e non suscitava sensi di colpa da parte di chi la metteva in atto). Col che siamo arrivati a una domanda cruciale: i giovani di oggi possono essere ancora considerati giovani? Ovviamente sì sul piano anagrafico, ma diversi segnali indicano il declino di un’età della vita largamente costruita dal mercato.

I killer dell’idea di gioventù sono parecchi. Il principale è forse il giovanilismo. Termine con cui si ritiene che la giovinezza sia un modo d’essere svincolato dal corso del tempo. Così come i teenager sono un’invenzione del mercato anche il giovanilismo è il risultato della caccia al profitto. Le aziende dello spettacolo, delle emozioni, della cura del corpo e più in generale del tempo libero si sono accorte che potevano estendere ai non giovani il mercato dei propri prodotti/servizi inizialmente destinati ai giovani. E così oggi gli interventi di chirurgia estetica sono praticati dalle adolescenti e dalle cinquantenni, i nonni indossano i jeans, le mamme fanno a gara con le figlie per apparire seducenti, i padri con i figli per apparire in buona forma fisica ed entrambi i genitori si regalano un bel tatuaggio perché nessuno possa dire che non sono alla moda.

Col giovanilismo sia il narcisismo primario (quello dei bambini) sia la maniacale erotizzazione della vita quotidiana diventano fenomeni di massa e trasversali alle età della vita: se gli adulti fanno di tutto per restare giovani e attraenti, a differenziare i giovani resta sempre più l’anagrafe. D’altra parte i costumi invecchiano e con essi anche i giovani che li adottano. Short, topless e minigonne entrano in scena nei lontani anni ’60 del secolo scorso. Allora ruppero con la società patriarcale in nome della liberazione del corpo mentre oggi fanno parte della normalità. Una normalità che contribuisce a rendere precocemente anziani i giovani perché: 1) si trovano senza un soggetto da contestare in quanto gli adulti si propongono e si atteggiano in maniera non molto dissimile dalla loro; 2) perché la perdita della spinta contestatrice li rende conformisti e dunque integrati nella società (la quale non subisce alcun scossone per le intemperanze di qualche rockstar, gli eccessi della movida, le vacanze trasgressive).

A contribuire al crepuscolo della gioventù è la crisi della stessa industria culturale che della gioventù ha fatto un mito e un gigantesco mercato. Da tempo la musica pop è incapace di esprimere vere novità. Ormai è tutto un revival, ristampe, remake e ruminazioni a cui fanno da contraltare divetti e divette di plastica costruiti a tavolino dagli adulti nei piani alti dell’industria discografica. La mediocrità la fa da padrona anche al cinema dove è tutto un sequel, prequel e rimasticature varie. Per quanto riguarda i libri, i giovani sono stati istruiti a stargli alla larga perché in passato hanno formato rivoluzionari in grado di far tremare il capitalismo, cosa che non accade, né con tutta probabilità accadrà, con i social network, i tablet e i telefoni cellulari.

E tuttavia i giovani restano biologicamente giovani, ossia tendenzialmente pieni di energia e di entusiasmo. Energia ed entusiasmo che vanno canalizzati in qualche sogno. La cosiddetta rivoluzione tecnologica è servita allo scopo. La Silicon Valley, con i suoi giovani imprenditori diventati miliardari dalla sera alla mattina, è un mito portante dei Millennial. Peccato che non rivoluzioni nulla, peggiori le disuguaglianze sociali e per di più sia un bluff. La Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi mesi se non fosse sostenuta da massicci investimenti statali decisi da attempati politici. Tanto per dirne una, la Apple è, di fatto, un’azienda parastatale mentre la quasi totalità della tecnologia dell’i-Phone è stata realizzata in larga misura con denari pubblici. E Steve Jobs? Un gran venditore e nulla più. Ma tutto questo i Millennial non lo sanno e la stampa va avanti con la propaganda del mito mentre il potere resta gerontocratico nell’Hi-tech come altrove.

A rendere i giovani adulti anzitempo ci sono poi le terribili condizioni materiali in cui si trovano da un paio di generazioni: disoccupazione di massa, precariato dilagante, degrado della scuola pubblica, progressiva demolizione del welfare-state, alto costo della vita, basse retribuzioni e così via. Dinanzi a una situazione del genere come mai i giovani non si sono comportati da giovani facendo la rivoluzione? Perché non sono più giovani. D’altra parte non hanno una coscienza politica, né tantomeno di classe, e sono molto meno istruiti dei giovani degli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso. Al di là delle opinioni, mediamente uno studente universitario dei nostri giorni non è in grado di fare un’analisi sensata della condizione sociale e politica della città, della regione, del Paese in cui vive. Insomma, i giovani sono stati abbondantemente americanizzati. Le università ormai sfornano ragazzi incapaci di immaginare un mondo diverso da quello in cui vivono. Per esempio, parlare con un bocconiano è un’esperienza avvilente: ti trovi davanti a un anziano di vent’anni tanto è normalizzato e ossequioso nei confronti della vecchissima ideologia liberale (assai più vecchia del marxismo, se vogliamo metterla sul piano temporale). Naturalmente, il bocconiano pensa di essere giovane perché la sua aspirazione è far quattrini, perché padroneggia l’inglese, parla in aziendalese e dice “mandami un feedback” anziché “rispondimi”.

Ma come hanno fatto anziani politici al servizio di anziani imprenditori a far accettare il barbarico modello sociale statunitense ai giovani italiani e più in generale ai giovani europei? In mille modi ovviamente. Innanzitutto smontando anno dopo anno i diritti sociali conquistati dai padri (il posto fisso? Che noia! La sanità pubblica? Privatizziamola!) e poi, ad esempio, inventando la “generazione Erasmus”. Come è noto l’Erasmus è un programma di mobilità per studenti universitari che possono compiere in un’università straniera un periodo di studio. Trattasi in larga misura di giovani privilegiati destinati a svolgere professioni altamente qualificate e ben retribuite. E casomai a qualcuno non andasse bene sul piano occupazionale durante gli scambi Erasmus è assai probabile che se la sia spassata in piccanti avventure sessuali. Questa minoranza di ricchi o futuri ricchi cosmopoliti sono utilizzati dai mezzi di comunicazione di massa per mostrare alla maggioranza dei giovani senza futuro quanto è bello emigrare, trovarsi senza lavoro per parecchie volte nella propria vita, smarrire la propria identità culturale e vivere in una condizione di perenne incertezza.

Le età della vita sono soggette ai processi storici. Non è solo la gioventù a entrare in una fase di declino. Anche l’infanzia si sta avviando al crepuscolo. Basti vedere i bambini trasformati in adulti in miniatura dalla pubblicità, il loro generalizzato addestramento al consumismo, l’indottrinamento alla religione del look, la loro precoce erotizzazione (col consenso dei genitori, a loro volta figli della Tv commerciale). I giovani d’altra parte sono sempre più squattrinati (tranne i privilegiati) ed ecco che a sostituirli arrivano i bambini per far aumentare i consumi delle famiglie (fino al 30% annotano soddisfatti gli esperti di marketing). Per assolvere a questo compito i piccoli vanno drogati di pubblicità, televisione, videogiochi, frivole mode e quant’altro.

Il capitalismo ha necessità di riorganizzare il ciclo della vita e lo sta facendo con la ferocia che lo contraddistingue. Dunque ha vinto e i giovani sono tutti irretiti? Sarebbe sbagliato e ingiusto pensarla così. Quella che abbiamo esaminato è una tendenza che i media presentano come dominante. Lo sarebbe meno se la stampa non fosse asservita al potere economico. Ma così non è. E tuttavia esistono giovani che sono rimasti tali. E sono quelli che si impegnano per il prossimo, per l’ambiente, la pace, la giustizia sociale e che operano nel volontariato, nelle Ong, nel mondo dell’associazionismo, della cooperazione e speriamo prima o poi anche in qualche partito politico, com’era un tempo, quando i giovani non erano anziani.

Prof. Patrizio Paolinelli,
Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro

Per una sociologia trasformativa e di posizione

di Fabio de Nardis e Anna Simone

Questi mesi di distopia pandemica sono stati un‘occasione di riflessione per molte studiose e studiosi che, nelle lunghe settimane di reclusione, hanno avuto modo di riprendere in mano i grandi classici del pensiero sociologico. Confrontandoci, ci siamo resi conto di come le scienze sociali siano state realmente efficaci solo quando sono rimaste agganciate ai processi storici, senza rincorrere fittizi steccati disciplinari o la chimera di un finto neutralismo scientifico.

Prof. Fabio de Nardis ===>>

I grandi sociologi del passato erano dotati di una forte soggettività storica, capaci di contaminare e farsi contaminare dalle condizioni materiali dell’esistenza sociale, generando anche una cassetta degli attrezzi utile a determinare i nuovi modelli politici, giuridici e sociali. Anche gli specialismi scientifici, originariamente pensati per ricostruire l’intero spazio dei mondi sociali, hanno poi finito per spezzettarlo dentro rigidi schemi accademici, polverizzando il tutto in tante piccole scatole nere sempre meno comunicanti tra loro. A partire da queste considerazioni, abbiamo sentito l’esigenza di rilanciare il ruolo pubblico, emancipatorio, politico, trasformativo della sociologia attraverso la costruzione di una rete di sociologhe e sociologi “di posizione”.

Condividiamo l’idea di una sociologia intesa come una scienza sociale al contempo “trasformativa” e “generativa”, in grado analizzare il presente per determinare un’agenda critica necessaria a immaginare un’alternativa di società. Da questo punto di vista, il compito della sociologia è fare emergere contraddizioni laddove tutti vedono normalità ed elementi di regolarità laddove tutti vedono contraddizioni. In questo senso essa è, per sua stessa natura, intimamente sovversiva, dunque posizionata. Se per tutto l’arco del Novecento la nozione di “classe” e di “sapere critico” costituivano coordinate imprescindibili per studiare e comprendere la composizione sociale nei suoi rapporti con il potere, la politica, il diritto e la cultura, oggi bisogna fare i conti con una “scomposizione” sociale e con una forma di “individualismo metodologico” che, anziché andare verso la rivalorizzazione di una genealogia storica e sociale dei nostri classici e del loro “stile” di pensiero, per ridare energia critico-propositiva ai saperi sociali, tende a diventare sempre più un’ancella al servizio dei decisori. Tale processo tende a favorire una sociologia fredda, neutra, rassicurante e di servizio e si innesta acriticamente in un processo più grande che, a sua volta, genera un divario ulteriore e preoccupante tra bisogni sociali reali e forme della decisione politico-istituzionale.

Per “sociologia di posizione”, noi intendiamo un triplice movimento: da un lato, vogliamo rilanciare quell’idea di sociologia pensata dai nostri classici, aggiornando la loro cassetta degli attrezzi per riposizionarci e riposizionare la sociologia in direzione di un pensiero trasformativo e generativo contro l’ordine linguistico dell’opinione e dei saperi al servizio del potere; dall’altro lato, vorremmo anche che la sociologia abbia una maggiore visibilità nel dibattito pubblico proprio grazie alla sua natura meramente critico-interpretativa, ma anche propositiva dei e sui contesti sociali, al fine di tornare a determinare i grandi mutamenti di scala, anziché esserne solo spettatrice passiva, se non addirittura già determinata da essi. Infine, riteniamo che il termine “posizione” sia in grado di tradurre sia i saperi sociologici che i saperi delle soggettività che compongono le società contemporanee fornendo finalmente una risposta all’interrogativo che si poneva Gayatri Spivack, femminista indiana immigrata negli Stati Uniti e studiosa di Gramsci, in un mondo fortemente determinato dal neoliberismo: «I subalterni possono parlare?». La risposta sarebbe affermativa se la sociologia tornasse a rivestire il suo ruolo di tramite, al contempo relazionale e conflittuale, tra l’interpretazione degli assetti economici, politici e giuridici e gli stessi mondi sociali situati e posizionati, sia sotto il profilo geografico, sia sotto quello delle soggettività.

Gli esseri umani hanno spesso difficoltà a trascendere i confini stretti delle proprie relazioni interindividuali. Vivono la propria vita nella convinzione che la causa dei propri disagi sia da rintracciare in se stessi o nel perimetro delle relazioni interpersonali, cedendo sempre più alla deriva individualista e concorrenziale determinata dall’antropologia neoliberista. Pur non negando l’importanza degli aspetti psico-sociali e micro-
sociologici, la nostra prospettiva inserisce le dinamiche della vita sociale dentro una dimensione macro, fatta di processi economici, politici e culturali in cui si configurano vecchi e nuovi rapporti di forza nonché le relazioni di potere che non possono mai essere scisse dalle fasi e dalle contingenze storiche. Diventa dunque centrale comprendere i mutamenti strutturali dentro cui gli esseri umani sono immersi. La capacità di leggere il riflesso dei processi storici sulla vita interiore degli individui e sul loro comportamento esteriore è tra l’altro uno dei presupposti di quella “immaginazione sociologica” ben delineata da Mills nel suo tentativo di definire i parametri di una nuova sociologia critica. Allo stesso modo, la sociologia di posizione si pone l’obiettivo di ricondurre il comportamento sociale e i disagi personali ai turbamenti oggettivi delle società contemporanee, trasformando dunque l’indifferenza pubblica in interesse attivo per i problemi collettivi al fine di restituire processi di soggettivazione possibili ad attori sociali utilizzati solo come mere individualità statistiche o merci di consumo. Il presupposto materialistico di questo approccio risiede nell’idea che ogni individuo possa realmente comprendere la propria esperienza solo collocandola nella propria epoca storica, concentrandosi sugli aspetti che lo accomunano agli altri anziché solo su quelli che lo distinguono da essi. Ogni biografia individuale è collocata in una particolare sequenza storica e solo connettendo individui e storia nell’ambito del complesso sistema di relazioni sociali possiamo gettare luce sul presente e sul futuro dell’umanità.

La domanda fondamentale a cui un sociologo o una sociologa di posizione deve rispondere è: che tipi di donne e uomini prevalgono in un determinato periodo storico, al netto della sua configurazione strutturale? E che tipo di relazioni mettono in campo? Che tipo di modelli sociali determinano? Quanto e come sono invece determinati da quegli stessi modelli sociali? L’abilità sta dunque nel passare da una dimensione micro a una dimensione macro, dunque politica, economica e culturale, per poi eventualmente tornare a quella micro su cui si collocano le singole soggettività umane, al fine di farle interloquire per interrompere quella lunga sequenza di scissioni tra il sé e gli altri, il sé e le società, le società e gli assetti politici, economici, giuridici e culturali. Questo presuppone un’analisi sistematica dei processi di mutamento e una certa capacità di muoversi agilmente su diversi livelli di astrazione per restituirgli forza materiale.

I fondamenti teorici del nostro tentativo di gettare le basi di una nuova sociologia trasformazionale sono da rintracciare nell’opera di Karl Marx depurata dalle incrostazioni ideologiche di quegli interpreti che, al fine di “completare” il suo pensiero, hanno in realtà finito per negarlo. Il nostro punto di partenza è dunque la prospettiva del materialismo storico secondo cui è possibile arrivare alla costruzione di una scienza unitaria della società sulla base di tre parametri fondamentali: 1) storicità delle categorie teoriche; 2) composizione materiale dei rapporti sociali; 3) possibilità di rintracciare le leggi causali della transizione storica da un tipo sociale a un altro e quindi anche da un modello culturale a un altro. Tuttavia, se Marx è un punto di partenza fondativo per comprendere il capitalismo e i rapporti di forza che strutturano le società moderne, riteniamo altrettanto importante utilizzare la cassetta degli attrezzi consegnataci anche da altri interpreti del Novecento come Foucault e i suoi studi sul potere; Bourdieu per le sue ricerche sempre “situate” e “posizionate” che hanno restituito parola e valore a tutti quei soggetti relegati ai margini delle società capitalistiche; Gramsci per comprendere i rapporti di forza egemonici e contro-egemonici; la Scuola di Francoforte per i loro studi sul capitalismo, il desiderio, il consumo e la “personalità autoritaria”; infine, ma non meno importante, il pensiero femminista e le sue numerose stratificazioni pratico-concettuali.

Concepiamo quindi la storia come un succedersi di discontinuità che portano alla successione di tipi sociali assorbiti nella materialità delle relazioni. La storia è dunque in sé promotrice di mutamento e le scienze storico-sociali hanno il compito di individuare le leggi che governano questo mutamento per criticarle o per trasformarle. Nessun “tipo sociale” può considerarsi eterno e immutabile. Al contrario, la sua provvisorietà diventa la premessa necessaria per ogni indagine sociale sul presente. Dentro questa logica, il presente è il punto di approdo della discontinuità storica che si è realizzata nel passato e il punto di partenza della discontinuità storica che si realizzerà nel futuro. Il cambiamento diventa dunque scientificamente necessario e si realizza attraverso la sostituzione di un tipo sociale (non ideale perché già materiale) con un altro. L’accento sulla dimensione della provvisorietà del presente e sulla necessità storica del mutamento coniuga dunque la dimensione della scienza con quella della politica e dei bisogni delle soggettività. La mediazione tra pensiero e realtà, tra logica e storia diventa così reale, concretizzandosi nella connessione logico-storica tra teoria e prassi.

Attraverso un approccio critico è dunque possibile connettere i processi culturali direttamente alla pratica dell’esistenza umana, fornendo di questa esistenza una spiegazione che parta dall’esistenza stessa. Come fece Marx per la sua epoca, oggi si tratta di ricostruire un’interpretazione della modernità a partire dal suo impianto materiale connesso alla capacità umana di produrre coscienza e organizzazione. Non si tratta di speculare sull’esistenza del mondo, né di spezzettarla in compartimenti stagni, ma di ricondurre la spiegazione del mutamento sociale alla connessione necessaria tra pensiero e azione. Non è un caso che la stessa critica marxiana investisse tutte le componenti intellettuali del diciannovesimo secolo disvelandone la causazione storica, in modo che la critica della teoria diventasse critica della pratica, la critica dell’economia politica diventasse critica del capitalismo e la critica della teoria politica diventasse critica della politica e del diritto borghesi. Lo stesso approccio posizionato è rintracciabile negli studi delle autrici e degli autori menzionati i quali, senza le basi fondative del pensiero marxiano, non avrebbero potuto pensare e studiare gli effetti sulla società e sugli attori sociali del capitalismo, del potere, dei consumi e dei conflitti che hanno reso il Novecento un secolo tanto intenso.

Dal punto di vista della sociologia trasformativa e di posizione, la politica va studiata come un insieme di idee e comportamenti che si strutturano nei rapporti materiali, identificando le connessioni che storicamente si realizzano tra istituti politico-giuridici e rapporti socioeconomici. Questa concezione ci allontana dall’idea formalistica e normativa secondo cui la politica e la democrazia siano solo un modo di produrre decisioni sradicate dalla realtà strutturale dei rapporti sociali. Definire la democrazia come un semplice corpus di regole, vuol dire sganciarla dalla dimensione sociale degli interessi, vincolando la volontà popolare a un meccanismo formalistico che si realizza nella scissione istituzionalizzata tra governanti e governati. Così facendo, si decapita la politica di significatività sociale. I mezzi formali di espressione della delega e della sovranità si trasformano in fini, impedendo che essi possano essere sostituiti da mezzi nuovi e sclerotizzando l’organizzazione democratica nella sua variante minima espressa storicamente dal liberalismo. Il popolo viene ridotto a entità sociale il cui unico compito è quello di adeguarsi alla volontà politica delle élites. Si tratta di scegliere se il focus vada posto sulla sovranità popolare o sui mezzi per esprimerla. Appare evidente che l’ipotesi formalistica dei mezzi-fini, per quanto sia proposta come neutrale, nella realtà sia molto “storica” nel senso gramsciano, dal momento che è l’espressione teorica e istituzionale di una società costruita attorno alla centralità individuale che si articola nell’asimmetria dei rapporti sociali tipica di un modello di organizzazione capitalista, dentro cui il potere è esercitato in modo elitistico.

Società di massa e società di élites sono due facce della stessa medaglia. Se le masse partecipassero alla politica non sarebbe necessaria un’élite illuminata né una massa conformista. L’apatia politica non è semplicemente una reazione cognitiva delle masse verso gli istituti della politica, ma è al contrario una “concezione” elaborata dalle élites neoliberali che si fonda sulla scissione tra sfera della politica e sfera dell’esistenza sociale. Dentro la concezione neoliberale, le masse possono essere attivate sporadicamente solo al fine di legittimare il potere delle élites. Per far questo, esse devono essere passivizzate durante l’esercizio di quel potere attraverso la manipolazione della loro struttura morale e politica che si realizza oggi soprattutto attraverso l’industria culturale e i vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, nonché attraverso le relazioni digitalizzate e un’idea sempre più “prestazionale” della vita, del lavoro e della comunicazione che genera, a sua volta, nuove forme di alienazione e scissione tra la dimensione percepita delle società e la dimensione reale nelle quali si dispiegano le vite materiali degli attori sociali.

A queste dinamiche occorre anche aggiungere la questione della “mortificazione” alla quale è condannata la grande stagione novecentesca dei conflitti politici e sociali. Quei diritti sanciti in nome della cittadinanza e del lavoro oggi sono diventati sempre meno esigibili, mentre aumenta esponenzialmente un processo di pauperizzazione delle vite e dello stesso lavoro che trasforma i “soggetti di diritto” in “bisognosi”, “marginali”, in parte come già accaduto nell’Inghilterra ottocentesca del primo capitalismo con le Poor Law, una sorta di filantropismo di carattere disciplinare, talvolta persino meritocratico, atto a eliminare ogni forma di conflitto sociale nella allora neonata società industriale.

La concezione liberale della società intesa come somma di individui dissociati e impegnati nelle attività produttive ha creato le condizioni per cui non si possa concepire altra forma di reggimento politico da quella che si attua per mezzo dei governi tecnocratici. “Individualismo” e “proprietà” diventano i due attributi indissociabili della “persona pre-sociale” che la legge avrebbe il compito primario di difendere. Ma in questa logica, anche la cosiddetta eguaglianza giuridica diventa una forma compiuta di disuguaglianza. La stessa idea di democrazia si riduce a insieme di forme, oggi tra l’altro duramente incrinate dalla politica emergenziale nel nome della quale possiamo identificare un processo di evidente involuzione delle condizioni democratiche, imbrigliate nei parametri di un neoliberismo autoritario, inteso come quell’insieme di strategie statali attraverso cui i parametri del sistema neoliberista sono tenuti al riparo da ogni possibile pressione popolare.

Tuttavia, se il liberismo nella sua concezione classica mirava a ridurre le funzioni dello Stato all’interno delle economie di mercato, ma concedeva spazi politici di manovra alla politica e alla rappresentanza, tenendo in piedi un apparato giuridico minimo in grado di contenere le stesse derive del mercato, nel neoliberismo si registra un ulteriore processo di intensificazione della presenza del mercato nella sfera pubblica e sociale. Il diritto privato mira ad avere la meglio sul diritto pubblico considerato come un ostacolo alla piena realizzazione del principio di libera concorrenza. Il valore e l’estrazione del valore avviene non più solo attraverso la forza lavoro, ma attraverso l’intera esistenza umana e sociale (desideri, gusti, preferenze, identità della popolazione) mercificata e sussunta pienamente dal capitalismo. Il vecchio controllo sociale si è totalmente ricodificato e ramificato attraverso il potere degli algoritmi a loro volta strumentalizzati dalla comunicazione politica, le piattaforme e gli standard di valutazione e produttività su base aziendalistica. Le vecchie forme di organizzazione del lavoro hanno ceduto il passo al Management che trasforma l’umano stesso in “risorsa”, mentre la politica cede sempre più alla sua dimensione Io-cratica e neo autoritaria.

Il neoliberismo prende forma e si rinforza, in primo luogo, attraverso pratiche statali coercitive finalizzate a disciplinare, marginalizzare e sovente criminalizzare le forze sociali di opposizione; in secondo luogo, attraverso gli apparati giuridico-amministrativi degli Stati che limitano i percorsi lungo i quali le politiche neoliberali possono essere messe in discussione e sfidate. Nel connettere crisi democratica, depoliticizzazione e neoliberismo autoritario, assumiamo dunque che quest’ultimo operi attraverso meccanismi di disciplinamento preventivi che isolano e proteggono le politiche pubbliche neoliberali attraverso strumenti giuridici, amministrativi e coercitivi finalizzati a mettere al riparo il decisore politico da ogni forma di dissenso sociale. Da questo punto di vista, appare evidente come il neoliberismo si discosti anche dal pensiero liberale classico. Le politiche neoliberali hanno infatti bisogno di uno Stato forte, ma di una democrazia debole.

È dentro questi presupposti teorici che rivendichiamo l’esigenza della costituzione di una rete di scienziate e scienziati sociali che, non rinunciando al rigore metodologico, si pongano oggi il problema della critica dello stato di cose presente, senza per questo scadere in uno sterile ideologismo che attiene a un sapere dottrinario, uno stile che non ci riguarda. L’emergenza pandemica sta tragicamente mostrando gli effetti perversi dei processi di mercatizzazione dello Stato e delle politiche pubbliche. I sistemi sanitari mostrano le loro fragilità per effetto dei processi di privatizzazione a cui sono stati sottoposti. Le ricchezze vengono delocalizzate e concentrate tramite il capitalismo delle piattaforme. L’emergenza ha rafforzato i processi di personalizzazione e centralizzazione del potere prestando il fianco alla proliferazione di modelli di riferimento neo-autoritari. Questi processi si innestano in dinamiche di crescita delle disuguaglianze e criminalizzazione delle povertà che rischiano di trovare un’ulteriore accelerazione nei prossimi anni.

La pandemia ha aggravato disuguaglianze e divari sociali. È per questo che non basterà essere “resilienti”. Se esserlo significa tornare a un modello di sviluppo centrato sull’accelerazione dei cicli di produzione e consumo, sul primato del capitalismo finanziario, su un fisco regressivo, su insopportabili asimmetrie di potere, sull’individualismo competitivo e sulla normalizzazione della disperazione, noi preferiamo rifiutare la logica della resilienza, abbracciando piuttosto una pratica di resistenza generativa, trasformativa e posizionata.

L’Europa che verrà merita equità politica, sociale e fiscale, dignità del reddito, tutela del lavoro, un benessere fondato su beni e servizi collettivi, di qualità, accessibili a tutti. Sanità, istruzione, servizi di cura, acqua ed energie, infrastrutture sociali, abitazioni, investimenti in cultura e ricerca sono quei bisogni radicali e necessari per rendere la vita degna di essere vissuta.

Dedicheremo gli anni che verranno a un duplice impegno. Da un lato, ci daremo il compito, proprio della sociologia posizionale, di analizzare le conseguenze sociali e politiche della pandemia a partire dal cosiddetto Recovery Plan. Dall’altro, useremo gli strumenti della ricerca sociale per disegnare un’altra vita per l’Italia e l’Europa, a cominciare da una nuova idea di cura collettiva, non affidata agli attori della grande finanza, ma restituita ai suoi stessi beneficiari. L’innovazione di cui abbiamo bisogno non è quella predefinita dalle élites tecnocratiche, ma un cambiamento reale fondato sui desideri, i bisogni e gli interessi collettivi degli attori sociali.

Fabio de Nardis
Università di Foggia

Anna Simone
Università di Roma 3


Dalla società del benessere alla società del disagio

di Patrizio Paolinelli

Perché pubblicare oggi in Italia una corposissima inchiesta sul campo che ha per oggetto il disagio sociale nella Francia degli anni ’90 e per di più condotta con metodi criticati dall’accademia? La risposta è semplice: perché continua a parlare di noi, noi europei sempre più impoveriti, spaventati e disorientati man mano che avanzano il neoliberismo, la globalizzazione e l’americanizzazione del pianeta. L’inchiesta a cui ci riferiamo si intitola “La miseria del mondo” (a cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino, Mimesis, Milano, 2015, 854 pagg., 38,00 euro).

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

La ricerca è il frutto di tre anni di lavoro d’équipe ed è stata ideata Pierre Bourdieu, che ha diretto ventuno collaboratori (venti nell’edizione italiana a cui sono stati apportati diversi tagli). Abbiamo dunque a che fare con un testo corale che riporta e analizza le testimonianze di uomini e donne sulla loro vita e le difficoltà ch’essa comporta.

Contrariamente a quel che potrebbe lasciar presagire il titolo del libro l’oggetto di studio di Bourdieu non è la povertà estrema di chi non dispone di risorse per sfamarsi, vestirsi e alloggiare. Ma è la “miseria di posizione”. Categoria che raggruppa una vasta e differenziata platea di attori sociali uniti dal fatto di condurre una vita quotidiana satura di difficoltà e angosce, ma i cui bisogni minimi di esistenza – come il cibo e un tetto sulla testa – sono bene o male garantiti. Si tratta di una moltitudine di persone che appartengono ai ceti popolari e che vivono chiuse nel loro microcosmo: operai, disoccupati, casalinghe, pensionati, stranieri, studenti senza un futuro professionale, lavoratori a basso reddito, precari, stagisti, piccoli artigiani e piccoli commercianti che lottano ogni giorno contro la crisi dei consumi, la grande distribuzione, le tasse da pagare, le politiche dell’Unione Europea. Una popolazione concentrata prevalentemente in quartieri periferici, degradati, o, peggio ancora, a rischio e che si scontra ogni giorno con problemi irrisolvibili. Ad esempio la convivenza con gli immigrati, o con i figli di immigrati nati in Francia ma le cui possibilità di ascesa sociale sono ridottissime finendo così per alimentare le aree del disagio e della marginalità.

In estrema sintesi la povertà fotografata dal concetto di “miseria di posizione” si riferisce al depauperamento delle relazioni sociali, all’impossibilità di uscire dalla propria condizione economica e, conseguentemente, alla mancanza di opportunità per costruire una posizione sociale migliore. Per milioni di europei (la maggioranza?) il piccolo mondo in cui vivono si presenta come una gabbia da cui non c’è verso di evadere. Le conseguenze più immediate sono una vita quotidiana infernale, un alto tasso di microconflittualità, la progressiva lacerazione dei legami di solidarietà. Legami che nella società del benessere si strutturavano intorno alla famiglia, la scuola, la fabbrica, il partito, il sindacato, la parrocchia, le associazioni di massa. Alcune di queste istituzioni erano sostenute dal Welfare state, mentre altre lottavano per l’allargamento dello stesso Welfare state. Pratiche in via di estinzione nell’attuale società del disagio. E a osservarla oggi, a così tanti anni di distanza dalla sua formulazione, la categoria “miseria di posizione” sembra costituire un tassello della riproduzione nel Vecchio continente del modello sociale statunitense. Una sovrapposizione dagli effetti epocali che pone il problema dell’identità dei popoli europei. In questo l’inchiesta diretta da Bourdieu è stata per così dire profetica perché ha messo in luce sin dai suoi esordi la corrosione dell’identità e della dignità delle persone spinte nel girone dei perdenti. Lo ha fatto dando voce ai soggetti che conducono una vita di privazioni e attraverso le parole di educatori, presidi, giudici di sorveglianza, magistrati, ispettori di polizia, sindacalisti, femministe.  

Nonostante la mole “La miseria del mondo” ha avuto oltralpe un grande successo di vendite e ne sono state ricavate persino numerose pièce teatrali.

<< == Pierre Bordieu

D’altra parte l’inchiesta offre una straordinaria quantità di materiale. Raccoglie infatti numerose interviste che forniscono al lettore un ritratto coinvolgente e approfondito sull’esistenza di un’umanità sofferente e in perenne conflitto: con i vicini di casa, la burocrazia statale, la scuola che non funziona, il quartiere sempre meno socievole, i colleghi di lavoro senza il senso della solidarietà. “La miseria del mondo” regge l’urto del tempo in virtù delle storie degli intervistati andando a costituire una vera e propria miniera di informazioni sui loro bisogni materiali, le loro continue rinunce, la loro estenuante lotta per la sopravvivenza. Al di là delle specifiche differenze tra le singole vicende la paura sembra essere uno dei tratti principali che accomuna i racconti degli intervistati: paura di non farcela a pagare i debiti, paura dello straniero e soprattutto paura del domani. Le stesse paure che attanagliano ancora oggi la vita di tanti cittadini che vivono nelle cosiddette società avanzate.

Se la ricerca diretta di Bourdieu è diventata un punto di riferimento della sociologia critica, grazie alla ricchezza dei documenti raccolti e alla qualità delle riflessioni che contiene, la politica e i mass-media hanno invece una comprensione assai modesta della “miseria di posizione”. Entrambe le istituzioni affrontano in maniera approssimativa un fenomeno devastante che ormai data da lunghissimo tempo, a partire dalla desertificazione industriale iniziata nella seconda metà degli anni’80 e dall’imposizione dei diktat neoliberisti. La politica fornisce risposte parziali ai giovani delle banlieue mostrando così di essere chiusa in se stessa e incapace di risolvere i problemi sociali posti dalle loro proteste, silenziose o gridate che siano. Problemi che sono essenzialmente di integrazione, reddito e vivibilità dei quartieri periferici. I mass-media addirittura contribuiscono a produrre queste stesse proteste come mostra Patrick Champagne in un capitolo del volume dedicato al modo in cui l’informazione tratta il  disagio sociale: “Si potrebbe dire quasi che l’enumerazione dei “disagi” che con il trascorrere delle settimane si manifestano nella stampa, offre soprattutto l’elenco dei “disagi dei giornalisti”, ossia di quei disagi la cui rappresentazione pubblica è stata esplicitamente fabbricata per interessare i giornalisti, o di quelli che attirano di per sé l’attenzione dei giornalisti, essendo “fuori del comune” o drammatici o commoventi, e di conseguenza commercialmente redditizi, quindi conformi alla definizione sociale dell’evento degna di occupare “le prime pagine”. E’ il caso ad esempio delle prime manifestazioni dei liceali che nell’ottobre del ’90 protestavano contro la mancanza di professori e la violenza nelle scuole. Gli scioperi degli studenti si moltiplicarono “in gran parte per l’effetto della loro mediatizzazione televisiva”. Una conclusione è che “I dominati sono i meno preparati a controllare la rappresentazione di se stessi”. A costoro non rimane allora che l’auto-ammonimento consolatorio: “C’è di peggio, sai”.

E a proposito di rappresentazione, nel suo “Post-scriptum” al volume Bourdieu esprime un giudizio severissimo sui giornalisti per la loro sottomissione al potere e per la loro superficialità nel trattare i problemi sociali. Passa così a interrogarsi sulle conseguenze pratiche della conoscenza sociologica. Scrive il sociologo francese: “Rendere coscienti i meccanismi che rendono la vita dolorosa, persino invivibile, non significa neutralizzarli; portare alla luce contraddizioni non significa risolverle. Ma, per quanto scettici si possa essere sull’efficacia sociale del messaggio sociologico, non si può considerare inconsistente l’effetto che può esercitare, permettendo a chi soffre di scoprire la possibilità d’imputare la propria sofferenza a cause sociali, e sentirsi così discolpato, e facendo conoscere in modo più ampio l’origine sociale, collettivamente occultata, della disgrazie, in tutte le sue forme, comprese le più intime e segrete”. Occorre dunque che il mondo sociale si armi di questo sapere. Occorre che la politica sfrutti “le pur ridotte possibilità di azione che la scienza può aiutare a scoprire” pena l’essere “considerata colpevole di omissione di soccorso nei confronti di una persona in pericolo”. A ventidue anni di distanza dalla pubblicazione dell’imponente inchiesta sulla “miseria di posizione” non sembra che le cose siano molto migliorate in Francia. Di sicuro in Italia sono peggiorate.

Quest’estate è emerso in tutta la sua drammaticità il fenomeno del caporalato: tre braccianti agricoli morti nei campi per il caldo e la fatica. Si tratta di un fenomeno molto esteso, che nel nostro Paese coinvolge circa 400mila persone disposte a lavorare in condizioni paraschiavistiche per paghe che si aggirano sui 3 euro l’ora. Da noi è andata perduta la consapevolezza che le sofferenze personali hanno radici sociali, mentre la politica tratta il disagio in termini elettorali e la stessa sociologia è diventata perlopiù una disciplina al servizio del potere (accademico, politico, economico, mediatico). Questo non significa che non ci siano chance per una sociologia e una politica impegnate a ricostruire legami sociali a sostegno dell’identità e della dignità delle persone. In tale direzione “La miseria del mondo” costituisce uno strumento utile per uscire dalla trappola della “miseria di posizione”. Una trappola che fa tornare alla mente un brano scritto da Elio Vittorini in “Conversazioni in Sicilia”: “Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua a essere offeso”.

Patrizio Paolinelli, via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro.


Le cause sociologiche del successo dell’astrologia

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In questo articolo prenderemo in considerazione le cause sociologiche e psicologiche del successo dell’astrologia nella società contemporanea. Appare chiaro a tutti che l’astrologia riscuote un grandissimo successo tra gli uomini contemporanei.

Prof. Giovanni Pellegrino ==>>

Appare chiaro a tutti che l’astrologia riscuote un grandiissimo successo tra gli uomini contemporanei. Tale successo è un fenomeno sociale di grande importaza che non può essere imputato ad una sola causa ma ad una costellazione di cause: la paura del futuro, il ritorno del paganesimo, il rapporto tra psicologia e astrologia, la funzione parareligiosa dell’astrologia, la concezione olistica dell’universo, ricerca di punti di riferimento e di certezze, bisogno di vincere la solitudine esistenziale, l’influenza dei mass media, il legame esistente tra astrologia e personaggi famosi, l’aumento delle situazioni frustranti, il successo delle religioni orientali nel mondo occidentale, la ricerca di nuove motivazioni derivanti dalla lettura dell’oroscopo.                 

 Per quanto riguarda la paura del futuro dobbiamo dire che essa rappresenta certamente una delle caratteristiche più importanti della forma mentis degli uomini contemporanei. Vernette afferma che il ritorno in grande stile della paura del futuro nel cuore degli uomini moderni spiega almeno in parte il successo dell’astrologia.    La grande paura che gli individui dimostrano nei confronti del futuro trova la sua ragione d’essere nel carattere labirintico della società contemporanea nella quale non esistono più le certezze e i punti fermi che caratterizzavano la vita degli uomini del passato. Per dirla in altro modo il mutamento sociale che contaddistingue la società moderna ha notevolmente aumentato i margini di incertezza e i rischi psico sociali nella vita degli individui.          

L’aumento della paura del futuro dipende soprattto dal fatto che non è facile prevedere i rischi psicosociali che si nascondono nelle varie situazioni. Appare chiaro che in un contesto sociale di questo tipo l’astrologia diventa molto importante in quanto viene considerata una disciplina in grado di diminuire la paura  nei confronti del futuro.   L’astrologia come tutte le altre arti divinatorie ottiene il massimo successo in tutte quelle società complesse nelle quali gli  individui non sono in grado di controllare e prevedere in manierà accettabile gli eventi futuri.                                                            

Un’altra causa sociologica per il successo dell’astrologia è il neopaganesimo imperante nella società moderna, dal momento che l’astrologia occupava un posto importante nelle società pagane. Non dimentichiamoo che i pagani credevano che gli astri fossero manifestazioni delle divinità e in quanto tale esercitavano un fortissimo potere sulle vicende esistenziali degli individui.  Vogliamo mettere in evidenza che nelle società pagane gli uomini pensavano che esisteva un destino già scritto per tutti gli individui cosicchè non aveva senso cercare di opporsi a tale destino ma bisognava trovare il modo di conoscere in anticipo  la volontà del fato ( concezione fatalistica del mondo, tipica del paganesimo).

L’astrologia era cosiderata dai pagani uno dei modi migliori per conoscere in anticipo la volontà del fato. Oggi, anche se siamo in una società formalmente cristiana molti individui la pensano allo stesso modo cosicchè l’astrologia è tornata ad essere con il paganesimo l’arte divinatoria preferita dagli individui per conoscere in anticipo la volontà del destino.  Per quanto riguarda i rapporti tra psicologia ed astrologia dobbiamo dire che molti astrologi moderni hanno creato rapporti con la psicologia appoggiandosi alle teorie di Jung. Tali astrologi ritengono che l’astrologia possa fornire delle informazioni sulla personalità degli individui che potrebbero aiutare gli psicologi a comprendere meglio chi si rivolgono a loro.                             

 A dire degli astrologi gli psicologi dovrebbero tenere conto nella scelta delle tecniche psicologiche da applicare ai loro clienti dei suggerimenti degli astrologi. Questo matrimonio tra astrologia e psicologia di stampo Junghiano è senza dubbio un altro punto di forza degli astrologi dal momento che contribuisce ad aumentare il succeso dell’astrologia nel mondo contemporaneo.  Tale legame tra astrologia e psicologia aumenta il prestig degli astrologi nella società moderna in quanto attribuisce all’astrologia delle possibilità che certamente in passato non le venivano attribuite. Essa diventerebbe un mezzo per sondare i misteriosi meandri dell’inconscio e per gettare luce su alcuni aspetti della personalità degli individui che sfuggono sia agli psicologi sia agli stessi soggetti. Appare inoltre evidente che sostenere che esiste un rapporto tra astrologia e psicologia aumenta il grado di legittimazione sociale nonché il prestigio degli astrologi già sufficientemente elevato.                                                                                          

Possiamo addirittura affermare che il rapporto tra astrologia e psicologia finisce per creare le premesse per la nascita di un nuovo concetto di scienza non basato sui principi dell’illuminismo e de positivismo.Vogliamo mettere in evidenza che il New Age è convinto che bisogna ridefinire i criteri che stabiliscono se una data disciplina può essere o non può essere considerata una scienza. Una delle cause sociologiche più importanti del successo dell’astrologia è rappresentata dal fatto che essa ha assunto nella società moderna una funzione parareligiosa che riesce a soddisfare il bisogno di accedere ad una dimensione metafisica senza dover aderire ad una religione.                                                                                

Cecilia Gattotrocchi sostiene che la dimensione parareligiosa dell’astrologia è da molti messa al di sopra delle religioni esistenti  in quanto non implica difficili questioni teologiche quali l’esistenza di un Dio personale,l’enigma della creazione, il problema dell’origine del male nel mondo. Per dirla in altro modo gli individui credendo nel potere delle stelle non sono costretti ad affrontare dubbi e problematiche religiose non sempre facili da gestire. Tuttavia coloro che credono nell’astrologia si sentono parte di un gigantesco teatro cosmico nel quale sono collegati con l’intero universo.                                                                          

In estrema sintesi quelli che credono nell’astrologia sono caratterizzati dalla volontà di avere una visione metafisica dell’universo dal momento che sono convinti che pianeti e stelle posseggono delle energie di tipo metafisico.Proprio questa credenza è alla base della funzione parareligiosa dell’astrologia dal momento che l’influenza che gli astrologi attribuiscono alle stelle può essere considerata un’influenza metafisica e religiosa non misurabile con strumenti scientifici.Il successo dell’astrologia nella società moderna trova la sua ragion d’essere anche nell’accetazione da parte di numerose persone di una concezione olistica dell’universo, tipica del New Age, nonché di alcuni gruppi magici delle religioni orientali. Tale concezione del cosmo parte dal presupposto che l’universo è come un gigantesco organismo nel quale tutto ciò che avviene in qualsiasi punto influenza l’intero universo. Quelli che credono nel potere delle stelle sentono di essere delle cellule dell’infinito organismo cosmico (macrocosmo). Essi inoltre sono convinti che l’uomo sia un microcosmo, che contiene in scala ridotta tutte le caratteristiche del macrocosmo.                                                                                                                                            

Un altro punto del successo dell’astrologia è il forte bisogno degli uomini contemporanei di punti di riferimento e di certezze che vengono a mancare in una società eraclitea come la nostra caratterizzata da veloci ed intensi fenomeni di mutamento sociale. Oggi gli individui sono costretti a ridefinire la propria visione del mondo, la propria identità e il modo di gestire i rapporti interpersonali. Di conseguenza gli individui devono continuamente ristrutturare il loro campo cognitivo ed affettivo, fatto questo estremamente problematico.Pertanto, l’uomo moderno è alla continua ricerca di salvagenti psicologici ai quali aggrapparsi per evitare di affogare nella complessa e labirintica società moderna. Ebbene uno di tali salvagenti psicosociali può essere considerata l’astrologia dal momento che essa fornisce ai credenti degli oroscopi un punto di riferimento in base ai quali decidere le proprie strategie comportamentali.                                              

 Vernette afferma che il rapporto con le stelle rappresenta per molti individui un punto di forza psicologico ed un riferimento costante utile per difendere l’equilibrio psichico. Per dirla in altro modo preferiscono credere di essere dipendenti dal potere delle stelle piuttosto che essere costretti a vivere senza nessun punto di riferimento in grado di gettare luce sulla loro vita (trattasi di un punto di riferimento di tipo metafisico). Uno dei problemi più importanti dell’uomo contemporaneo è senza dubbio la solitudine esistenziale. L’astrologia può servire a superare tale problema dal momento che la credenza che tutti gli individui  che appartengono allo stesso segno zodiacale sono molto simill tra loro, può creare un ponte psicologico chre unisce le persone. Può accadere che molte persone cerchino di vincere la propria solitudine esistenziale leggendo l’oroscopo e cercando di instaurare rapporti esistenziali con individui compatibili con il proprio segno zodiacale.                                                                                                

Infine dobbiamo mettere in evidenza che il comune interesse per l’astrologia spinge molti individui a costituire delle associzioni astrologiche nelle varie città che costituiscono un centro di aggregazione sociale che permette di creare nuovi rapporti interpersonali. Inoltre accade spesso che i credenti nel potere delle stelle, frequentino conferenze e seminari tenuti da famosi astrologi avendo la possibità di fare nuove conoscenze. I mass media hanno giocato senza dubbio un ruolo di notevole importanza nel boom dell’astrologia nella società contemporanea. I media non perdono occasione per enfatizzare l’importanza dell’astrologia. Molte riviste e giornali importanti riportano l’oroscopo e dedicano molto spazio alle temtiche astrologiche.  Inoltre molte televisioni e molte radio dedicano molto spazio alle trasmissioni astrologiche mentre numerose riviste di astrologia organizzano conferenze e convegni. Due teorie dei sociologi della comunicazione possono spiegare l’influenza dei mass media nel successo dell’astrologia: la teoria della “ coltivazione” e la teoria della funzione di “ agenda setting” dei mass media.                                                                                   

 Per quanto riguarda la teoria della coltivazione di Gerbner dobbiamo dire che tale teoria sostiene che i mass media “coltivano” ovvero rafforzano le credenze, il modo di interpretare la realtà degli individui. Applicando tale teoria al boom dell’astrologia possiamo dire che i mass media rafforzano la tendenza già presente nella società a dare credito ed importanza all’astrologia. Per quanto riguarda la teoria della”funzione di agenda setting” dei mass, essa sostienen che esiste una forte corrispondenza tra la quantità di attenzioni data dai mass media ad un particolare fatto, fenomeno sociale e il livello di importanza attribuito a tale fenomeno dagli individui esposti all’influenza dei mass media. Applicando tale teoria all’astrologia possiamo dire che la grande attenzione data dai mass media all’astrologia aumenta il livello di importanza attibuito alle affermazioni degli astrologi da parte degli individui esposti all’azione dei mass media.                                               

 Un’altra causa sociologica del successo dell’astrologia va ricercata nel fatto che molti personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport affermano di credere nell’astrologia determinando in tal modo tra i loro ammiratori fenomeni di imitazione sociale e di contagio psichico che favoriscono il successo dell’astrologia a livello di massa. Per dirla in altro modo la credenza nel potere delle stelle facilita la creazione di fenomeni di proiezione psicologica tra l’ammiratore e il divo del mondo dello spettacolo che dichiara di credere nell’astrologia.  Una delle caratteristiche più significative della società contemporanea è l’aumento delle situazioni frustranti dovuti ad almeno tre cause: l’elevato grado di competitivitità presente nel mondo moderno, la difficoltà di gestire in maniera adeguata le situazioni sociali, l’influenza della pubblicità. 

L’aumento delle situazioni frustranti causa indirettamente l’aumento del successo dell’astrologia dal momento che gli individui cercano nel determinismo astrologico un salvagente psicosociale per resistere meglio all’impatto psicologico delle situazioni frustranti. Inoltre molti individui pensano di evitare di essere coinvolti in situazioni frustranti chiedendo consiglio agli astrologi e dando credito alle loro parole. In altri termini molti individui pensano che non tener conto del determinismo astrologico significhi aumentare di molto il rischio di essere coinvolti in situazioni frustranti dal momento che è una partita persa in partenza andare contro le inclinazioni dipendenti dal potere delle stelle.                                                                          

 Un’altra ragione del successo dell’astrologia va ricercata nel grande interesse che riscuotono nel mondo occidentale le religioni orientali. Tali religioni favoriscono il successo dell’astrologia in quanto si basano sulla credenza nell’esistenza del karma. Secondo tale legge gli eventi favorevoli o sfavorevoli della vita di un individuo dipendono invece dal comportamento che l’individuo ha avuto nelle vite precedenti. Di conseguenza il destino degli indiIvidui è già segnato dalla legge del karma prima della nascita. Appare evidente che le religioni orientali favoriscono la credenza nel potere delle stelle perché sono conciliabili col determinismo astrologico che a sua volta ritiene che il tema natale determi il destino degli individui al momento della nascita.            

In sintesi sia il determinismo astrologico, sia la credenza nel karma sostengono che esiste un destino già scritto per tutti gli individuiu. Vogliamo mettere in evidenza che esiste un tipo di astrologia denominata astrologia karmica che ritiene che il tema natale di ogni inviduo sia determinato dal suo karma. Per dirla in altro modo per l’astrologia karmica gli influssi positivi o negativi che le stelle esercitano sui vari individui sono diretta conseguenza del loro karma. In estrema sintesi le stelle avrebbero il compito di far pagare agli individui i loro debiti karmici e di far loro riscuotere i crediti karmici favorendo in tal modo la loro evoluzione spirituale.                                                                                                                   

 L’ultima causa sociologica del successo dell’astrologia è il bisogno di trovare nuove motivazioni. Può infatti accadere che si abbia in alcuni individui un crollo dei livelli motivazionali dovuti a due cause principali: una serie di insuccessi oppure la necessità di ricoprire ruoli che non forniscono stimoli psicologici in grado di motivare l’individuo. In entrambi i casi l’astrologia può fornire nuove motivazioni agli individui demotivati.  Nel primo caso essi possono motivarsi se vengono a sapere che l’oroscopo dice che è finito il loro periodo astrale negativo. Nel secondo caso è possibile che l’inviduo trovi nuove motivazioni dal momento in cui l’astrologo gli dice che le stelle determineranno importanti cambiamenti nella sua vita lavorativa o sentimentale.  Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso sulle cause sociologiche del successo dell’astrologia nella società contemporanea.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri

                                                 Bibliografia

C. Gattotrocchi, Viaggio nella magia, Laterza, Bari, 1993

G. Pellegrino, Il New Age, Edisud, Salerno, 2003

G. Pellegrino, Il neopaganesimo nella società moderna, Edisud, Salerno, 2000

G. Pellegrino, Il ritorno dell’astrologia, New Grafic Service, Salerno, 2004

J. Vallèe, Messaggeri di illusioni, Sperling- Kupfer, Milano,1980

J. Vernette,Occultismo, magia, sortilegio, Elledici, Torino, 1991

J.Vernette, Il New Age, Edizioni Paoline, Milano, 1992


SEPARAZIONE E DIVORZIO: NOVITA’ IN TEMA DI ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL CONIUGE

di Martina Grassini

Le capacità lavorative del coniuge separato o divorziato possono incidere sul riconoscimento di un assegno a titolo di mantenimento in sede di separazione  o divorzio.

<<== Avv. Martina Grassini

In alcuni casi, però, la previsione di un assegno diventa motivo per “l’ex” per rifiutare offerte di lavoro ritenute “inadeguate” rispetto alla propria formazione professionale. I giudici di legittimità, con la recente ordinanza del 4  marzo 2021 n. 5923 hanno posto un freno al mantenimento per il coniuge che rifiuta proposte di lavoro solo perché considerate “inadeguate”.

La Suprema Corte, con sentenza del 4 marzo 2021 n. 5932, ha accolto il ricorso del marito e cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Trieste, che aveva riconosciuto in capo alla moglie il diritto ad un sostanzioso assegno di mantenimento.

Nel caso di specie i Giudici di legittimità evidenziano l’errore, nei precedenti gradi di giudizio, nel ritenere che una persona “laureata” non potesse essere condannata “al banco di mescita o al badantato”, affermando così il diritto del coniuge a rifiutare proposte non ritenute pertinenti od adeguate.

La Cassazione ha rilevato la contrarietà di un simile ragionamento all’art. 156 c.c. ed ha evidenziato come lo scopo dell’assegno di mantenimento non sia quello di “garantire il medesimo tenore di vita avuto durante il matrimonio” , ma rappresenta unicamente un contributo alla parte più debole della coppia priva di un lavoro con cui mantenersi.La Suprema Corte ribadisce, dunque, come anche chi riceve un assegno a titolo di mantenimento abbia il dovere di rendersi autosufficiente dal punto di vista economico, attivandosi per la ricerca di un qualsiasi lavoro.


Italia e povertà energetica: l’11,9% dei nuclei familiari non può permettersi il riscaldamento. Le regioni peggiori: Sardegna, Lazio e Calabria

di Emilia Urso Anfuso

Secondo i dati che sono emersi dall’ultimo rapporto realizzato dall’OIPE – l’Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica – i costi che le famiglie devono mettere in bilancio per scaldare gli appartamenti negli ultimi anni sono lievitati al punto che l’11,9% dei nuclei familiari non possono permettersi di scaldare le loro case.

<<==dott.ssa Emilia Urso Anfuso

La situazione peggiora in presenza di bambini. Se poi si analizzano i dati sulle famiglie mono genitoriali, la maggior parte delle quali è composta da madre e uno o più figli, la percentuale di chi stenta a potersi permettere il riscaldamento in casa sale addirittura al 15%. L’impatto è maggiore per chi vive in affitto, e scende a una percentuale del 7,1% per chi è proprietario.

A peggiorare questa situazione nazionale conosciuta da molti anni, si è aggiunto l’aggravamento della crisi economica – che era già pesante ben prima dell’avvento della pandemia mondiale – e che le misure restrittive che coinvolgono le attività produttive nazionali hanno contribuito a peggiorare. È stato calcolato che lo scorso anno sono state 300.000 le attività costrette a chiudere i battenti, con la conseguenza di infoltire la schiera di disoccupati e poveri.

Tornando al tema centrale, nella civilissima Italia un numero troppo alto di persone non è in grado di potersi permettere inverni riscaldati tra le pareti domestiche, e a farne le spese sono i più piccoli. L’avvento del Sars Cov2 e dei conseguenti periodi di restrizione della circolazione dei cittadini, ha svelato una situazione dai contorni inquietanti.  Solo grazie alle misure che obbligano i nuclei familiari a restare in casa, anche per lavorare, è stato possibile fotografare più chiaramente il fenomeno. Essere costretti a restarsene a lungo tra le mura domestiche ha evidenziato le oggettive difficoltà abitative di molti italiani.

A livello europeo da molti anni si lavora al fine di migliorare la qualità della vita nelle abitazioni, in special modo quando si parla della condizione di vita dei minori. Nel 1989 l’ONU ratificò la Convenzione sui diritti dell’infanzia, e all’interno di questo importante documento è presente un’intera sezione dedicata al patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali dell’infanzia.  Tra gli impegni sottoscritti a livello internazionale, vi è quello di garantire di vivere in un ambiente dignitoso, riscaldato e con spazi adeguati.

L’Osservatorio italiano sulla povertà energetica, attraverso l’ultimo rapporto pubblicato, ha fatto emergere le criticità che aggrediscono milioni di famiglie che non sono in grado di sostenere i costi troppo alti delle tariffe energetiche, che rappresenta una spesa incomprimibile non potendo risparmiare su una necessità fondamentale. A questo va aggiunto un altro problema: per risolvere la situazione sarebbe urgente attuare un piano di riqualificazione delle abitazioni in cui vivono le persone meno abbienti, ma che a causa dello stato d’indigenza non possono procedere in tal senso, ed è quanto sostengono le indicazioni della SEN – la Strategia Energetica Nazionale – che suggerisce una serie di misure atte a sostenere l’abbattimento delle diversità energetiche residenziali, come per esempio quelle legate al reddito e anche alla zona climatica di residenza.

Per ciò che concerne la situazione a livello territoriale, secondo i dati Istat pubblicati nel 2018 le tre regioni che presentano le percentuali maggiori di appartamenti poco o per nulla riscaldati sono la Sardegna, la Calabria e il Lazio. Quelle con minori problemi di povertà energetica, invece, sono la Valle D’Aosta, la Lombardia e la Puglia. Le disuguaglianze non permettono al paese di essere moderno e civile. Lo siamo sulla carta, non ancora nella realtà.


“I sogni non finiscono mai”

Agitu Ideo Gudeta amava spesso fare questa affermazione che sembrava ispirare, in qualche modo, la sua vita.

di Nadia Gambilongo

Abbiamo deciso di proporre alle amministrazioni comunali di dedicare degli spazi pubblici alla sua  storia esemplare, poiché pensiamo che abbia molto da insegnarci in termini di capacità di adattamento a condizioni di vita durissime, nella sperimentazione di un’economia sostenibile e nella lotta al patriarcato. Inoltre, vorremmo intitolare ad Agitu studi, ricerche e laboratori di sociologia per rendere viva la sua memoria.

dott/ssa Nadia Gambilongo (sociologa)

La tragica fine di Aghi, così la chiamavano i suoi amici, non ha fermato i suoi progetti multiculturali,  ambientalisti e di cambiamento sociale, altre giovani donne stanno dando continuità al suo lavoro, al suo impegno. Noi stesse-i vogliamo farci portavoce e testimoni della sua breve ma intensa esistenza. Nei prossimi mesi faremo in modo che la sua memoria non si disperda e chiederemo che le vengano intitolati e dedicati spazi pubblici nel nostro territorio. Il Comune di rende ha già deliberato in tal senso intitolando un Parco giochi e un giardino ad Agitu.

La storia di Agitu Ideo Gudeta inizia nel 1977 ad Addis Abeba in Etiopia. Nasce in una famiglia benestante e colta; il padre è docente universitario, ma nonostante queste condizioni di base che in altri paesi del mondo determinerebbero agiatezza e serenità,  in Etiopia la vita è turbolenta e affannosa. I governi corrotti e inefficienti, che si sono susseguiti nel tempo, hanno ridotto un paese bellissimo in brandelli,  sempre in preda ai conflitti economici, sociali ed etnici.

A diciotto anni, Aghi parte da Addis Abeba, piena di entusiasmo e di speranza con un borsa di studio  alla volta dell’Italia.

Si laurea in Sociologia a Trento e, dopo aver completato con successo il suo percorso formativo, decide di ritornare in Etiopia per occuparsi di progetti di cooperazione e sviluppo per un’agricoltura sostenibile, in modo da dare un suo personale contributo allo sviluppo sostenibile del paese. Insieme ad altri compagni di lavoro  tenterà il recupero di terreni espropriati dalle multinazionali. Realizza progetti innovativi con i pastori nomadi nel deserto, parteciperà a numerose manifestazioni contro le condizioni di sfruttamento dei contadini e della Regione dell’Oromia.

Nel 2000 il padre è costretto a lasciare l’Etiopia a causa  della recrudescenza della repressione governativa e si trasferisce negli Stati Uniti. Nel 2005 le battaglie di Agitu per il land grabbing si intensificano e l’opposizione al regime diventa netta, i suoi compagni impegnati nei progetti di cooperazione incominciano ad essere perseguitati, alcuni vengono uccisi, di altri si perdono le tracce, fino a quando  nel 2010 è costretta a scappare,  minacciata anche lei di morte, e con un mandato di cattura per essersi opposta all’esproprio della terra ai contadini.

Per sfuggire alle persecuzioni,  decide di lasciare l’Etiopia e ritornare in Italia. Con un permesso di soggiorno per motivi di studio e appena 200 euro in tasca, ritorna in Trentino. Nei primi tempi lavorerà  in un bar per mantenersi; ma, il suo carattere coraggioso e determinato le consentirà dopo non molto di accantonare un po’ di denaro per mettere a frutto il suo amore per la terra e gli allevamenti naturali. Inizia a  prendersi cura di terre demaniali abbandonate e incolte. Aderisce al progetto di salvare le capre di razza mochena. Una razza antica, molto rustica, importata probabilmente in Trentino dai carbonai tedeschi e attualmente a rischio di estinzione.

Agitu aveva iniziato il suo esperimento di allevamento di capre allo stato brado con solo 15 capre, poi  erano diventate 70, negli ultimi tempi addirittura  180. La mattina lavorava nell’orto, il pomeriggio al bar, poi la sera mungeva le capre, e fino a tarda ora si prendeva cura della sua fattoria. Con grande fatica e determinazione riesce a realizzare un caseificio, apre una bottega per la vendita diretta dei suoi formaggi freschi e stagionati a km zero. Sul suo sito, tutt’ora attivo, è possibile recuperare notizie sulle sue attività sempre in crescita. Apre la prima Bottega della “Capra Felice” e poi via via altri punti vendita, partecipa a numerose fiere e organizza  iniziative didattiche con i ragazzi per far conoscere il suo allevamento di capre con metodi naturali.

In una intervista recente, Aghi descrive le caratteristiche delle sue capre, sfatando così il pregiudizio che le vuole stupide e testarde. In realtà, le capre sono dotate di grande intelligenza e sensibilità, il loro comportamento metodico e disciplinato, legato ai tempi del pascolo e della mungitura, consente un’organizzazione del lavoro agevole; ma per renderlo possibile è necessario entrare in sintonia con loro, comprenderne profondamente i bisogni e donare loro benessere.

La pratica millenaria della domesticazione si fonda prima di tutto su un’empatia istintiva e profonda, tra gli umani e gli animali allevati,  non danno la stessa quantità di latte a chiunque. Si affidano alle mani di chi le ama, di chi si prende cura di loro, poi successivamente vengono le tecniche (…)(Donatella Di Pietrantonio, La Repubblica) e le specializzazioni.

Solo chi ha a che fare quotidianamente con gli animali sa quanto siano diversi l’uno dall’altro, nel temperamento, nella condotta, proprio come le persone. Agitu riusciva a ricordare il nome di tutte le sue capre e anche il loro carattere.

Era una donna colta e consapevole, aveva appreso in Francia le tecniche migliori per produrre formaggio collaborando come ragazza alla pari. In un mix formidabile, aveva mescolato questo sapere all’esperienza della pastorizia africana. Era diventata un’imprenditrice famosa per la produzione di prodotti bio a chilometro zero. Produceva formaggi, latte crudo e yogurt di capra, cosmetici che vendeva nei suoi punti vendita e nelle fiere.

Agitu Idea Gudeta

La rete Slow food, all’insegna del “buono, pulito e giusto”, aveva iniziato a sostenerla e la sua fama era cresciuta. Certo l’arretratezza culturale dei suoi vicini e di alcuni rifugiati che accoglieva non le avevano certo reso la vita facile, ma non sembrava che la scoraggiassero più di tanto, anzi le difficoltà le erano come da sprono. Negli ultimi tempi le capre erano diventate tantissime, prima di morire stava progettando di aprire per la prossima primavera un agriturismo.

Dopo la sua tragica morte, un gruppo di amici si sta prendendo cura della fattoria, si stanno impegnando per mantenere in vita le sue attività. Una giovane donna di soli 19 anni, Beatrice Zott, ha adottato le capre rimaste orfane, ci auguriamo tutti che riusciranno nell’intento di onorare la sua memoria e i suoi sacrifici all’insegna della ricerca di armonia tra gli esseri umani e la natura, ricerca  che le stava molto a cuore.

Agitu Ideo Gudeta ha ricevuto riconoscimenti da Legambiente, da SlowFood, e noi tutte-i dobbiamo ringraziarla per il suo esempio e per la sua determinazione, per quel suo particolare modo di stare al mondo. Aghi è morta a 43 anni nella Valle dei Mocheni, a Frassilongo per mano di un suo ex dipendente ganese che ha confessato quasi subito di averla uccisa pare perché non le avesse pagato una mensilità.

In realtà, la rabbia che lo ha armato di martello e il disprezzo che ha manifestato nella foga di violentarla mentre era agonizzante, parlano di un’ira, suscitata da affronto personale ben più grave e importante, tutto maschile e razziale nei confronti di una donna bella, intelligente, e per giunta imprenditrice di successo e  nera come lui. Tutto questo è stato  veramente troppo per uno che nato e cresciuto sotto l’egida patriarcale e che non può sopportare di essere un dipendente di una donna di tale rilevanza.

“Aghi era troppo” anche per i vicini che le avevano ucciso una capra, avevano tagliato le gomme della sua auto, e per questo erano stai condannati per stalking. Una donna come Aghi era ed è troppo a qualsiasi latitudine, a nord come a sud del mondo ancora fortemente patriarcale e razzista. Per questo motivo c’è ancora tanto da fare nella direzione del cambiamento e il movimento femminista non si è ancora stancato di proporlo.

Per questo motivo vogliamo intitolare dieci, cento, mille piazze a Agitu Ideo Gudeta per non dimenticare, per replicare la sua vita esemplare dieci, cento, mille volte, affinché il suo sapere e la sua determinazione diventino un faro che illumini le nostre vite, e quelle delle ragazze e delle giovani donne, affinché anche gli uomini si interroghino sulle loro relazioni e sulle contraddizioni quotidiane che vivono con l’altro sesso.

E’ necessario riscrivere insieme il finale della storia di Aghi.

E insieme lo faremo!


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