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DEVIANZA E PEDOFILIA

di Carmela Cioffi

Il soggetto della mia trattazione, dal titolo Devianza e Pedofilia, è un’analisi del processo di costruzione sociale della pedofilia e delle dinamiche ad essa correlate, è un’analisi dal punto di vista sociologico in quanto la pedofilia non si riflette solo in campo psicologico e giuridico, ma anche sociale. Attraverso l’utilizzo di metodologie di ricerca qualitative, ho trattato la Devianza e la Pedofilia come problemi sociali, per cercare di comprendere come vengono costruite le categorie dei devianti e come possono contribuire i più deboli a questa costruzione sociale.

<< == dott./ssa Carmela Cioffi

L’abuso sessuale in quanto atto grave si ripercuote sulla vittima con conseguenze altrettanto gravi. Per affrontarle e dove sia possibile superarle, si ha bisogno di un specifico supporto. Nel corso di questo mio studio ho potuto confrontare diversi autori e approcci sociologici che riflettono sulla pedofilia come realtà costruita e sugli attori e sulle pratiche che partecipano alla costruzione. Una lettura sociologica della pedofilia quindi e dell’abuso rituale, che rimanda ai fenomeni dell’amplificazione della devianza e del panico morale.                                            

Il testo di questa mia tesi è suddiviso in sei parti:

  • Il primo capitolo ripercorre quasi tutte le esperienze e le riflessioni personali che hanno ispirato questa ricerca, nonché le vari fasi di progettazione e reperimento delle fonti, autori e articoli di giornale e testimonianze.
  • Nel secondo capitolo si affronta il tema della pedofilia e ci si addentra nella tematica dell’abuso, cercando di delineare la figura del pedofilo, evitando di ridurre il tutto a una cosiddetta “caccia alle streghe”, anche se forse, in questo caso, “caccia agli orchi” sarebbe più opportuno.
  • Nel terzo capitolo si mette in evidenza come la tematica dell’abuso sessuale sui i bambini abbia assunto, negli ultimi anni, un’importanza e una dignità crescente, soprattutto grazie all’ampio rilievo offerto dai mass media.
  • Nel quarto e quinto capitolo ci si chiede come spesso sia potuto accadere che le vittime di tali abusi siano state ferite da persone che officiano nel nome della chiesa prendendo come esempio casi che hanno avuto grande risonanza e che hanno indotto sia le singole diocesi che le conferenze episcopali nordamericane ad avviare inchieste e a proporre misure preventive. Per esempio il Governo Irlandese, per scavare a fondo nel fenomeno della pedofilia ecclesiastica, nel 2010 nomina una commissione d’inchiesta chiamata “Murphy”, costituita non per accertare l’autenticità dei fatti denunciati dalle vittime, ma per analizzare il comportamento delle gerarchie davanti ad essi. Inoltre si cerca di individuare quali siano le caratteristiche che legano il fenomeno dei preti pedofili con la carica che ricoprono nella società.
  • Nell’ultimo capitolo riportano le testimonianze di bambini abusati da preti pedofili. Un resoconto durissimo, crudo, quello di David Pittit, allora bambino, ma uomo al momento della sua testimonianza, che chiama i fatti e le cose con i loro nomi, spiegando chiaramente la perversione del prete pedofilo e ciò che accade nella mente della giovanissima vittima, ma che allo stesso tempo non ha mai messo in dubbio la sua fede in Dio e la sua fiducia nella chiesa, pur essendo stato violato proprio da chi, all’interno della chiesa stessa, avrebbe dovuto proteggerlo. Nel lavoro ho riportato diverse interviste:

1- La testimonianza diretta di un abusato, che è poi diventato il motivo principale per cui ho deciso di trattare questo tema.

2- L’intervista al Dr. David Kolkò, che è considerato uno tra i maggiori esperti nel campo dell’abuso fisico e della violenza in famiglia attraverso una serie di domande e risposte sugli effetti, psicologici e non, che questi traumi possono avere sullo sviluppo del bambino.

I bambini non si toccano

3-L’intervista a Maria, la madre di Giorgio, un bambino abusato da un prete che ben descrive quali problemi ci si trova a dover affrontare anche nella propria comunità quando si è colpiti da un episodio di questo genere.

4-Una carrellata di casi di vittime di abuso, citati dalla stampa e raccolti dalla Rete L’abuso.

Quest’ultima parte definisce l’aspetto più importante ovvero “le vittime” degli abusi. I bambini che sono le vittime fragili di questi “maltrattamenti”, di tutti quegli atti e quelle carenze che turbano gravemente i più piccoli, attentando alla loro integrità corporea e al loro sviluppo fisico, intellettivo e morale. Gli eventi critici, la violenza e l’aggressività hanno effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei bambini, modificano radicalmente la percezione del loro stato di benessere e inducono un peggioramento significativo della loro qualità di vita futura e dell’ambiente famigliare, spesso agendo proprio sugli stili di vita e sulla modalità di comunicazione con il contesto di riferimento. L’unicità di ogni singolo abuso, delle caratteristiche del reato e di quelle della vittima richiedono studi con approcci complessi, spiegazioni e deduzioni, teorie e prassi operative non sempre di facile definizione, proprio per la complessità del contesto in cui ogni abuso avviene. La figura della vittima, per citare Quinney, ha una precisa funzione nel sistema sociale, proprio perché la definizione di vittima cambia a seconda dei modelli culturali delle classi dominanti. Molto interessante è il pensiero che la vittima, con la sua sola presenza nel sistema, dimostra quale minaccia sia stata inferta all’ordine sociale e quindi giustifica, rende giusto, l’intervento di misure repressive per il ripristino della cosa violata.

In questa mia ricerca, sempre ispirata dalla “cassetta degli attrezzi” di Marradi, mi sono riconosciuta nella persona della sociologa statunitense Mary De Young, che si è dedicata alla cura, alla prevenzione e valutazione dell’abuso sessuale sui bambini e grazie alla sua formazione sociologica ha iniziato a studiare casi di Ritual Abuse, conosciuto inizialmente come Satanic Ritual Abuse, che però negli anni ha perso via la sua accezione strettamente satanica. 

La definizione di Ritual Abuse, il concetto di panico morale, i suoi modelli tradizionali e alcuni suoi sviluppi hanno offerto una chiave di lettura interessante per l’interpretazione dei risultati della mia ricerca. Il valore e l’utilità dello studio di fenomeni di panico morale risiedono soprattutto nel disvelare informazioni relative alla strutturazione della società moderna e dei legami sociali.

La discussione attuale sui preti pedofili – considerata dal punto di vista sociologico – rappresenta un esempio di panico morale. Il concetto spiega come alcuni problemi siano oggetto di un “ipercostruzione sociale”. Più precisamente, i panici morali sono stati definiti come problemi socialmente costruiti caratterizzati da un’amplificazione sistematica dei dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica, caratteristiche che tipiche dei panici morali. 

In primo luogo problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle narrative mediatiche e politiche come nuovi, o come oggetto di una presunta e drammatica crescita recente. Una caratteristica tipica dei panici morali: si presentano come nuovi fatti risalenti a molti anni or sono, in alcuni casi a oltre dieci anni fa, in parte già noti, ma con particolare insistenza, sono presentati sulle prime pagine dei giornali avvenimenti degli 1980 come se fossero avvenuti ieri, con un attacco concentrico. Ogni giorno si annuncia, una nuova scoperta volta ad infiammare polemiche, ciò mostra bene come il panico morale sia promosso da “imprenditori morali” in modo organizzato e sistematico.

I panici morali non fanno bene a nessuno. Distorcono la percezione dei problemi e compromettono l’efficacia delle misure che dovrebbero risolverli. A una cattiva analisi non può che seguire un cattivo intervento. I panici morali hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali, non inventano l’esistenza di un problema, ma ne esagerano le dimensioni statistiche. In una serie di pregevoli studi Jenkins, ad esempio, ha mostrato come la questione dei preti pedofili sia forse l’esempio più tipico di un panico morale. Sono presenti infatti i due elementi caratteristici: un dato reale di partenza, e un’esagerazione di questo dato ad opera di ambigui “imprenditori morali”. Il dato di partenza è che i preti pedofili esistono. Alcuni casi sono insieme sconvolgenti e disgustosi, hanno portato a condanne definitive e gli stessi accusati non si sono mai proclamati innocenti. Questi casi negli Stati Uniti, in Irlanda, in Australia spiegano le severe parole del Papa, come capo della Chiesa, e la sua richiesta di perdono alle vittime. Dal momento però che chiedere perdono, per quanto sia nobile e opportuno, non basta, occorre evitare che i casi si ripetano. Non esistono invece nella letteratura sociologica casi di Ritual Abuse avvenuti in Italia a partire dalla diffusione del panico morale. Essi si trovano però nelle narrazioni e nei discorsi dei professionisti, degli imprenditori morali e dei politici che hanno avuto in essi un qualche ruolo. 

Il problema con i casi di pedofilia legati alla Chiesa è che questi sono preclusi anche alla divulgazione scientifica: gli atti rimangono secretati per parecchi anni e ciò impedisce a chiunque di svolgere un lavoro di ricerca d’archivio per chiarire gli aspetti oscuri delle vicende. Va detto che gli abusi rituali in Italia vengono chiamati “abusi collettivi”. Tra i casi più noti, che invece contengono elementi propri dei ritual abuse, possiamo menzionare quello dei cosiddetti pedofili della Bassa Modenese, e quello dei due asili di Brescia, Abba e Sorelli.

In conclusione la mia analisi propone che il ruolo delle istituzioni e degli attori che compongono i sistemi di intervento e di controllo sociale devono riacquisire coerenza ed equilibrio all’interno di strutture condivise ed accettate da tutti gli attori sociali, capaci di assumere come proprio e riconoscere anche un ruolo attivo alla vittima. Obiettivi di salute comuni e globali che tengano al centro il benessere della vittima e riducano i costi sociali dei processi primari e secondari di vittimizzazione attraverso una prevenzione efficace ed efficiente, ma soprattutto appropriata, perchè in assenza di politiche sociali mirate, tutto è lasciato senza alcun programma alle competenze della vittima, quando ne è in possesso, e all’incrocio di esse con i pochi mezzi che la società offre per superare il trauma. Queste risorse vengono gestite su proposte progettuali dal terzo settore e difficilmente trasformate in servizio pubblico. Se la vittima vive in una comunità che ha messo in programma risorse e servizi per il superamento e la riabilitazione del trauma, che fornisce mezzi per il risarcimento del danno subito o per azioni riparative, si ha conformità con le regole sociali e con quel contesto di vita, a maggior ragione se si ha il superamento del danno causato dall’essere vittima con una certa acquisizione di sicurezza e tutela. Allo stesso modo può verificarsi una situazione di non conformità se la società fornisce i mezzi, ma la vittima di abuso non è in grado di superare il trauma o nel caso in cui la vittima di abuso non veda riconosciuti i propri diritti perché non previsto dalle norme o ancora quando la vittima di abuso, annientata dal proprio patimento e senza alcun sostegno, si chiude al mondo.

L’ultima riflessione riguarda la capacità di reazione e superamento dell’evento critico di quella vittima di abuso che ha avuto adeguati processi di socializzazione primaria e secondaria e che attraverso la strutturazione della sua personalità, indipendentemente dal suo status sociale, dalla classe di appartenenza, dal ruolo o dalle sue condizioni psico-sociali, riesce a reagire al trauma attraverso le norme condivise e con strumenti e mezzi adeguati.

Un’imperfetta socializzazione nell’ottica parsonsiana invece può determinare una vulnerabilità che può rendere il soggetto facile preda sia di rivittimizzazione che di crimini. Così è possibile che gli operatori si trovino di fronte ad un adattamento passivo e alla rinuncia quando la vittima perde la fiducia negli strumenti e nelle possibilità offerte in termini di servizi e risorse dalla società rimanendo in una situazione paralizzante e frustrante di possibilità di cambiamento. L’emarginazione delle vittime abusate all’interno del sistema di protezione e sicurezza sociale avviene quando vi è frattura dei valori del riconoscimento della dignità umana e del valore della persona in quanto membro della società. Trovare congiunzioni e congruenze relazionali nei sistemi teorici e operativi di supporto alle vittime di abuso significa costruire una sociologia della vittima abusata vicina alle persone, capace di non rimanere assunto teorico, ma di essere fonte di conoscenza, funzionale, proattiva e di reale stimolo ai sistemi di aiuto e sostegno, che ci auguriamo sempre più organici, complessi, efficaci ed efficienti, ma soprattutto rispettosi dei diritti del fanciullo, dei diritti del cittadino, di politiche sociali concrete e finalizzate al sostegno delle vittime fragili i bambini a tutela e protezione di coloro i quali presentano vulnerabilità ed esperiscono dolore a causa di un abuso subito, capaci di sguardi significativi e attenti. 

                                                                                                               


Made in Italy, la via italiana alla società dello spettacolo

di Patrizio Paolinelli

Le radici del Made in Italy affondano nella storia economica del nostro paese. Risalgono al tardo Medioevo e al Rinascimento con lo sviluppo di un artigianato di qualità che, insieme alla produzione di manufatti d’uso comune sempre più efficienti e raffinati, risultò decisivo per la realizzazione di innumerevoli capolavori d’architettura, scultura e pittura.

<< = = prof. Patrizio Paolinelli

Tra gli italiani tali capolavori hanno alimentato una diffusa sensibilità estetica che continua a palpitare ancora oggi. Passando a tempi assai più recenti il Made in Italy si intreccia con i processi di modernizzazione che hanno condotto oggi il nostro paese a diventare una nazione capitalistica avanzata, pur con tutti i suoi ritardi, squilibri e problemi.

Il Made in Italy si articola lungo tre fasi in continuità l’una con l’altra seguendo un percorso di crescita incrementale dei suoi elementi di fondo. La prima fase inizia negli anni ’50 e si conclude nella prima metà degli anni ’70. Lo sbocciare del Made in Italy è tuttavia all’ombra del miracolo economico, essenzialmente fondato sull’espansione della grande impresa nei settori metallurgico, meccanico, automobilistico e chimico. Negli anni ’50 il nostro paese è tra i primi in Europa in termini di ricostruzione nazionale dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. Alcuni esempi: le acciaierie di Cornigliano sono tra le più moderne del Vecchio Continente; nella Valle Padana viene costruita un’importante rete di metanodotti e in Val di Non la più alta diga d’Europa; è posta la prima pietra dell’Autostrada del Sole (ultimata nel ’64) lungo la quale compare il primo autogrill a ponte; la stazione Termini di Roma è la più grande d’Europa e riceve ogni giorno  400 treni capaci di raggiungere 170 chilometri all’ora.

La nuova fase di industrializzazione del paese non si limita a primati quantitativi. In parecchi comparti si caratterizza per la qualità dei prodotti, il gusto estetico e l’ingegno tecnico dando vita a un singolare intreccio tra fattori economici e fattori culturali in grado di plasmare un immaginario collettivo al cui centro risplende la merce. Il nuovo spirito del tempo su cui si innesta il nascente Made in Italy è all’opera a partire dalla meccanica tradizionale. Nel 1950 il pilota Nino Farina diventa campione del mondo di Formula Uno alla guida di un’Alfa Romeo, seguito nel 1951 da Juan Manuel Fangio (sempre alla guida di un’Alfa) e sia nel 1952 che nel 1953 da Alberto Ascari su una Ferrari. Da subito entrambe le case automobilistiche si caratterizzano per la produzione di veicoli che costituiscono dei veri e propri status symbol destinati soprattutto all’esportazione. Ancora nel ’53 le moto della Gilera occupano le prime tre posizioni nella classifica del campionato del mondo, classe 500, confermando la qualità di un comparto che vedrà l’affermazione di marchi come Augusta, Guzzi, Aermacchi e non solo. Allo stesso tempo la Vespa, lo scooter della Piaggio, diventa sia un efficace mezzo di trasporto sia un simbolo universalmente apprezzato del design italiano mitizzato nel film Vacanze romane.

Questi esempi suggeriscono come prodotti meccanici quali le auto e le moto assumano un valore simbolico ben più importante del loro valore d’uso (spostarsi nello spazio). Le gare di Formula Uno spettacolarizzano la tecnologia, alimentano il mito della velocità e il pilota si trasforma in un divo dello sport assimilabile alle star del cinema. La società dello spettacolo ha già preso forma e proprio in quegli anni l’industria cinematografica italiana si svincola definitivamente dal provincialismo del Ventennio: Anna Magnani, Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale (tanto per ricordare qualche nome) competono ad armi pari con le dive hollywoodiane. Allo stesso tempo la merce fa bella mostra di sé alla Fiera Campionaria di Milano, tra le più importanti del mondo, mentre consolidano la loro vocazione internazionale quelle di Torino, Verona e Bari.

Per molti aspetti siamo ancora all’infanzia del Made in Italy ma il corpo si è formato, la crescita sarà vertiginosa e continua fino a oggi pur tra profonde trasformazioni. Durante gli anni ’50 l’abbigliamento italiano sbarca negli Stati Uniti aprendo la strada a quella dimensione produttiva che successivamente diventerà la regina del Made in Italy: la moda. Per di più le nostre industrie tessili si espandono rapidamente producendo persino per paesi come l’Inghilterra, che pure nel settore vantava un’antica tradizione. Acquistano una dimensione via via più internazionale le produzioni di qualità come quelle delle ceramiche, delle macchine da scrivere e delle calcolatrici mentre cresce significativamente l’esportazione dei nostri prodotti agricoli.

Questa prima fase del Made in Italy farà da matrice alle successive e si caratterizza per molteplici fattori: la specializzazione delle aziende in tipologie merceologiche, la produzione concentrata su base locale e diffusa soprattutto nel Centro-Nord del paese, un modello d’impresa fondato sulla famiglia e sul basso investimento di capitale, la rapida crescita dell’iniziativa privata (tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta lo stock delle aziende passa da 490mila a oltre un milione di unità). Naturalmente non è tutto rose e fiori. Il poderoso sviluppo industriale su cui poggia il rampante Made in Italy si paga con una drammatica emigrazione interna dal Sud verso il Nord, bassi salari, l’autoritarismo padronale, il razzismo nei confronti dei meridionali, la cementificazione incontrollata del territorio e lo spregiudicato inquinamento dell’ambiente; si paga anche continuando a utilizzare lo sport e i mezzi di comunicazione di massa come strumenti per fabbricare consenso politico. Il tutto all’interno di una democrazia bloccata che esclude le sinistre dal governo nazionale. Entriamo nella conflittuale epoca del benessere: il ceto medio e il movimento operaio si irrobustiscono come non mai, il consumismo diventa un generalizzato modo di essere e di vivere contro cui si leva la critica di pochi intellettuali.

Giungiamo così alla seconda fase del Made in Italy, i cui tratti più significativi permangono ancora oggi. Durerà all’incirca fino al 2000 e trasformerà in Made in Italy in un marchio planetario contraddistinto da qualità, ingegno e creatività delle nostre eccellenze artigianali e industriali in quattro settori: abbigliamento-moda, arredo-casa, alimentari-vini, automazione-meccanica. Però nell’arco di questi anni muta radicalmente lo sfondo economico su cui aveva preso slancio la piccola e media impresa (PMI) a conduzione familiare. Da un lato, la grande industria  – pur largamente assistita dallo Stato – inizia a perdere colpi a causa degli shock petroliferi, dell’aumento dei costi di produzione, della concorrenza dei paesi emergenti e della volatilità dei tassi di cambio. Dall’altro, il grande padronato e il governo avvertono la forza del movimento operaio, dei sindacati e del PCI come una minaccia insopportabile al perpetuarsi del loro dominio sulla società.

Indisponibile a qualsiasi compromesso, per il potere economico la crisi della grande industria è l’occasione per prendere due piccioni con una fava: mandare in soffitta il modello di produzione fordista che tanti pericoli ha generato per il padronato e vincere la partita politica contro i lavoratori, i loro rappresentanti politico-sindacali, le classi subalterne. Il Made in Italy sarà uno dei protagonisti di questo passaggio epocale. E lo sarà agendo su un doppio binario: uno economico, l’altro culturale. Sul binario economico inventando i distretti industriali. Luoghi di produzione fondati su una PMI in grado di rispondere in maniera flessibile alle fluttuazioni della domanda, specializzata in una delle fasi del processo produttivo per poi vendere i propri prodotti ad altre imprese della filiera, orientata verso produzioni ad alto contenuto di conoscenza, design e creatività.

Questo modello ha permesso di recuperare centinaia di migliaia di posti di lavoro bruciati di anno in anno dalla grande industria sempre più in crisi e con le sue merci ha costituito una voce decisiva delle nostre esportazioni permettendo un surplus commerciale che consentiva e consente tutt’oggi all’Italia di finanziare l’acquisto di energia e materie prime. E’ necessario aggiungere che in numerosi comparti le PMI fanno largo uso del lavoro nero e sottopagato, a cottimo e a domicilio mentre praticano una notevole evasione fiscale, solo parzialmente giustificata da un fisco obiettivamente iniquo.

Sul binario culturale il Made in Italy trionfa sul piano internazionale negli anni ’80, il decennio che vede affermarsi su scala mondiale la controrivoluzione politica e la restaurazione culturale dell’élite economica  dopo i pericoli corsi negli anni ’60 e ’70. I grandi marchi dell’abbigliamento-moda e dell’arredo-casa promuovono il “vivere bene” e il “vivere italiano”, diventano sempre più globali e fanno del lusso alla portata di tutti l’espressione dell’umana felicità: ci si indebita per i capi d’abbigliamento, gli accessori firmati, i complementi d’arredo. E se proprio non si può si ricorre a marchi contraffatti, ai saldi e ai prodotti meno costosi. Se nella prima fase del Made in Italy merci quali il frigorifero, l’automobile e la TV entrarono a passo di carica nelle case degli italiani, da allora, in un crescendo che arriva a oggi, sono gli italiani a entrare a passo di carica dentro le merci. Il corpo glamour si impone come l’unico modello di fisicità e come il principale oggetto di investimento psichico.

Fare di se stessi uno spettacolo permanente in grado di suscitare universale ammirazione dipende da quanto si è disposti a spendere per il look e per ostentare consumi vistosi. Nonostante l’ininterrotto susseguirsi di crisi economiche lo stile di vita fondato sulla ricchezza materiale diventa egemone. In questo processo di definitiva affermazione della società dello spettacolo il Made in Italy ha alleati di ferro: la stampa, l’onnipresente pubblicità, il divismo cine-televisivo, l’industria musicale, il soft power statunitense, l’economia insegnata nelle scuole e nelle università realizzando una combinazione così ben coordinata da far invidia alle dittature degli anni ’30.

La terza fase del Made in Italy, dal 2000 a oggi, solleva nuovi interrogativi. Dal 2010 nei settori tessile, abbigliamento e calzaturiero bastano due fasi della lavorazione svolte nel nostro paese per dichiarare i prodotti Made in Italy. Per alcuni si tratta di una truffa, per altri no.  Ma soprattutto occorre tenere presente che a fare da argine alle slavine economiche degli ultimi vent’anni (deindustrializzazione e grande recessione) è stato il Made in Italy. Il quale, insieme alla finanza e alle industrie della comunicazione e dell’informazione, ha dato vita a una neoborghesia che ha sostituito le vecchie élite industriali e oggi è in larga parte al comando della società italiana. Ancora una volta però è cambiato il panorama socio-economico perché le crisi del capitalismo sono senza fine. In un’Europa impoverita sotto ogni profilo le luccicanti immagini della società dello spettacolo sopravvivono a se stesse e il Made in Italy non si coniuga più con l’idea di futuro fondato sul progresso né sul benessere diffuso né sul “vivere bene”.

E’ schiacciato su un presente in cui si vive male: la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi, la disoccupazione giovanile è un fenomeno di massa, il lavoro è precario, la vita quotidiana un inferno di preoccupazioni e il domani è all’insegna dell’incertezza se non della paura. La moda, il glamour e il consumismo sono ottimi narcotici per contenere l’angoscia generalizzata. Ma se un giorno non dovessero bastare più è probabile che a subirne le conseguenze sarà proprio quel ceto medio formatosi all’insegna del Made in Italy.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


LA MAGIA TRA PASSATO E PRESENTE: UNO SGUARDO ANTROPOLOGICO E SOCIALE

di Enrica Froio

La magia è un argomento che scaturisce da sempre curiosità e interesse per la ricerca etnografica e non solo. Sociologi e antropologi da sempre condividono i loro lavori, studi ed esperienza di ricerca su campo, per produrre quanti più dati possibili, per dare spiegazioni scientifiche di determinati comportamenti e sviluppi sociali e per svelare la verità del mondo dell’occulto.

<<== dott/ssa Enrica Froio

L’analisi di quest’argomento, è frutto di una curiosità da sempre presente in me, curiosità sul perché è nata la magia, il suo sviluppo storico e sociale, il collegamento con la religione e la scienza e come questi sono sviluppati su linee parallele e ancora oggi in epoca moderna le credenze magiche sono presenti nella società. Lo studio è stato svolto grazie a una ricerca bibliografica specifica dei più grandi antropologi e studiosi di magia quali: Frazer, Malinowski, Evans-Pritchard e De Martino. Frazer che con le sue opere “Il ramo d’oro” e “Magie e tradizione degli alberi” ha permesso di descrivere il collegamento tra la magia e il mondo della natura e i primi sviluppi magici tra i primitivi.

Malinowski, che con la sua opera “Magia scienza e religione” ha messo a confronto la differenza tra le credenze magiche e quelle religiose e ciò che per i selvaggi è la definizione di scienza. Scienza intesa non con il significato che oggi diamo al termine che è accompagnato da metodi e ricerche scientifiche ma intesa come una conoscenza che i primitivi hanno sviluppato sulla natura grazie all’adattamento nei confronti di questa per vivere e sopravvivere. Evans-Pritchard e De Martino, hanno riportato alla luce le dinamiche di vita della tribù degli Azande, per quanto riguarda l’opera di Pritchard, il quale spiega le funzioni e i metodi di uso della magia per le operazioni più importanti della vita quotidiana di questi indigeni, quali soprattutto caccia, pesca e  riti funebri.

De martino, invece, ha raccolto dati e testimonianze di come la magia arriva ancora oggi a essere un carattere distintivo di alcune regioni in Italia soprattutto nel Sud, in maniera particolare Napoli. Napoli che ancora oggi è visitata da molti turisti i quali collegano la città a riti, soprattutto scaramantici per andare contro la negatività della vita quotidiana. Lo studio della nascita della magia e il suo sviluppo vuole spiegare come questa è intrinseca nello sviluppo della società moderna, dagli uomini primitivi a oggi, attraverso cambiamenti che hanno portato all’adattamento dei gruppi sociali e soprattutto nelle tribù dei primitivi, alla divisione di poteri all’interno e all’acquisizione di status specifici per alcuni individui.

Le domande da porsi sono:  “Come si è sviluppata la magia?” e ancora “Questa esiste ancora oggi?”. Per rispondere a queste domande bisogna arrivare alla sintesi del pensiero degli antropologi descritti in precedenza. Frazer descrive la magia come un metodo evolutivo della società che inizia con la religione e termina con lo sviluppo della scienza. La magia è descritta come un modo dell’uomo di manipolare la realtà attraverso dei rapporti causa-effetto che per il loro ordine di svolgimento, ripetuto e sempre uguale ricorda un po’ il metodo scientifico. Tutto ciò però è basato su conoscenze e speranze di riuscita, irrazionali. Malinowski grazie alla sua ricerca su campo nelle isole Trobriand ha un’idea della magia differente da Frazer.

Egli non si concentra sui metodi utilizzati per operare con la magia, ma sulle finalità che questa porta. La magia sono atti, messi in pratica per affrontare le difficoltà della vita, gli imprevisti e gli ostacoli. La sua testuale descrizione della magia è: “Mette l’uomo in grado di compiere con fiducia i suoi compiti importanti, di mantenere il suo equilibrio (…). La sua funzione è di ritualizzare l’ottimismo umano”. La magia aiuta la vita dell’individuo. Evans-Pritchard con la sua ricerca su campo presso gli Azande tra il 1926 e il 1930 approfondisce il pensiero magico delle tribù. Per Pritchard la magia è la base di credenze, ogni negatività può essere ricondotta alla magia, anzi ancora più nello specifico alla stregoneria e a tale accaduto bisogna far fronte con altrettante pratiche magiche.

La magia non individua cosa è vero o falso, bensì un insieme di concetti logici legati tra di loro che devono essere ovviamente considerati in base alla società che li ha prodotti. Per ultimo, ma non meno importante occorre ricordare il pensiero di De Martino, il quale con le sue ricerche etnografiche negli anni ’50 nel Sud d’Italia elabora il suo pensiero. Per De Martino tutta la magia è legata alla perdita della presenza, cioè alla capacità e produttività culturale e decisionale che è assolutamente necessaria per ogni individuo. La magia protegge da questo rischio perché permette a livello culturale e socialmente accettato di risolvere delle situazioni critiche che non possono essere affrontate in senso materiale e dove la presenza individuale si trova in crisi. Attraverso la magia questo problema è risolto grazie ai rituali che però iniziano a viaggiare parallelamente alla religione.

De Martino afferma che magia e religione hanno la stessa funzione e l’unica differenza sta nella maggiore morale della religione, inoltre la magia opera per un singolo caso circoscritto mentre la religione riesce a operare grazie ai rituali su larga scala rispetto ai problemi degli individui. In conclusione, il concetto di magia è differente a seconda dell’ambiente culturale e può assumere significati diversi che non possono essere ricollegati tutti a un’unica funzione o definizione. Bisogna anche tener conto che i contesti culturali e sociali mutano nel tempo e questo porta a cambiamenti sia sul pensiero sia negli atti pratici della magia. Nell’epoca moderna anche il progresso tecnologico è una contaminazione per tutto ciò che è ritenuto magico, misterioso o occulto ma che nonostante tutto, lo sviluppo sociale e culturale in ogni parte del mondo, non è del tutto scomparso.

Dott.ssa Enrica Froio – Sociologa ASI


Il finanzcapitalismo che avvelena il calcio

di Giampaolo Latella

Il senso comune vince per cappotto: la vicenda della SuperLega europea di calcio fa inorridire anche i più indulgenti. Eppure no, non basta indignarsi. Occorre riflettere, perché se si è arrivati a questo punto non può essere solo a causa del vizio capitale dell’ingordigia.

<<== Giampaolo Latella

La gestazione del progetto risale di qualche anno: tutti lo sapevano e tutti ne scrivevano. Ma cosa è stato fatto per impedire che venisse alla luce l’idea – certamente deprecabile – di creare un calcio per soli ricchi, appartenenti al club esclusivo dei club esclusivi, al novero opulento delle squadre opulente?   La risposta, disarmante, è racchiusa in una sola parola: nulla. Oggi le 15 maggiori società europee hanno deciso di staccarsi dalle altre perché non si reggono più in piedi, sepolte da debiti a nove cifre espressi in euro. Per l’impresa calcistica europea – che presenta un’alea di gran lunga maggiore delle altre imprese, legata al risultato del campo – l’alternativa è tra evolvere verso il modello NBA del basket, e così sopravvivere, o rimanere attaccata alla zavorra e soccombere.

Tutto questo stride con i valori sportivi con cui siamo cresciuti, a partire dal più nobile, quello dell’eguaglianza sostanziale tra tutti i partecipanti al gioco – ché sempre di gioco si tratta – raccontato nello spot che l’Uefa realizzò lanciando la campagna #equalgame.Di “equo”, nel calcio professionistico di oggi, non c’è nulla. Di solidale, invece, sì, almeno tra i club della diaspora: hanno stretto un patto per andare avanti e forse, un giorno, raggiungere un equilibrio tra costi e ricavi oggi paragonabile a una chimera. La “bolla” finanzcapitalistica è pronta a esplodere, la Lehman Brothers del calcio è dietro l’angolo e non bastano gli steroidi anabolizzanti dei diritti televisivi, gonfiati all’inverosimile, per garantire la tenuta di un sistema ormai al collasso.

Stadio

Non è sufficiente, dicevamo, ammonire e condannare. Bisogna anche domandarsi perché. Il motivo principale di questa condizione è la mancata riforma di un sistema che da anni non funziona più e continua ad accumulare passività spaventose. 

Il modello del calcio europeo di vertice è drogato da ingaggi folli, da plusvalenze più che discutibili, dalle carenze del sistema dei controlli su un mercato incapace di autoregolarsi. Si parla da anni di salary cup, contrappeso decisivo per garantire la sportività della competizione, ma perché non è stato introdotto? 

Oggi ci indigniamo tutti, giustamente. I più colpiti sono i tifosi delle tre squadre che hanno aderito alla SuperLega: Juventus, Inter e Milan, rispettivamente citate per numero di tifosi. Quasi 9 milioni di fan bianconeri, 4 milioni di nerazzurri, altrettanti rossoneri.  Un popolo che va rispettato perché il calcio è una questione tremendamente seria, sul piano sociale prima ancora che sul versante economico: la passione per questo sport è stata infatti per molti anni, prima della pandemia, l’unico fattore in grado di generare una mobilitazione popolare su larga scala.

Ma se i tifosi meritano considerazione, i cittadini hanno diritto di essere rispettati. Come la metteremmo se, un giorno, i signori del calcio pensassero nuovamente di presentarsi al cospetto dello Stato rivendicando un aiuto economico per il prossimo e probabile tracollo del sistema?  I debiti del calcio non possono ricadere sulla collettività, per una questione etica e per la drammatica contingenza economica causata dal coronavirus, che pure ha pesantemente danneggiato le aziende calcistiche, oggi ridimensionate in due fonti di ricavo fondamentali: il botteghino e le sponsorizzazioni. 

Per tutte queste ragioni, è auspicabile che il dibattito sul calcio vada oltre il senso comune e assuma connotati di maturità, per una riforma profonda della governance, dei campionati professionistici, dei requisiti tecnico-economici per la partecipazione alle competizioni e delle garanzie di solvibilità finanziaria da prestare al momento dell’iscrizione.

Senza comprendere che si è toccato il fondo, si continuerà a guardare il dito, mentre la luna del pallone sarà prossima a una dolorosa e desolante eclissi totale.


Sport e pandemia

INTERVISTA AL PROF. NICOLA RINALDO PORRO

di Patrizio Paolinelli

Nicola Rinaldo Porro è uno dei più importanti sociologi italiani dello sport. Docente universitario, ha al suo attivo numerosi studi e ricerche. Lo incontriamo per una breve riflessione sullo sport al tempo del Covid-19.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

La pandemia ha inciso negativamente su gran parte dei comparti economici. Quali sono state le principali ricadute sull’industria dello sport professionistico?

L’impatto economico della pandemia sul grande sport professionistico è stato sicuramente più rilevante per l’indotto interessato agli eventi che non per i club professionistici. Questi ultimi hanno sviluppato da almeno due decenni straordinarie capacità di diversificazione commerciale dell’offerta di sport spettacolo. Gestire un pacchetto di eventi televisivi per un pubblico confinato fra le pareti domestiche non è meno redditizio ed è assai meno operativamente impegnativo che governare il complesso e delicato sistema dello sport campionistico “in presenza”. Senza contare i risparmi realizzati dalle società in materia di costi, talvolta assai rilevanti, per garantire la sicurezza dentro gli stadi e nelle loro immediate vicinanze. A soffrire l’impatto maggiore in termini di fatturato commerciale non sono dunque i grandi club calcistici, garantiti dai diritti televisivi, quanto piuttosto la pulviscolare offerta di servizi legati alla mobilità delle tifoserie e ai servizi di ogni genere rivolti al pubblico degli stadi, ormai malinconicamente condannato a consumare un tifo da divano.

Lo sport è anche un grande anestetico sociale. Nel senso che serve a canalizzare l’aggressività e a distrarre il pubblico. Da questo punto di vista, la pandemia ha cambiato qualcosa?

Non credo. È anzi probabile che l’efficacia anestetica – che peraltro non vorrei considerare il tratto dominante dell’esperienza sportiva che costituisce un caleidoscopio di emozioni, bisogni di identità e forme di socialità variegato e non privo di contraddizioni – sia addirittura cresciuta. A parere di tutti gli osservatori competenti – psicologi, giornalisti, operatori sociali – la pandemia sta inducendo a tutte le latitudini effetti depressivi su larga scala. Forse anche lo sport formato Sky, l’esperienza del tifo da divano, può addirittura assolvere una funzione surrogatoria nella impossibilità materiale di sperimentare alternative più gratificanti. Quanto all’aggressività, la distanza fisica ne riduce l’impatto concreto e quindi la “pericolosità” nel caso di comportamenti inappropriati che conosciamo e che non dovremo rinunciare a contrastare.

Non dobbiamo però illuderci che siano state rimosse le dinamiche profonde che innescano la violenza. Sono fenomeni carsici, indagati ormai da decenni dalla psicologia sociale. Si alimentano della subcultura comunitaria del tifo, che a sua volta eccita e riproduce dinamiche di aggressività “a spirale” che di quando in quando sfociano in vere e proprie simulazioni della guerra. Le radici sono profonde e richiederebbero strategie di contrasto anche in condizioni di normalità. Guai però, lo ripeto, a liquidare anche i fenomeni più inquietanti come l’inevitabile prodotto del consumo di sport. Le ascendenze dello sport sono nella civiltà classica, non nella barbarie. Bisogno far leva piuttosto sulle potenzialità civiche, solidaristiche, relazionali – soprattutto dello sport praticato, ma anche della fruizione agonistica degli eventi – sviluppando in maniera non precettistica o banalmente moralistica una vera e propria pedagogia della condotta sportiva. Un compito che spetta anche, e direi soprattutto, alle agenzie di socializzazione come la scuola e alle reti familiari e amicali troppo spesso disimpegnate in materia.

Da un anno a questa parte l’attività sportiva amatoriale è stata fortemente limitata dalle misure anticontagio. Con quali conseguenze sul piano dei rapporti sociali?

Questo è un aspetto della pandemia fra i più drammatici e preoccupanti. Da molti mesi ormai gli impianti sono deserti e l’accesso ad essi è comprensibilmente sottoposto a drastiche limitazioni. Ciò compromette necessariamente la preparazione degli atleti e i programmi di allenamento, soprattutto per le specialità in cui è quasi impossibile prescindere dalla vicinanza fisica, dal contatto, da quella felice contaminazione di emozioni condivise e di esercizio disciplinato della corporeità che fa dello sport praticato un fenomeno di ineguagliabile rilevanza sociale.

Ancora di più, però, dovrebbe preoccupare la forzata regressione alla sedentarietà che, senza scomodare le rilevazioni statistiche, sta dilagando in questi mesi. Ciò è particolarmente preoccupante in un Paese come l’Italia che ha istituito un rapporto schizofrenico con la galassia dello sport. Rimaniamo pur sempre la quinta o la sesta potenza olimpica al mondo, occupiamo un rango prestigioso in una vasta gamma di discipline competitive. Allo stesso tempo, però, l’Italia arranca al terzultimo posto nell’Unione Europea per tasso di cittadini attivi. L’educazione fisica rimane la cenerentola dei programmi scolastici. La sedentarietà è una sorta di religione civile nel Paese dei pigri. Il confronto con i contesti nazionali a noi più vicini è sconfortante.

Qualcuno però potrebbe maliziosamente obiettare che lo sport fa male, dato che il Paese dei pigri registra uno dei tassi di longevità tra i più alti al mondo…

E direbbe una fesseria. Gli italiani sono effettivamente ai primissimi posti in Europa per aspettative di vita alla nascita, ma se osserviamo le aspettative di vita in buona salute e in condizioni di piena autosufficienza precipitiamo in bassa classifica. Gli epidemiologi, per fare un esempio di attualità, non si sono meravigliati più di tanto dell’alto tasso di letalità segnalato nel Covid fra la popolazione anziana. Sembra che il nostro sistema sanitario garantisca efficacemente la “sopravvivenza anagrafica” ma assai meno la qualità della vita e l’efficienza fisica che ne rappresentano la condizione primaria. Non pochi studiosi cominciano a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che l’elevato tasso di sedentarietà degli italiani in tutte le età della vita rappresenti un fattore significativo di vulnerabilità in presenza di situazioni come quelle che stiamo vivendo.

Quali consigli può dare ai cittadini che amano praticare l’attività fisico-motoria al tempo del Covid-19?

In coerenza con quanto ho appena sostenuto, il mio è un appello a “non mollare”. Ovviamente non va trascurata alcuna necessaria precauzione. Ci si dovrà vaccinare appena possibile. Andranno osservati con la dovuta premura comportamenti igienico-sanitari corretti. Ma il mio invito e il mio augurio è di non rinunciare a quell’insostituibile pratica di prevenzione e di ben-essere che è rappresentata dall’attività fisico-motoria. Il ventaglio di possibilità è talmente ampio da permettere a ciascuno di noi, a qualunque età della vita, di scegliere come, quando e con quale – prudente – livello di intensità regalare al proprio corpo e alla propria mente la felicità dell’azione motoria. Non arrendiamoci al virus!

Via Po cultura, settimanale del quotidiano Conquiste del Lavoro, marzo 2021


La riforma della democrazia arriva dal basso

di Emilia Urso Anfuso

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Ancora oggi molti affibbiano questa frase a Voltaire, ma è un errore tra i troppi che oggi si compiono, per ignoranza e superficialità. La frase è da attribuire alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che nel suo libro “The friends of Voltaire”, pubblicato nel 1906, commise una sorta di errore di cui poi si scusò: mise tra virgolette la famosa frase, che in tal modo fu attribuita a François-Marie Arouet, il cui  pseudonimo è Voltaire.

dott.ssa Emilia Urso Anfuso ==>>

Oggi dovremmo vivere in una società moderna, ripulita dalle costrizioni del passato, dalle chiusure mentali derivanti, anche, da contesti storici in cui il diritto umano, o concetti quali la libertà di espressione e di pensiero erano impensabili. Invece ci ritroviamo immersi in un pantano soffocante, privati della libertà di esistere se solo ci azzardiamo a meditare sui fatti che accadono nel mondo attivando la capacità critica, divenuta ormai mercanzia rara.

Una sorta di riforma della democrazia è avvenuta senza scomodare costituzionalisti e parlamentari, perché è stata acclamata a maggioranza dal popolo, che diviene sovrano solo nel momento in cui la massa non riesce a progredire e preferisce condividere un pensiero unico, metodo assai più semplice e meno stancante del dover utilizzare i neuroni ed attivare le sinapsi.

Per avere una riprova di questo stato di cose oggi possiamo analizzare i comportamenti di un gran numero di persone grazie ai Social network. Guai a dissentire dalle convinzioni comuni e su qualsiasi tema. La calda e comoda cuccia del rigido pensare comune, dettato con metodi sapienti da chi governa il paese, è difficile da abbandonare per chi ha scarsa propensione alla curiosità, allo spirito critico, alla ricerca della verità.

Pensare pesa e stanca il cervello di chi ne è fornito in scarsa misura. Essere trainati dal mucchio salva non intende perder tempo a ragionare, analizzare e riflettere. Il pensiero comune è la cura all’ignoranza, all’incapacità di mettere insieme un ragionamento proprio. È l’espressione di un sistema che si riempie la bocca di frasi fatte, o dette da altri, che fanno scena e mettono a riposo la mente e la coscienza.

Se diverremo tutti uguali, non sarà necessario combattere per un ideale diverso. Se ci omologheremo al pensiero comune, non avremo necessità di agire. Quanta pochezza in queste assolute convinzioni.Oggi, se non vuoi rischiare l’emarginazione – seppur in forma virtuale – dalla società civile, devi evitare di esprimerti liberamente, devi evitare di regalare le tue riflessioni attente e meditate ai cittadini di maggioranza, che possono “democraticamente” disattivarti dal mondo parallelo sul web chiedendo la tua estromissione, temporanea o perenne, dai Social network. Che puntualmente approvano l’istanza.

Parallelamente, chi gestisce questi contenitori virtuali di varia umanità, non procedono mai contro i violenti, contro chi ingiuria pubblicamente, contro chi non permette la libera espressione del pensiero. Il popolo della maggioranza, composto da quelli che hanno il coltello dalla parte del manico per il fatto di pensare poco con la loro testa e quindi sono elementi perfetti in un sistema imperfetto, ha vinto. Non sanno di aver vinto contro se stessi. Per costoro l’importante è stare dalla parte della maggioranza, senza mai chiedersi se stanno dalla parte giusta.


ADOZIONI OMOGENITORIALI: TRA LEGGE E GIURISPRUDENZA.

di Martina Grassini

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la recente pronuncia depositata il 31 marzo 2021 n. 9006, intervengono sul riconoscimento in Italia dell’adozione da parte di una coppia omogenitoriale maschile avvenuta all’estero.

Avv. Martina Grassini ==>>

La Suprema Corte ha ritenuto di formalizzare e riconoscere la genitorialità della coppia omosessuale, escludendo così che il principio di eterosessualità  della coppia vigente nel nostro ordinamento, possa essere inteso quale principio di ordine pubblico internazionale.

Nel caso in esame la Cassazione si è pronunciata sul ricorso del Sindaco di un Comune lombardo, che impugnava la trascrizione in Italia di un adoption order emesso dalla Surrogate Court negli Stati Uniti, che attribuiva alla coppia omogenitoriale lo status di genitori adottivi di un minore.

Dopo ampio excursus sul concetto di ordine pubblico internazionale, la Corte di Cassazione afferma come la condizione soggettiva costituita dall’eterosessualità della coppia, vigente ancora all’interno del nostro ordinamento, non costituisce principio di ordine pubblico internazionale. Per tale motivo il provvedimento straniero che riconosce il figlio adottivo di coppia omogenitoriale deve essere riconosciuto e trascritto anche in Italia.

In conclusione la Cassazione afferma come le condizioni di accesso alla genitorialità adottiva previste  dal nostro ordinamento (e dunque l’eterosessualità) nono possono introdursi tra “i principi di ordine pubblico internazionale” che possano limitare il riconoscimento di un atto straniero in Italia.

Viceversa la Suprema Corte evidenzia come sia necessario garantire l’applicazione dei principi di derivazione costituzionale che si pongono in una condizione di sovraordinazione in quanto diritti inviolabili della persona.


Le forze centripete nei gruppi sociali

In questo articolo prenderemo in considerazione le forze centripete presenti nei gruppi sociali. Tali forze permettono ad un gruppo di continuare ad esistere nonostante il fatto che i gruppi come gli individui siano soggetti a continui cambiamenti.

<<== Prof. Giovanni Pellegrino

Le principali forze centripete sono la coesione e la conformità: la coesione è quella forza che tiene unito il gruppo nonostante le situazioni problematiche siano inevitabili nella vita dei gruppi. Mentre la conformità è quella forza che rende il più possibile uniforme la visione del mondo dei componenti del gruppo.

Ciò premesso dedicheremo la nostra attenzione alla coesione che può essere definita quella forza, quel collante, quel sentimento che tiene unito il gruppo anche nelle situazioni difficili. Palmonari defisce la coesione la risultante di quel processo sociale per cui un insieme di individui diventa un gruppo e si mantiene come tale resistendo alle forze che tendono a provocarne lo scioglimento. Tuttavia dobbiamo precisare che la coesione non è esclusivamente una forza centripeta di gruppo dal momento che è riscontrabile anche nel rapporto tra due amici. Essi certamente non costituiscono un gruppo ma una diade fermo restando che alla base della coesione vi è un’attrazione interpersonale.

A questo punto dobbiamo fare un’importante distinzione tra attrazione personale e attrazione sociale. Infatti possiamo affermare che tra due amici che costituiscono una diade esiste un’attrazione personale ma non esiste un’attrazione sociale. Possiamo affermare che tra due amici esiste attrazione personale in quanto essa è frutto del rapporto interpersonale che esiste tra due individui e delle caratteristiche psicologiche da essi possedute, anche se essi appartengono a due gruppi in conlitto tra loro. L’attrazione personale può esistere anche tra individui che fanno parte di gruppi che sono in aperto conflitto tra loro perché non è assolutamente collegata all’identità sociale dell’individuo.

Vogliamo precisare che col termine identità sociale si intende in psicologia sociale e in sociologia la concezione che un individuo ha di se stesso in quanto membro di gruppi o di catagorie sociali. In estrema sintesi possiamo che l’attrazione personale è collegata e dipende dall’identità personale dell’individuo mentre l’attrazione sociale dipende dall’identità sociale dell’individuo. In psicologia sociale e in sociologia col termine identità personale si intende la concezione che un individuo ha di se stesso come essere unico e distinto dagli altri, ivi compresi gli appartenenti al suo gruppo sociale.

Per rendere chiara al lettore la differenza esistente tra attrazione personale e attrazione sociale ipotizziamo che due grandi amici facciano parte di due partiti politici in conflitto tra loro. Ipotizziamo anche che il fatto di avere idee politiche opposte non crei nessun problema al loro rapporto. Nell’esempio da noi citato possiamo affermare che tra due persone esiste un’attrazione personale ma non esiste attrazione sociale in quanto i soggetti fanno parte di gruppi che sono in aperto conflitto tra loro.

Quindi ci può essere attrazione sociale solamente quando due individui fanno parte dello stesso gruppo sociale. Tuttavia in nome della sua identità personale un individuo può decidere di diventare amico di una persona che è membro di un gruppo che è in conflitto con il suo. Naturalmente l’individuo in questione sa bene che tale scelta potrebbe non essere approvata dai membri del suo gruppo dal momento che tale scelta entra in contrasto con la sua identità sociale. Appare evidente che se in un individuo l’identità sociale è più forte dell’identità personale egli non stringerà mai rapporti di amicizia con individui che appartengono a gruppi o categorie che hanno un rapporto conflittuale col suo gruppo o con la sua categoria. In sintesi vogliamo precisare che l’attrazione personale dipende dall’identità personale, mentre quella sociale dipende dall’identità sociale.

Riteniamo di aver spiegato al lettore i quattro concetti di fondamentale importanza nella psicologia sociale e nella sociologia quali l’identità personale, l’identità sociale, l’attrazione personale e l’attrazione sociale. Vogliamo altresì precisare che solo l’attrazione sociale è un fenomeno di gruppo dal momento che produce la coesione di gruppo. Invece l’attrazione personale non è un fenomeno di gruppo in quanto non determina la coesione di gruppo ma semplicemente coesione all’interno di una diade (di amici, di colleghi, di fidanzati o coppia di marito e moglie). Dobbiamo anche mettere in evidenza che l’attrazione sociale è un’attrazione depersonalizzata, dal momento che i sui oggetti sono intercambiabili tra di loro poiché essi suscitano sentimenti positivi dal momento che appartengono allo stesso gruppo dell’individuo e non per le loro caratteristiche personali. In alcuni casi può anche accadere che si trovi attrazione sociale per un individuo, in quanto membro del proprio gruppo ma non si trovi attrazione.

Vogliamo mettere in evidenza che la forza dell’attrazione sociale è determinata da una grande quantità di fattori quali le relazioni intergruppi e le relazioni intragruppo. Per fare un esempio nel caso che sia in corso un conflitto intergruppo l’attrazione sociale che un individuo prova nei confronti dei membri del proprio gruppo tende ad aumentare, determinando di conseguenza un aumento della coesione di gruppo. Bisogna evidenziare che la coesione di gruppo riveste molta importanza nella vita del gruppo dal momento che solamente quei gruppi che presentano una forte coesione interna riescono ad ottenere importanti vittorie e risultati gratificanti. Riguardo al legame esistente tra coesione interna e risultati positivi ottenuti dai gruppi, Palmonari afferma che le squadre costituiscono un ambito privilegiato per studiare tale rapporto.

Le ricerche svolte da molti sociologi hanno dimostrato che esiste una relazione positiva tra coesione e prestazioni sportive. Nell’ambito sportivo risulta determinante non solo la coesione esistente ma anche la coesione presente tra gli atleti e l’allenatore. Anche nelle squadre di calcio la coesione è la condizione indispensabile per vincere le partite. Non dimentichiamo che nelle squadre di calcio accade spesso che le divisioni e i conflitti esistenti tra i giocatori oppure tra i giocatori e l’allenatore determinano una serie di sconfitte anche se la squadra è formata da ottimi calciatori. A volte la scelta del presidente di una squadra di calcio di esonerare l’allenatore permette alla squadra di ottenere una serie di vittorie. Tali vittorie sono determinate dal fatto che il nuovo allenatore riesce ad aumentare il grado di coesione esistente tra i giocatori nonché il grado di coesione esistente tra allenatori e giocatori. Comunque se è vero che la coesione aumenta le possibilità di vittoria di una squadra di calcio è altrettanto vero che le vittorie delle partite aumentano la coesione tra i giocatori e tra i giocatori e l’allenatore.

Al contrario una lunga serie di sconfitte finisce per determinare una forte diminuzione della coesione tra i componenti della squadra dal momento che quando si verificano delle sconfitte si formano dei sottogruppi tra i giocatori che si attribuiscono a vicenda le colpe delle sconfitte. Inoltre le sconfitte inducono molti giocatori a non aver più fiducia nelle scelte dell’allenatore, ragion per cui nascono conflitti tra allenatore e una parte dei giocatori. I sociologi dello sport hanno compiuto interessantissimi studi su come i cosiddetti fattori ambientali possono influire sulle prestazioni sportive dei calciatori ed anche di altre tipologie di atleti Tuttavia in questa sede non possiamo affrontare dettagliatamente tali problematiche complesse per ragioni di spazio.

A questo punto del nostro articolo riteniamo opportuno prendere in considerazione la seconda forza centripeta ovvero la conformità. Lucia Zani definisce la conformità come l’adesione ad un’opinione o ad un comportamento che predominano in un gruppo anche quando questi sono in contrasto con il modo di pensare di alcuni membri del gruppo. Nella vita sociale capita abbastanza spesso che alcuni membri di un gruppo aderiscano in nome della conformità a scelte effettuate dal loro gruppo di appartenenza, anche se sono convinti che tali scelte sono sbagliate o comunque sono in contrasto con il loro principio morale.

Diversi sono i motivi che possono indurre i membri del gruppo a conformarsi alle decisioni prese dalla maggioranza dei membri anche se tali decisioni non sono condivise dal soggetto. Il primo di tali motivi è rappresentato dalla compiacenza. In questo caso il membro del gruppo si conforma alle decisioni prese dalla maggioranza per evitare di apparire diverso dagli altri componenti del gruppo. Infatti i sociologi e gli psicologi sociali sanno bene che molte volte la diversità viene considerata all’interno dei gruppi un vero e proprio stigma, un sinonimo di stranezza. Altre volte il soggetto si conforma alle decisioni della maggioranza anche per la paura di essere oggetto di ritorsioni da parte dei membri del gruppo dotati distatus elevato.

Dobbiamo anche dire che tale paura è molto spesso basata su considerazioni realistiche in quanto in molti gruppi individui che hanno il coraggio di contestare le decisioni della maggioranza o del leader e dei suoi collaboratori subiscono ritorsioni di vario tipo. Infine nel caso della compiacenza l’individuo si conforma alle decisioni del gruppo anche per non essere giudicato male dagli altri. Accade molto spesso che giudizi negativi derivanti dal fatto che il soggetto non si è conformato alle decisioni del gruppo, non sono espressi in presenza della persona diffidente ma in sua assenza, assumendo a volte la forma di calunnie nonché di pettegolezzi. In ogni caso dobbiamo dire che non è una scelta facile quella di non conformarsi alle decisioni e ai comportamenti della maggioranza dei membri di un gruppo. Ciò espone il soggetto a notevoli rischi psicosociali non facilmente gestibili e controllabili da parte del soggetto dissidente.

Un altro motivo che induce il soggetto a conformarsi alle decisioni del gruppo è l’accettazione. In tal caso i membri del gruppo che non condividono la posizione della maggioranza o quella del leader accettano tale posizione perché la questione sulla quale il gruppo ha espresso la propria opinione è ambigua e di difficile valutazione. Di conseguenza l’individuo pur pensandola in maniera diversa dal gruppo non è sicuro di essere nel giusto proprio a causa dell’abiguità della questione. Per tale ragione l’individuo sceglie di conformarsi alla posizione del gruppo temendo di avere un’idea sbagliata intorno alla questione. Dobbiamo evidenziare che nel caso di questioni ed opinioni ambigue è normale che l’individuo abbia paura di sbagliare facendo di testa propria e cerchi di conseguenza il supporto psicologico derivante dall’adeguarsi alle opinioni della maggioranza.

Infine un terzo motivo induce gli individui a conformarsi alle decisioni dl gruppo è la convergenza. La convergenza è una motivazione alla conformità di tipo affettivo, dal momento che è un’esperienza sgradevole, nonché stressante opporsi ad una maggioranza concorde. Per dirla in altro modo il fatto di opposi alle decisioni del gruppo causa all’individuo forte spreco di energia nervosa. Tale spreco energetico soprattutto in soggetti che si trovano in uno stato di ipoergia nervosa (deficit di energia nervosa dovuta ad una serie di situazioni stressanti od ansiogene) può causare vari tipi di problemi psicologici. Proprio per evitare questi problemi psicologici che non sono dovuti alla ritorsione del gruppo ma alla struttura della personalità dell’individuo, l’individuo si autoconvince che il gruppo ha ragione e che la sua opposizione è priva di senso.

Dobbiamo dire che molto spesso tale autoconvinzione è dovuta solamente ad auto suggestioni e non è basata su motivazioni oggettive ma anche sulla necessità di evitare penosi sensi di colpa derivanti dal non essersi conformato alle decisioni del gruppo. Concludiamo il nostro articolo mettendo in evidenza che le forze centripete hanno soprattutto la funzione di preservare la realtà sociale condivisa dai membri del gruppo. Come afferma Festinger la costruzione di una realtà sociale condivisa è tipica di ogni gruppo che voglia avere una certa durata nel tempo.

Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Bibliografia

F. D’Agostino, Il codice deviante, Armado,Roma,1984;

G. Pellegrino, Una lettura sociologica della realtà contemporanea, New Grafic Service, Salerno,2003;

G.Pellegrino, I miti della società contemporanea, NewGrafic Service, Salerno, 2005;

G. Pellegrino, Una introduzione allo studio dei gruppi sociali, New Grafic Service,2004;

H.Reimann, Introduzione alla sociologia, Il Mulino, 1978;

P. Sneider, Psicologia medica, Milano, Feltrinelli,1988;

C. Speltini- A. Palmonari, I gruppi sociali, Il Mulino, Bologna, 1999;

P. Sneider, Psicologia medica, Milano, Feltrinelli,1988;

L. Zani, Psicologia e vita, Fratelli Fabbri Editor, Milano R.Wallace- A. Wolf, La teoria sociologica, Il Mulino, B. –


L’ASSEGNO UNICO E UNIVERSALE

di Martina Grassini

Tra le novità del 2021 nell’ambito della famiglia spicca una nuova misura, seppur attualmente non ancora in vigore: l’assegno unico familiare. Dal 1° luglio 2021 i nuclei familiari con figli a carico sino al ventunesimo anno di età dovrebbero poter godere di tale beneficio.

L’assegno unico e universale è previsto con cadenza mensile per ogni figlio nascituro a decorrere dal settimo mese di gravidanza, per ogni figlio minorenne a carico, per ciascun figlio disabile anche dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora risulti ancora a carico.

L’assegno sarà riconosciuto inoltre per il figlio maggiorenne a carico sino al compimento del ventunesimo anno di età. L’importo sarà però inferiore e potrà essere corrisposto direttamente al figlio qualora ne faccia richiesta, al fine di favorirne l’autonomia.

I requisiti per il figlio maggiorenne saranno i seguenti:

  • frequenza di un percorso di formazione scolastica;
  • svolgimento di un tirocinio o un’attività lavorativa limitata;
  • stato di disoccupazione;
  • svolgimento del servizio civile.

L’ammontare dell’assegno sarà modulato sulla base della condizione economica della famiglia (rilevate dall’ISEE) e potrà essere concesso sia nella forma di somma di denaro a cadenza mensile, che come credito d’imposta.

I richiedenti dovranno essere in possesso di alcuni requisiti quali:

  • residenza e domicilio con i figli a carico in Italia;
  • cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione europea;
  • soggezione al pagamento dell’imposta sul reddito in Italia;
  • residenza in Italia per almeno due anni consecutivi e/o titolarità di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o determinato di durata biennale.

L’assegno sarà riconosciuto ad entrambi i genitori, tra i quali verrà ripartito in egual misura o al soggetto che esercita la responsabilità genitoriale.

E per i genitori separati?

In caso di separazione legale o divorzio l’assegno, i genitori potranno concordemente decidere chi dei due avrà diritto alla fruizione. In mancanza di accordo il beneficio sarà corrisposto al genitore affidatario, mentre in caso di affidamento congiunto e condiviso, invece, l’assegno sarà ripartito in egual misura tra i genitori.

Avv. Martina Grassini

Comunicazione ed educazione nell’era dei new media: una prospettiva sociologica

di Michele Petullà

Parlare di comunicazione, oggi più che mai, vuole anche dire confrontarsi con luoghi comuni, credenze sedimentate e, più in generale, con il nostro sapere implicito su di essa. È abbastanza evidente, ormai, che oggi la comunicazione umana – con la continua e progressiva diffusione dei new media digitali – costituisce uno dei fenomeni più importanti e determinanti che caratterizzano la nostra vita sociale e la società tutta.

<<=== dott. Michele Petullà

Una realtà, questa, che, tanto nel dibattito specialistico quanto nel sentire comune, diventa spesso oggetto di critiche o esaltazioni – dividendo le posizioni tra apocalittici e integrati – circa il potere dei media di manipolazione e/o rappresentazione della realtà. Nell’analisi di questo fenomeno sociale, improntata secondo una prospettiva di carattere sociologico, pertanto, non si può prescindere dal fatto che la convivenza con i media è divenuta sempre più stretta e che, oggi, la dipendenza dai loro contenuti in-formativi è progressivamente aumentata. Attraverso il loro uso, infatti, ci teniamo in contatto con quanto accade nel mondo, acquisiamo informazioni e conoscenze, intratteniamo relazioni interpersonali – sia pure indirette e mediate – superando i tradizionali vincoli spazio-temporali.

In questo contesto, che è in continua e rapida evoluzione, anche il mondo della scuola, e dell’educazione in generale, è chiamato a confrontarsi con esigenze e realtà nuove, ridefinendo il suo ruolo e le sue pratiche educative. Buona scuola, da questo punto di vista, è sicuramente quella che è capace di formare ed educare donne e uomini che sappiano leggere ed interpretare i segni di questo tempo, cittadini di questo mondo – sempre più contrassegnato dalla comunicazione massmediologica digitale e virtuale – che bisogna necessariamente imparare ad abitare. La comunicazione, in ambito educativo-formativo, è l’essenza dell’azione didattica stessa. Secondo l’assunto di Paul Watzlawick – psicologo e filosofo, esponente della scuola statunitense di Palo Alto – “è impossibile non comunicare”: ogni atto umano è un atto di comunicazione, anche quando non espresso attraverso la parola; anche il silenzio è un atto comunicativo; i gesti e la postura parlano per noi; il corpo è una fonte silenziosa, ma molto efficace, di comunicazione non verbale. La comunicazione rappresenta la condizione fondamentale per la creazione di relazioni sociali.

Il docente, l’educatore di oggi, e ancor più quello di domani, pertanto, deve sapere utilizzare tutti gli strumenti della comunicazione e conoscere tutti i codici linguistici e di significazione che vengono utilizzati dagli allievi per comprendere, indirizzare, saper ascoltare, valorizzare, in una parola e-ducare, cioè portare a compimento e realizzazione le loro potenzialità. Questo moderno campo di indagine e pratica sociale, noto come Educazione Mediale (o Media Education, come di solito si preferisce dire nel dibattito specialistico internazionale), si colloca a cavallo tra la Sociologia dell’educazione e la Sociologia della comunicazione. Una prospettiva secondo la quale i media, soprattutto quelli digitali, producono cambiamenti consistenti nel modo in cui i soggetti modellano il proprio pensiero e lo condividono con i loro simili.

Tipica di questo schema è l’idea che i media producano la genesi di un nuovo tipo di pensiero, un pensiero “parallelo” che va a prendere il posto di quello “sequenziale” coltivato dalla scrittura e dalla stampa (è questo uno degli argomenti che hanno condotto Marc Prensky – scrittore statunitense, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento – a formalizzare la differenza tra “nativi” e “immigrati” digitali). Questo campo di ricerca (teorico-pratico, fatto di riflessioni e di azioni) potrebbe essere coperto anche dall’espressione “Pedagogia dei media”, intesa come elaborazione teorica, in prospettiva formativa, che assume i media come oggetto dell’azione educativa; una pedagogia, dunque, generata dalla cultura in cui i media sono i soggetti fondamentali.

C’è da dire che le ricerche condotte negli ultimi anni, sul duplice versante delle scienze della comunicazione e delle scienze dell’educazione, hanno messo in evidenza che esiste un profondo legame, di tipo circolare, tra i sistemi comunicativi (media) e i sistemi educativi. Da una parte i processi di formazione trovano sempre più nei media il proprio ambiente relazionale, per quanto riguarda la dimensione pratica della trasmissione del sapere (sul versante degli educatori, siano essi genitori o insegnanti o formatori) e la sua elaborazione (sul versante dei processi di apprendimento attivati dagli educandi); dall’altra parte i media vengono a loro volta “de-formati” e “in-formati” dalle dinamiche culturali originate dal sistema educativo come parte costituente e determinante di ogni cultura nel suo sviluppo storico-sociale.

La relazione tra comunicazione ed educazione, dunque, è ormai un dato di fatto, sempre più evidente è il ruolo determinante dei media come ambiente relazionale dei sistemi educativi. Questa relazione, inoltre, mette in gioco alcuni elementi teorici e pratici che hanno a che fare con i processi di formazione e di apprendimento e che sollecitano un’attenta riflessione sul carattere problematico dell’”educare nella società dei medi”. I new media, infatti, ci restituiscono una Società segnata dalla comunicazione non verbale e multimediale, caratterizzata da un flusso informativo continuo depositato su sistemi linguistici differenti, che coinvolgono suoni, immagini – fisse e in movimento – e testi scritti: una tale ricchezza segnica provoca una complessa ristrutturazione nella rappresentazione dei saperi, riorganizzando in parallelo anche il set mentale e le strategie cognitive dell’individuo.

Gli individui, di fatto, si nutrono dell’elaborazione culturale che abita nei mass media, rendendo tale sistema comunicativo lo spazio comune per la trasmissione degli orizzonti cognitivi e valoriali della società. Di fatto l’educazione dell’”oralità secondaria” vive nell’ibridazione tra ambienti formativi formalizzati (scuola) e ambienti (mediali) informali. Sempre più i processi formativi, anche quelli formalizzati, possiedono uno sfondo comune, quello mediatico, capace di dotare di nuovi significati l’esperienza socioculturale e di modellizzare i processi cognitivi.

Non è un caso che le cosiddette “agenzie educative tradizionali” (famiglia, scuola) – come generalmente riconosciuto, ormai, non solo dagli specialisti del settore – siano entrate, per certi versi, in crisi, perdendo il controllo dell’informazione educativa di fronte a un così potente concorrente. Il sistema mediale, infatti, si offre come spazio alternativo non formale, dotato di una pluralità linguistica e di una ricchezza rappresentativa che soddisfa la curiosità cognitiva delle molteplici intelligenze, anche se inevitabilmente porta alla contemporanea frammentazione/omogeneità dei contenuti informativi all’interno del flusso mediale, aprendo allo sviluppo di un pensiero più intuitivo rispetto a quello logico-argomentativo.

I nuovi media depositano su un solo supporto, sempre più miniaturizzato e personalizzato, tutta la molteplicità di codici rappresentativi in un unico ipertesto, che costituisce oggi l’ambiente comunicativo e cognitivo abitato non solo dai giovani. Un solo spazio comunicativo, nel quale convivono molti e diversi linguaggi, che apre a nuovi tracciati cognitivi. La struttura reticolare dell’ipertestualità e la sua plurilinguisticità rispecchiano non solo una nuova organizzazione dei saperi, ma anche una nuova idea di conoscenza. La natura connettiva e interattiva della Rete telematica (il ciberspazio) determina una serie di conseguenze nella riflessione odierna sull’educare: una nuova idea di alfabetizzazione, che tiene conto delle aperture connesse al leggere e allo scrivere nella Rete ipermediale; nuovi spazi “virtuali” di apprendimento, che provocano una tendenza alla delocalizzazione della “scuola”; la personalizzazione dell’apprendimento, che supera la standardizzazione dei processi imposti dalla struttura scolastica; il ripensamento del ruolo del docente, da intendere non più come colui che “scrive” nella mente dell’allievo (in-signum) ma come colui che allestisce situazioni atte a favorire/facilitare il processo di apprendimento (tutor), punto di orientamento nella vastità dell’informazione disponibile, orchestratore o regista della “drammatizzazione della comprensione”.

L’educazione mediale, pertanto, va contestualizzata oggi nell’ambito di una scena socioculturale in cui la presenza dei media digitali – dai media portabili, come il cellulare o l’iPod, agli applicativi del web 2.0, come i blog, Facebook e tutti i social media – è sempre più massiccia. Questa ricchezza del panorama che ci offre l’ambiente dei new media, ci pone di fronte a una realtà: la centralità del sistema neo-mediale nella costruzione della società e della sua cultura è oggi sempre più dominante. Un progetto educativo che abbia di mira la formazione della persona nella sua integrità non può, dunque, dimenticare una completa competenza mediale. Ciò vuol dire, in sostanza, che l’educatore contemporaneo dovrà possedere sempre più competenze da media educator.

Sulla base di questa prospettiva, l’Educazione mediale deve necessariamente declinarsi secondo tre prospettive fondamentali.

La prima è la prospettiva del Formare ai media digitali: assumerli, cioè, come oggetto della riflessione educativa per promuovere nei soggetti in formazione-educazione degli atteggiamenti di consumo corretti e, possibilmente, una consapevolezza critica al riguardo. Questa prospettiva è quella pedagogicamente più indispensabile. Essa fa riferimento alla riflessione e alla sperimentazione didattica riguardo ai media come risorsa integrale al servizio dei processi formativi-educativi e mira soprattutto alla promozione del senso critico dei soggetti. L’idea da veicolare è che i media non sono semplicemente una necessità cui tocca far fronte, ma un’opportunità cui non rinunciare; non sono una minaccia ai valori tradizionali della cultura, ma la possibilità di fornire ad essi una nuova articolazione; non sono una minaccia da cui difendersi, ma una risorsa cui attingere, sia pure con equilibrio e cautela.

La seconda prospettiva è quella del Formare con i media digitali: ricorrere ad essi come strumento, supporto per l’intervento formativo-educativo e veicolo dell’istruzione. I vantaggi di questa prospettiva vanno ricercati nelle possibilità offerte dal multimediale di operare attraverso una molteplicità di linguaggi, rompendo la monotonia della lezione frontale, innalzando i livelli medi di attenzione, moltiplicando i punti di accesso ai problemi.

La terza prospettiva è quella del Formare nei media digitali:assumerli, cioè, come contesto naturale di tutte le attività, come vero e proprio ambiente all’interno del quale l’attività di insegnamento/apprendimento avviene, secondo la logica implicita nel concetto di scuola digitale. Una scuola in cui la classe viene ripensata nei termini di una comunità di apprendimento, dove il computer, la LIM, i dispositivi mobili sono oggetto d’uso comune e non relegati a spazi deputati (l’aula informatica). A questo proposito giova fare riferimento a quella modalità particolare di formazione detta “a distanza”, che viene oggi indicata come online education: qui i media digitali sono realmente l’ambiente “in cui” si fa formazione; la piattaforma telematica, l’aula virtuale o il corso online costituiscono per gli studenti – che non condividono lo stesso spazio fisico – l’unico habitat all’interno del quale l’attività didattica si svolge, dove lo spazio dell’apprendimento è maggiore rispetto a quello dell’insegnamento, le attività di tipo collaborativo prevalgono rispetto a quelle di tipo trasmissivo e il docente assume più la funzione del facilitatore che di colui che trasmette le informazioni.

Queste prospettive, secondo cui intendere l’educazione mediale digitale, non vanno pensate in termini autoesclusive, ma vanno viste secondo un’ottica necessariamente integrata, tenendo a mente due indicazioni essenziali per ogni educatore: è necessario praticare e contestualizzare. Praticare, perché la debolezza delle idee di chi parla senza aver mai “navigato” una sola volta si vince solo facendo “navigare” e dimostrando che può essere un’esperienza produttiva dal punto di vista formativo-educativo. Contestualizzare, perché i media non vanno assunti come oggetto assoluto, ma sempre collocati nel contesto (socio-culturale) più appropriato, sullo sfondo di un ben preciso tipo di società e nella relazione con e tra i soggetti che concretamente ne fanno uso. Non esistono i media digitali: esistono i loro usi ed esistono le loro “ambientazioni sociali”.      

Michele Petullà, sociologo


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