Leonardo Sciascia, negli anni ’60, previde una “sicilianizzazione” dell’Italia. Detto da lui, siciliano doc, non si può certo avventarsi contro la dichiarazione.
Cosa intendeva il grande scrittore siciliano? Esattamente ciò che passa per la mente leggendo il termine: considerò che i metodi clientelari, ma anche legati a un sistema mafioso che fa parte del tessuto regionale siculo, col passare del tempo sarebbero stati sdoganati nel resto d’Italia.
<< == dott./ssa Emilia Urso Anfuso
Previsione
azzeccata. In mezzo
secolo di storia l’Italia si è sicilianizzata. La politica ha
perso il lume della ragione, complice un periodo storico – che faccio risalire
ai “dorati anni ‘80” – che servì da aperitivo di apertura per un pranzo assai
poco digeribile: l’avvento di una crisi che, oggi, si pensa essere scoppiata
nel 2008 ma che ha radici più antiche.
Gli anni ’90 non
furono la continuazione del decennio precedente, pervaso da un senso di pseudo
benessere. Gli ’80 furono solo una pausa doverosa tra il periodo di boom economico degli
anni ’60 – che seguì al lungo trascorso di miseria post bellica – e la guerra civile degli anni ’70.
La vera crisi iniziò negli anni ’90, con la popolazione schiavizzata attraverso
le predazioni economiche (non dimenticate mai il governo Amato del ’92), e da
un sistema
burocratico paradossale che è servito a contribuire
alla sicilianizzazione:
se, per fare un esempio, un contribuente deve diventar pazzo per ottenere la licenza
per un esercizio commerciale, si fa prima a proporre una serie di mazzette a
chi di dovere, ed ecco che le pratiche si velocizzano…
Purtroppo, quando
fai assimilare a una popolazione la sensazione che tutto vada bene, che ci sono
ricchezza e opportunità per tutti, sono necessari anni affinché la gente apra
gli occhi e si accorga che la situazione si è ribaltata. Va anche detto che nel
DNA dell’italiano medio alberga un elemento: quello che gli fa voltare sempre
la testa dal lato opposto alla realtà delle cose. Sognatori, che divengono
vittime di se stessi.
Tornando a Sciascia, è meritevole
la lucidità con cui riuscì – in tempi non sospetti – a comprendere verso dove
si stesse andando. Leggete questo passo, tratto dal libro “Il giorno della civetta”
pubblicato con Enaudi nel 1961: “Forse
tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo
sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che
la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della
palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La
linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè
concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea
della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già,
oltre Roma”…
Ed è già oltre Roma…
In tempi più
recenti qualcuno ha iniziato a usare un altro termine che ha, però, il medesimo
significato: messicanizzazione.
Uno dei personaggi che con maggior frequenza lo utilizza è l’economista Alberto Forchielli, un
caro amico di cui ho delineato il ritratto in questo
articolo pubblicato su Libero.
Non cambia il
senso delle cose: il Messico è
tra le nazioni col più alto livello di delinquenza e corruzione. Tutto o quasi
passa attraverso il potente locale. La popolazione ne è schiava, perché dove
alberga il caos in seno alla politica, non si può far altro che rivolgersi
a chi ne prende il posto a livello territoriale.
I politici sono
ormai bulimici di potere e denaro. Tutto diviene fonte di potere e denaro:
il crollo di un ponte con tanto di vittime, uno stato di emergenza, la
costruzione di uno stadio, un terremoto…
I passaggi sono
sempre gli stessi: i poteri
in deroga, che cancellano di colpo gli obblighi normativi
vigenti e permettono di accedere ai fondi del Tesoro senza doverne spiegare il
motivo. Un caso per tutti: il post sisma in Abruzzo del 2009. Attraverso i
“poteri in deroga” il governo in carica ebbe libero accesso al denaro pubblico,
che fu sperperato in migliaia di rivoli, con motivazioni spesso private.
Poi ci sono gli
appalti, che non saranno mai concessi alle aziende sane, perché a controllare e
gestire ci sono le organizzazioni malavitose che si dividono questa
larga fetta di economia nazionale.
E i cittadini?
Soccombono. Non
possono fare altro perché non vogliono fare altro. In qualche
modo si torna in Sicilia, stavolta però devo citare Tomasi di Lampedusa, che in
una parte del suo “Gattopardo” fece dire a Tancredi, nipote del Principe di
Salina, la famosa frase: “Se
non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e
quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Non a caso, Giuseppe Tomasi di Lampedusa era siciliano…
Sono passati diversi anni da quando la filosofa, Hannah Arendt, pubblicò La banalità del male(1) , eppure la forza di alcune sue considerazioni, non ha affatto perso il suo smalto.
<<== dott. Davide Costa Sociologo
Il titolo dell’opera fa, per così dire, da corollario di un vero e proprio paradigma, ossia una lente secondo la quale il male è così connaturato nella società, tanto da essere banale, scontato, ineliminabile, andando ben oltre la mera ipostatizzazione filosofica. Al di là del bene e del male, oggi più di ieri, e forse ancora di più , domani, vi è una nuova(poi non così tanto) forma di banalità, la banalità del mediocre.
Ora la nozione mediocre trova la sua origine, in termini sociologici, nelle cosiddette norme statistiche, ossia strumenti per i quali viene considerato normale ciò che si verifica con una certa frequenza, o più semplicemente, in media. Ciò che è mediamente presente, però, non è necessariamente esaltante e produttivo, eppure è sempre più naturale che tutto sia nella media, al punto tale che il mediocre diventa il genio e il genio viene escluso. Si tratta di un meccanismo ormai endemico e cronico, che trova il suo locus originario nel concetto di naturalizzazione (2) da parte dell’ordine culturale; la naturalizzazione, così, non solo fa in modo che sia accettabile, ma soprattutto si avvale di un processo, che in realtà è il fondamento dell’accettazione, ossia il nascondimento dell’origine meramente convenzionale della banalità, per farla, invece, inquadrare come normale, naturale.
Così l’ordinario diventa straordinario, e l’eccezionalità scivola in spazi sempre più ristretti, poiché l’ordinario, il mediocre, il rutinario è sempre più obeso. Vi è, però, l’elemento genetico per eccellenza di questa banalizzazione naturalizzata del mediocre, ossia il senso comune, che possiamo definirlo come quel “(…)fondo di evidenze condivise da tutti che assicura, nei limiti di un universo sociale, un consenso primordiale sul senso del mondo, un insieme di luoghi comuni(in senso ampio) tacitamente accettati, che rendono possibili il confronto, il dialogo, la concorrenza, persino il conflitto.”(3) In questo modo, dunque, il mediocre, viene dato per ovvio, per scontato tanto che pur essendo un fatto sociale, ottiene “(…)la stessa ‘naturalità’ del fatto naturale”(4) .
Posta in questi termini la questione diventa annosa, perché? Per via del fatto che la forza del senso comune e del rendere l’ordinario straordinario comporta due conseguenze fondamentali: 1) si riduce sensibilmente l’interesse verso il perseguimento di mete ambiziose, dal momento che i meccanismi imitativi verso la mediocrità sono particolarmente “virulenti”, cioè si trasmettono e replicano molto facilmente; 2) si verifica una sorta di meccanismo, che i sociologi della devianza di matrice integrazionista, definirebbero come l’esclusione dell’eccezione. Si tratta, a dire il vero, di due problematiche interdipendenti ed interconnesse, poiché entrambe portano al medesimo esito: l’appiattimento presociale, ossia individuale, prima, e poi sociale e dunque collettivo, verso ogni forma di avanzamento o miglioramento.
Potrebbe essere questo il motivo per cui spopolano gli influencer a vantaggio di una buona lezione o lettura di discipline teoretico-riflessive. La mediocrità è più accessibile, è alla portata di tutti, non richiede sforzi, anzi, è free e light. Heidegger, con la sua filosofia, che ci permettiamo di definire, sociologicamente orientata, ha definito con molta lungimiranza questo topos, parlando del Si(Man) (5), come il luogo in cui “(…) Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è subito dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto per la sua forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale tendenza dell’Esserci(l’individuo): il livellamento di tutte le possibilità di essere”(6) . Il Si heideggeriano è il calderone della medietà e della mediocrità, che porta ad un’ulteriore patologia sociale, ovvero la deresponsabilizzazione (7), e con essa si perde la capacità di percepirsi parte di un noi in un luogo di io.
Così “(…) Ognuno è gli altri e nessuno è se stesso” (8) e ciò che governa ogni azione sono elementi non proprio vantaggiosi: la chiacchiera(gerede), la curiosità(neugier) è l’equivoco(zweideutigkeit) (9) . • nella chiacchiera si altera il significato primo di ogni concetto e di ogni idea, tanto da rendere completamente diversa la semantica dei termini; • nella curiosità l’elemento centrale è l’incapacità di riflettere profondamente, una sorta di iperattività basata sul pettegolezzo; • con l’equivoco ci si convince che tutti possano fare tutto, e ognuno è il migliore, non del soggetto più prossimo di chiunque sia prima e dopo di lui. Come sfondo a tutto ciò, però, vi è una situazione sociologicamente fondamentale, ovvero il dominio che la mediocrità e/o il Si mediano, rispetto all’eccezione, alla deviazione, al diverso. Un rapporto di dominio, che in realtà, sottende e mostra, la prevalenza della cultura dominate o d’élite su quella minoritaria o marginale, che ricorre, però, alla cosiddetta violenza simbolica che possiamo definirla come “(…) quella coercizione che si istituisce solo per tramite dell’adesione che il dominato non può mancare di concedere al dominante(quindi al dominio) quando dispone per pensarlo e pensarsi(…) in altri termini quando gli schemi impiegati per percepirsi e valutarsi, o per percepire e valutare i dominanti(…)sono il prodotto delle classificazioni così naturalizzate, di cui il suo essere sociale è il prodotto” (10).
Questa forma di violenza, così, spiega il motivo per cui la mediocrità dilaga, mentre l’eccezionalità è destinata a nascondersi, a fingere di non esserci, per farsi notare di tanto in tanto. Forse l’invito di Nietzsche per cui sia necessario rifugiarsi nella solitudine (11), potrebbe essere accattivante, ma ciò significherebbe rinunciare al vantaggio che l’eccezione, nonostante gli ostacoli che questa incontra, media: mettere in discussione tutto il sistema della banalità, dell’ordinario, per proporre lo straordinario, per cercare di stimolare l’uomo normale “(…)che non da fastidio a nessuno, che si adegua nelle conversazioni e che è accettato dal suo ambiente medio,(….)-un-individuo psicologicamente mediocre e sociologicamente iper-adattato nella civiltà della banalità,(…), pieno di “maschere mentali” per ogni occasione” (12). Probabilmente dovremmo prendere esempio dalla nonna, il personaggio principale del film “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek che si definisce “mina vagante” ed avere il coraggio che questo concetto sottende: “La mina vagante se né andata, così mi chiamavate, pensando che non vi sentissi, ma le mine vaganti servono a portare il disordine a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a sgominare tutto, a cambiare i piani”.
NOTE:
[1] H. Arendt,
La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1992
[2] M. Benedittis, Sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari, 2013
[3 P. Bourdieu, Mediazioni pascaline, Feltrinelli, Milano, 1998 p. 104
[4] P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza. Fra abitudine e il dubbio, Carocci Editore, Roma, p. 41
[5] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2007
[6] M. Heidegger, op. cit., pp158-159
[7] U. Pagano, L’uomo senza tempo, FrancoAngeli, Milano, 2011
[8] M. Heidegger, op. cit., p.160
[9] M. Heidegger, op. cit.
[10] P. Bourdieu, op. cit., p.179
[11] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Demetra, Firenze, 2017
[12] G. Cicchese e G. Chimirri, Antropologia dei conflitti e relativismo morale, in Elementi di sociologia dei conflitti, a cura di B. M. Bilotta, Cedam, Milano, 2017, p. 209
Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Ancora oggi molti affibbiano questa frase a Voltaire, ma è un errore tra i troppi che oggi si compiono, per ignoranza e superficialità. La frase è da attribuire alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che nel suo libro “The friends of Voltaire”, pubblicato nel 1906, commise una sorta di errore di cui poi si scusò: mise tra virgolette la famosa frase, che in tal modo fu attribuita a François-Marie Arouet, il cui pseudonimo è Voltaire.
<< == dott./ssa Emilia Urso Anfuso
Oggi dovremmo vivere in una società moderna, ripulita dalle
costrizioni del passato, dalle chiusure mentali derivanti, anche, da contesti
storici in cui il diritto umano, o concetti quali la libertà di espressione e
di pensiero erano impensabili. Invece ci ritroviamo immersi in un pantano
soffocante, privati della libertà di esistere se solo ci azzardiamo a meditare
sui fatti che accadono nel mondo attivando la capacità critica, divenuta ormai
mercanzia rara.
Una sorta di riforma della democrazia è avvenuta senza
scomodare costituzionalisti e parlamentari, perché è stata acclamata a
maggioranza dal popolo, che diviene sovrano solo nel momento in cui la massa
non riesce a progredire e preferisce condividere un pensiero unico, metodo
assai più semplice e meno stancante del dover utilizzare i neuroni ed attivare
le sinapsi.
Per avere una riprova di questo stato di cose oggi possiamo
analizzare i comportamenti di un gran numero di persone grazie ai Social
network. Guai a dissentire dalle convinzioni comuni e su qualsiasi tema. La
calda e comoda cuccia del rigido pensare comune, dettato con metodi sapienti da
chi governa il paese, è difficile da abbandonare per chi ha scarsa propensione
alla curiosità, allo spirito critico, alla ricerca della verità.
Pensare pesa e stanca il cervello di chi ne è fornito in scarsa misura. Essere trainati dal mucchio salva non intende perder tempo a ragionare, analizzare e riflettere. Il pensiero comune è la cura all’ignoranza, all’incapacità di mettere insieme un ragionamento proprio. È l’espressione di un sistema che si riempie la bocca di frasi fatte, o dette da altri, che fanno scena e mettono a riposo la mente e la coscienza. Se diverremo tutti uguali, non sarà necessario combattere per un ideale diverso. Se ci omologheremo al pensiero comune, non avremo necessità di agire. Quanta pochezza in queste assolute convinzioni.
Oggi, se non vuoi rischiare l’emarginazione – seppur in
forma virtuale – dalla società civile, devi evitare di esprimerti liberamente,
devi evitare di regalare le tue riflessioni attente e meditate ai cittadini di maggioranza,
che possono “democraticamente” disattivarti dal mondo parallelo sul web
chiedendo la tua estromissione, temporanea o perenne, dai Social network. Che
puntualmente approvano l’istanza.
Parallelamente, chi gestisce questi contenitori virtuali di varia umanità, non procedono mai contro i violenti, contro chi ingiuria pubblicamente, contro chi non permette la libera espressione del pensiero. Il popolo della maggioranza, composto da quelli che hanno il coltello dalla parte del manico per il fatto di pensare poco con la loro testa e quindi sono elementi perfetti in un sistema imperfetto, ha vinto. Non sanno di aver vinto contro se stessi. Per costoro l’importante è stare dalla parte della maggioranza, senza mai chiedersi se stanno dalla parte giusta.
La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive. Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.
Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106 pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri, Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro).
Prof. Patrizio Paolinelli == >>
Entrambi gli autori polemizzano violentemente con
le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di movimento dei
cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non negano la
pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento del
virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali
sarebbero? Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica,
ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita
biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in
corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica
quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi
sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari
degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali,
ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di
spostamento sul territorio.
Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore. Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali.
Andrea Miconi è assai vicino alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima sociale. Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.
Ma torniamo a Miconi. Il
succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una
strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della
classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha
preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione
pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le
élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione
degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato
a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata
in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare
è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione.
Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei
servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva,
per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la
normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la
possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali
senza subire alcun scossone.
Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro).
A differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti).
L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione
dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci
costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia
mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del
capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda
sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti.
L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione
costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante
la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai
generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli
eventi con la realtà effettuale delle cose. C’è poi un altro aspetto che lascia
ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano
il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla
mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti
critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non
indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante
scrittura.
L’ultimo tascabile della nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro).
Il libro è composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2) numerosi colossi dell’economia non sarebbero neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare e sopravvivere.
Il timore della Mazzucato è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al decesso. E allora come intervenire? La ricetta della Mazzucato prende le mosse dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere il Covid-19.
Non solo: gli enormi stimoli all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione.
Per la Mazzucato la
pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso
dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo
di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti
statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore,
plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al
servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori,
rivedendo il sistema fiscale e così via. Come si vede le proposte della Mazzucato sono
piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non
accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe
rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e
conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia
del capitale.
Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro (2021).
La letteratura sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in particolare sulle “competenze digitali” e l’e-learning, è ormai abbastanza ampia, anche in Italia. Tuttavia, una pur rapida rassegna mette in evidenza una “scarsa speculazione teorica ed empirica” riguardo al tema delle ICT e delle loro “ricadute sul soggetto, sulle organizzazioni e sui sistemi educativi” (S. Capogna, 2014).
<<== Dott. Michele Petullà
La maggior parte dei lavori di studio e ricerca in quest’ambito, inoltre, sembrano essere orientati verso l’analisi degli aspetti prettamente tecnici e didattici, a discapito di uno sguardo più specificatamente sociologico.Un approccio più squisitamente sociologico al tema dell’e-learning (in particolare della sociologia dell’educazione), e ai problemi ad esso connessi, suggerisce di collocare la trasformazione tecnologica all’interno delle esperienze di rinnovamento in atto nei sistemi formativi, seguendo una lettura alla luce delle principali teorie che sono state formulate sulle istituzioni e i processi educativi.
Il punto centrale, da cui partire, è il progressivo affermarsi, in forme sempre più corpose ed efficaci, della Formazione a Distanza (FAD), di cui l’e-learning costituisce lo sviluppo più recente e l’espressione più avanzata, che assume via via un ruolo centrale nella diffusione del sapere e nella creazione delle competenze, rompendo l’unità di luogo e la sequenzialità di contenuti che caratterizzano la formazione tradizionale, “in presenza”.
Alla base di questa trasformazione c’è sicuramente l’evoluzione delle Information CommunicationTechnology (ICT), che hanno visto il passaggio da una comunicazione intesa come “informazione” a una comunicazione concepita come “partecipazione”.
La maggior parte delle ricerche in questo ambito mostrano, infatti, che non è tanto la tecnologia in sé, quanto la connettività a modificare sia le strutture di apprendimento sia le aspettative di chi apprende. A questo proposito si parla, non a caso, di connected minds per indicare il modo con cui i ragazzi si rapportano alle nuove tecnologie, che è influenzato non tanto dal supporto tecnologico quanto dalle dinamiche che operano all’interno della Rete e delle comunità di apprendimento da esse generate (V. Pandolfini, 2010).
Questa realtà, per essere pienamente e adeguatamente compresa, però, richiede di essere esaminata alla luce delle teorie pedagogiche, certamente, ma anche, e necessariamente, sulla base delle prospettive sociologiche nei confronti dei sistemi di apprendimento mediati da supporti tecnologici e dei loro risultati. Una serie di ricerche mostra il permanere, all’interno di questa situazione innovativa, del riprodursi di dinamiche consolidate, in quanto il digital divide è sensibile alle differenze di capitale culturale, di genere, di etnia; un esame dell’attività degli studenti in rete, d’altra parte, indica che i cosiddetti “nativi digitali” non sono affatto un’entità compatta, ma evidenziano rilevanti differenze sia di utilizzo sia di competenze acquisite (M. Filandri, T. Parisi, 2013).
Il fattore principale nello sviluppo della comunicazione, da circa quindici anni a questa parte, è quello che viene definito “ibridazione-contaminazione”; un processo attraverso cui i tre settori fondamentali della comunicazione (telefonia, televisione e computer) operano in stretta sinergia, secondo una prospettiva di integrazione. Ciò ha causato diversi fenomeni di tipo prettamente sociale e di rilevanza sociologica, come per esempio l’estensione del sé attraverso la tecnologia, lo slittamento del confine fra pubblico e privato, la costruzione della propria identità in un contesto di esperienze in cui reale e virtuale non differiscono in modo preciso, una significativa trasformazione del senso del tempo e dello spazio (S. Capogna, 2014). I termini “ibridazione” e “contaminazione” ricorrono spesso ormai nella relativa letteratura, accanto alla riflessione sull’antica abitudine della scuola italiana di distinguere fra cultura “alta”, lineare e testuale, e la cultura “bassa” della reticolarità e della costruzionepartecipata, nonostante la sua crescente affermazione.
Nel complesso, si può affermare che il sistema educativo italiano sembra non essere ancora in grado di misurarsi adeguatamente con le sfide poste dai modelli alternativi che si sono ormai largamente affermati nel mondo dell’extrascolastico. Inizialmente, le tecnologie sono state adattate ed utilizzate semplicemente come modalità più efficienti per trasmettere contenuti e metodi tradizionali, senza rendersi conto che “il medium è il messaggio” (McLuhan), e un nuovo mezzo di trasmissione del sapere avrebbe inevitabilmente messo in crisi anche le metodologie didattiche e il tipo di sapere trasmesso, o quantomeno il suo ruolo sociale. Si tratta di un “approccio senile all’innovazione”, come viene definito, che considera le ITC semplicemente come uno strumento per fare meglio, più rapidamente e a un costo minore quello che si è sempre fatto (V. Spiezia, 2010), anziché pensare ad esse come ad un ambiente tecno-sociale da vivere, all’interno del quale e per mezzo del quale, ridisegnare il proprio essere nel mondo.
Una ormai ampia e autorevole
letteratura, d’altra parte, attesta che seppur le nuove tecnologie sono
indispensabili per i percorsi di insegnamento volti allo sviluppo di competenze
digitali, per realizzare la cosiddetta media
education, e rappresentano una risorsa imprescindibile per l’e-learning, con cui siamo ormai
obbligati a misurarci, è necessario sottolineare che, nella sostanza, è la
metodologia didattica opportunamente adottata a fare la vera differenza per
l’apprendimento, e che ogni tecnologia è potenzialmente in grado di generare
rilevanti riflessioni educative o di trasformarsi in “mind tools” (strumenti mentali), se si è in grado di coglierne le
potenzialità (Bonaiuti, Calvani, Menichetti, 2017).
La Formazione a Distanza, di cui
l’e-learning è la versione più
attuale, non richiede, dunque, semplicemente la presenza di strumenti e le
competenze tecniche legate al loro uso, ma richiede anche specifiche competenze
cognitive e relazionali che andrebbero meglio indagate facendo uso delle teorie
pedagogiche e sociologiche di riferimento. In questo contesto, si possono
considerare sicuramente come esperienze positive, pertanto, quelle in cui si è
capito che adottare un sistema di e-learning
comporta sostanzialmente un ripensamento generale del modello pedagogico e
delle metodologie di progettazione degli ambienti di apprendimento, e che il
valore aggiunto di un ambiente integrato di formazione non può risultare dalla
semplice sommatoria dei vantaggi dell’apprendimento in presenza e di quelli
dell’apprendimento in rete.
In un contesto in cui l’apprendimento a distanza e la trasformazione dei processi stessi di apprendimento, legati alla costruzione di un sapere partecipato in rete, secondo uno sviluppo delle logiche “costruzioniste”, rappresentano molto probabilmente un punto di non ritorno, diventa particolarmente importante e necessario quel lavoro di progettazione strategica e di riflessione critica, di vision, che è fin qui quasi del tutto mancato nelle politiche educative in Italia.
Emerge, dunque, e la relativa letteratura lo conferma, la necessità di una riflessione a tutto campo, secondo una prospettiva interdisciplinare, che comprenda anche gli aspetti sociologici della questione, sugli usi didattici dell’e-learning, in quanto l’esito con cui ci approcciamo ad esso può dare esiti diversi. Per questo è importante conoscere e sperimentare questi ambienti tecno-sociali (S. Capogna, 2011) per poter meglio gestire la relazione con loro e le relazioni/comunicazioni per cui ce ne serviamo.
A questo proposito, è bene ricordare anche che già nel 2006 il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hanno emanato la “Raccomandazione sulle Competenze Chiave” per il lifelong learning (OECD, 2006), che ha introdotto un nuovo framework per delineare le competenze di base necessarie per poter esercitare in pienezza il diritto di cittadinanza attiva nella società contemporanea: per la prima volta si fa esplicito riferimento, tra le competenze chiave, alle competenze digitali (A. Calvani, 2009).
Questa necessità si colloca e si sviluppa in quello spazio scientifico di incontro che accomuna gli sviluppi della sociologia (della sociologia dell’educazione in particolare), delle scienze della comunicazione e della pedagogia, tutte discipline direttamente interessate, sia pure con interessi diversi, dalla radicale trasformazione che gli old e i new media hanno portato all’interno dei sistemi sociali ed educativi (G. Gili, 2003). I suddetti ambiti teorici, e in particolar modo la sociologia, si sono avvicinati a questo dibattito con un significativo ritardo rispetto ad altri campi di studio. Si evince, infatti, un ritardo e una scarsa speculazione teorica ed empirica riguardo al tema delle ICT e delle loro ricadute sul soggetto, sulle organizzazioni e sui sistemi educativi.
Dal punto di vista sociologico, un aspetto molto importante sarebbe quello di comprendere, da un lato, le potenzialità di questi ambienti tecno-sociali per i sistemi educativi (Y. Punie, 2007), dall’altro, le ricadute sul soggetto e i nuovi interrogativi che queste sollecitano per una riflessione sociologica più attenta alle nuove dinamiche sociali prodotte da tali tecnologie (M. Colombo, P. Landri, 2009). Si avverte, dunque, la necessità di un approccio teorico/speculativo al problema secondo uno sguardo più prettamente sociologico (L. Ribolzi, 2012). La sociologia, e la sociologia dell’educazione in particolare, infatti, non studia semplicemente i fatti o i processi educativi, ma studia anche e soprattutto il legame che questi hanno con il più ampio sistema sociale e con i diversi aspetti o dimensioni costitutivi della società.Studiare questo rapporto educazione-società, inoltre, comporta anche l’analisi delle sue trasformazioni riguardo ai cambiamenti sociali, culturali, economici e tecnologici che incidono in maniera significativa sulla struttura sociale e sulle sue istituzioni.
Il contributo particolare e precipuo della sociologia nello studio della Rete, e delle sue implicazioni socio-educative, dunque, è quello di entrare nella “scatola nera” dell’e-learning, e più complessivamente delle ICT a uso didattico.Da questo punto di vista è possibile individuare quattro aree principali di studio della sociologia dell’educazione:
– analisi delle relazioni del sistema educativo con altri settori della società (cultura, politica, economia, ecc.);
– influenza della comunità e delle diverse agenzie di socializzazione sull’organizzazione scolastica;
– analisi dell’influenza della scuola sul comportamento e sulla personalità dei suoi membri (corpo docenti in particolare);
– studio delle relazioni dentro la scuola (nel gruppo classe, tra docenti, tra docenti e discenti, ecc.).
La sociologia, pertanto, può indirizzare i suoi studi a diversi livelli di complessità: a livello macro (comprendere il sistema educativo nelle sue relazioni con la società, rispetto, per esempio, al sistema di valori, al sistema di stratificazione sociale, ecc.), a livello meso (modo in cui si configurano la struttura sociale e il funzionamento dei gruppi che costituiscono il sistema scolastico al loro interno o nelle relazioni inter-organizzative), a livello micro (analisi delle relazioni sociali che si estendono all’interno delle attività educative: funzionamento della classe, relazione docente-discente, gruppo dei pari, ecc.) (S. Capogna, 2014).
Concludendo, si può dire che i più significativi e rilevanti contributi teorici maturati nell’ambito della sociologia, con riferimento al tema dell’apprendimento e dell’e-learning in particolare, hanno posto l’attenzione sulle criticità e sulle opportunità connesse a questa nuova e diversa modalità di azione educativa. La riflessione sociologica, in questo campo, si è sviluppata intorno a tre questioni principali:
– aspetti sociali della tecnologia (ricadute sulle organizzazioni e sul lavoro, sui soggetti, sulle politiche);
– trasformazione del “capitale culturale” (P. Bourdieu) al tempo del web, in relazione anche al tema del digital divide;
– tema delle disuguaglianze (in rapporto alle possibilità di accesso alla Rete).
Emerge, dunque, la necessità di studiare le tendenze attuali del fenomeno, per comprendere come l’idea di e-learning possa e debba ridefinire alcuni concetti chiave dal punto di vista del metodo. La sociologia di Internet, o della Rete, da questo punto di vista, ne è un esempio: i comportamenti e le abitudini legati alla Rete possono configurare nuove strutture nell’offerta di insegnamento e nuove/diverse modalità di apprendimento, con indubbie ricadute sulla socialità delle relazioni.
Leggendo le storie di Sacks nel suo saggio “l’uomo che scambio’ sua moglie per un cappello”. Mi sono emozionata e al tempo stesso ho avuto la sensazione che le malattie e le persone sono insieme.
<<== Dott./ssa Carmela Cioffi -sociologa
Sacks il medico sognato e mai incontrato, quell’uomo che appartiene insieme alla Scienza e alla malattia, che sa far parlare la malattia, che la vive ogni volta in tutta la sua pena e la trasforma in un intrattenimento da Mille e una notte. Molti critici cosi hanno definito le sue storie: “un intrattenimento da Mille e una notte” ., casi clinici che vengono da pensarle semplici storie di persone particolari descritte con un tono romanzesco ma pur riferenti la condizione umana più friabile che è quella della sofferenza.
Sacks nelle sue storie racconta il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarità attraverso un processo di convivenza al disagio. La sua abilità è che lo fa con grande competenza professionale e più di tutto con grande umanità oltre che con sensibilità di narratore cogliendo le più sottili sfumature di ogni singolo individuo. Mi ha dato da chiedermi com’ era in generale il suo mondo, quello di Martin. Era piccolo, gretto, cattivo e buio. Il mondo di un ritardato irriso ed emarginato da bambino e relegato con disprezzo da adulto, il mondo di uno che non si considerava ne veniva considerato come tutti gli altri.
In un’altra delle sue storie, ho notato la profondità dei
gemelli si poté esplorare solo nel momento in cui si smise di sottoporli a
continui Test e di vederli come soggetti da studiare, solo vedendoli come persone,
osservandole apertamente senza preconcetti, guardandoli mentre vivono, pensano;
si poté scoprire ciò che possedevano di cosi misterioso. La cosa più entusiasta
che in nessun caso ho mai avuto la percezione che queste persone
“anormali” fossero pazze, ma sempre persone speciali, non si scorge il
dramma ma sempre e solo il lato positivo perché speciali sono agli occhi di chi li racconta. È la sua
accattivante umanità, la sua capacità affabulatoria e insieme divulgativa che
rende esemplare questo medico , il suo rigore scientifico difronte le patologie che nei casi descritti nel suo
saggio trova sempre la diagnosi.
Non è la malattia mentale vista come biologica in sé a fare
stimolare il mio pensiero ma le acute e profonde riflessioni verso le
quali sa condurmi l’abile medico. Come in ognuno di noi possa emergere un
talento che può farci sentire speciali nonostante la malattia. In esso non ho
mai intravisto casi , ma persone e non esistono ostacoli che non possano essere
superati se sappiamo vedere oltre la disabilità e la malattia. Come se ognuno
di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore la cui continuità , il cui senso è la nostra
vita, ognuno di noi costruisce e vive un
racconto. E che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Abbiamo
bisogno di questo racconto, di un racconto interiore per costruire la continua
sua identità.
Ogni volta che il nostro dottore è chiamato ad esaminare una
persona diversa, una persona più bizzarra dell’altra e ogni volta sperimenta
soluzioni azzardate e geniali per porvi rimedio. Il metodo deduttivo di Dr.House lo abbia reso non meno affascinante
di Sherlock Holmes. Per concludere posso dire che il mondo dei semplici, i
cosiddetti ritardati ma sempre e solo
persone e non casi, vivono in un mondo che è semplice perché è concreto.
Le stimolazioni del sistema del cervello permettono all’immaginazione e alla memoria di trasportare altrove una persona.Il merito non ultimo, del dottore Sacks è che non usa mai una lente pietosa ma sempre curiosa trasformando le sue storie in storie per tutti, sia per gli addetti ai lavori che non. In definitiva, il dottore che tutti hanno sognato e mai incontrato: questo è Sacks!
La Generazione Z è stanca dei social network? La domanda corre da un po’ di tempo sulla stampa e tra gli esperti del marketing. Il fatto che due tra i principali sistemi di potere della nostra società drizzino le antenne significa che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Il che costituisce un campanello d’allarme visti i cospicui interessi in gioco, economici e politici. Come stanno esattamente le cose?
Intanto occorre dire che la Generazione Z comprende i nati dalla seconda metà degli anni Novanta fino al 2010 (dopodiché prende corpo la generazione Alpha). I ragazzi della Generazione Z sono in larga misura i figli della Generazione X (nati tra il 1960 e il 1980). Mentre quest’ultima pare fosse particolarmente tormentata e piena di interrogativi irrisolti (in proposito basti leggere il magnifico romanzo di Dougals Coupland, “Generazione X. Manuale per una cultura accelerata“, Interno Giallo, Milano, 1992), la Generazione Z ci è presentata dal marketing, dalla stampa e da numerosi youtuber come più ottimista, perdutamente innamorata delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e assai poco turbata della propria esistenza. Pochissimi – e molto timidamente – accennano al fatto che sin dalla nascita questi ragazzi vivono in famiglie che annaspano tra una crisi economica e l’altra. In generale per gli esperti di marketing l’ottimismo della Generazione Z proviene prevalentemente dai nuovi miti dell’economia immateriale, dalla facilità di viaggiare in lungo e largo per il mondo e dalla possibilità di acquistare senza sosta nuovi prodotti – tanto più se high tech.
Disegnato questo primo quadro occorre porsi una domanda: esiste davvero la Generazione Z? In una certa misura sì e in misura assai maggiore no. Sì perché tale etichetta esprime delle tendenze effettive (ad esempio il diffuso utilizzo dell’elettronica di consumo da parte dei teenager, che tuttavia non è uguale per tutti), no perché la realtà del mondo giovanile è molto più complessa di come viene presentata e non si esaurisce minimamente in questa come in altre classificazioni similari. A inventarle è il marketing generazionale sostenuto da un’acritica stampa e da riviste specializzate in tecnottimismo (ad esempio Wired). D’altra parte, la lettura del comportamento dei consumatori in termini di fasce d’età è un’antica pratica da parte degli specialisti che si occupano di vendere merci e servizi per mercati di massa. Per tale motivo uno dei loro compiti principali è quello di raccogliere il maggior numero di informazioni sui consumatori per poi indurli all’acquisto: abitudini, atteggiamenti, preferenze, stili di vita e così via. L’obiettivo non è quello di rendere migliore la vita delle persone ma di farle spendere il più possibile. Peraltro, nel caso della Generazione Z (come delle altre), si omette sistematicamente di ricordare che il denaro dei ragazzi proviene dal portafoglio dei genitori. Omissione che fa il paio col fatto che di solito i maggiori esperti di marketing generazionale lavorano per grandi aziende che distruggono il presente e il futuro di quegli stessi giovani che coccolano a parole non pagando le tasse, devastando l’ambiente, offrendo loro prodotti spesso dannosi per la salute e altrettanto spesso spudoratamente costosi rispetto a quel che realmente valgono. Chissà perché nella società della comunicazione e dell’informazione nessun consumatore sa quanto costa all’origine il prodotto che acquista.
Chiarito il fatto che le generazioni individuate dal marketing non costituiscono un dato naturale ma sono un costrutto delle grandi aziende, quali sono le caratteristiche principali che contraddistinguono la Generazione Z? Le risposte a questa domanda possono variare sensibilmente in relazione al prodotto da vendere e alla relativa immagine da cucirgli addosso. Spesso però incontriamo veri e propri inganni. Ad esempio in diverse ricerche ci è capitato di leggere che i ragazzi della Generazione Z sono autonomi. In realtà dipendono dalla famiglia e con tutta probabilità continueranno a esserne dipendenti per molti anni a venire. Comunque sia alcune linee comuni possono essere tracciate. Innanzitutto l’individualismo. Su questo punto gli esperti di marketing si trovano generalmente d’accordo perché è il modo migliore di far sentire il giovane consumatore qualcuno mentre è un burattino addestrato a comprare e comprare come i polli in batteria sono addestrati a mangiare e mangiare. Siccome non si può nascondere più di tanto che nella realtà i teenager vedono i loro genitori vivere pieni di debiti e/o nella paura di perdere il lavoro (dipendente e non) ecco che gli esperti di marketing si trovano d’accordo nel ritenere che i ragazzi di oggi si sentono imprenditori di se stessi. Un modo tartufesco per non dire che la maggioranza di loro sarà precaria a vita. Comunque, al di là della trita ideologia borghese aggiornata al XXI secolo, ecco altre caratteristiche comuni ai giovani della Generazione Z: nuotano in Internet sin dalla prima infanzia; si relazionano tra loro in maniera molto intensa attraverso i social network; comunicano in maniera costante, rapida, contratta privilegiando la cultura visiva rispetto a quella tipografica (esattamente come fa la pubblicità); hanno una soglia di attenzione molto bassa e mediamente valutano la qualità e l’utilità delle informazioni ricevute in otto secondi.
Tutto procede secondo i piani delle imprese globali che operano
nell’economia immateriale? Non proprio. Quantomeno non per tutte. In Canada e negli USA, nell’ultimo
trimestre del 2017, circa 700mila persone sono uscite da Facebook e, nello
stesso periodo, nel mondo le ore trascorse su questo social sono diminuite di
50 milioni al giorno. Nonostante ciò il 2017 è stato un anno positivo per la
piattaforma di Zuckerberg perché la community è cresciuta arrivando a contare
oltre 2,1 miliardi di utenti al mese e 1,4 miliardi di persone che si
connettono quotidianamente. Per di più, rispetto al 2016, gli utili sono
cresciuti in maniera significativa. Ma qualcosa non va, Facebook perde appeal
se è vero come è vero che una quota di teenager migra su altri social. In
particolare su Instagram, che tra il 2016 e il 2017 ha triplicato il numero dei
propri utenti e ha la particolarità di essere una piattaforma esclusivamente
visuale. Quali sono i motivi di questo piccolo esodo della Generazione Z da
Facebook?
Gli esperti di marketing che ragionano sulla qualità delle relazioni on-line individuano parecchie cause. Ecco un elenco che oggi riguarda soprattutto la creatura di Zuckerberg ma domani potrebbe investire altri social se non i social in generale: il pericolo di diventare dipendenti; l’invidia e la gelosia che viene a ingenerarsi da parte di altri utenti; le aggressioni virtuali; il fatto che i social non costituiscono più una novità e per qualcuno si è molto più originali se non si è iscritti da nessuna parte; un’embrionale consapevolezza che la vita on-line è uno specchio deformante di quella off-line; le violazioni della privacy.
Nonostante tutti questi motivi di preoccupazione – a cui si aggiunge il recente scandalo Cambridge Analytica (la società accusata di aver utilizzato i dati di cinquanta milioni di utenti Facebook per creare messaggi mirati di propaganda politica) – c’è da dubitare parecchio che Facebook stia per precipitare. Così come non è precipitata Twitter, abbandonata di recente da diverse celebrities e che peraltro non ha mai funzionato come era nelle intenzioni dei suoi proprietari. E’ stata infatti un paio di volte lì lì per chiudere. Però Twitter rappresenta una delle colonne dell’immaginario made in USA e finché sarà politicamente utile continuerà a esistere (alla faccia del libero mercato). Così, stabilito che non si può affatto parlare di un riflusso dalla vita on-line da parte della Generazione Z e che allo stesso tempo l’entusiasmo per Facebook non è più quello di un tempo, per farci aiutare nella comprensione di quanto sta avvenendo nel mondo dei social network diamo la parola a un esperto di tecnologie informatiche, Adriano Rando, Country Manager Italy della società Medialogic S.p.A. di Roma.
La Generazione Z sta riconsiderando la propria presenza sui social e in particolare su Facebook. Qual è la sua opinione in proposito?
Adriano Rando ==>>
Questa nuova generazione tende sempre meno alla condivisione pubblica dei propri contenuti e aspira alla tutela della privacy. Dunque, sotto tali aspetti, vede i social come un problema o come uno strumento poco amico. Inoltre i ragazzi a cui lei fa riferimento amano comunicare ancora più rapidamente della Generazione Y (i nati fra i primi anni ’80 e gli inizi del 2000, detti anche Millennial, ndr). Perciò preferiscono strumenti di messaggistica istantanea come Snapchat o Whisper. Tenga poi presente che utilizzano molti dispositivi, conoscono diverse tecnologie e servizi utili per comunicare tra loro e per esercitare un’influenza su temi che gli stanno a cuore. Direi che sono molto più attivi delle altre generazioni e dalle ricerche risulta che tengono molto alla loro formazione. Tutto ciò li rende molto attenti a cosa comunicano e a come comunicano. Pertanto la veridicità dell’informazione costituisce un fattore decisivo.
Il caso Cambridge Analytica allontanerà ulteriormente da Facebook la Generazione Z e più in generale gli utenti di questo social?
Guardi, sono anni che si discute dell’utilizzo dei dati.
D’altra parte tutte le piattaforme digitali, social e non social, raccolgono informazioni
sui loro utenti, alcune le acquistano, altre le commerciano. Negli Stati Uniti
la compravendita di dati in genere non rappresenta un problema neppure per gli
utenti. E ciò si spiega con la storia di quel paese. In Europa, invece, per
molti sapere che si è minutamente profilati rappresenta una preoccupazione. Lo
scandalo Cambridge Analytica è sorto nel momento in cui si è fatto un utilizzo
politico dei dati. Penso che questo caso probabilmente provocherà dei
cambiamenti sia da parte di chi gestisce Facebook sia da parte degli utenti. Infatti
lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di aver sottovalutato questo tema e che
correrà ai ripari.
Continuando con il caso Cambridge Analytica a guadagnarci sembra siano aziende come Amazon e Apple, che fondano la propria produzione su beni tangibili, al contrario dei social che si fondano sulla produzione di beni intangibili come immagini, contenuti, comunicazione. Si tratta di una rivincita dell’analogico sul digitale?
Non direi. Amazon e Apple possiedono molti più dati di un social. Diciamo che
la loro riservatezza è tale da riuscire a occultare molto bene questo tesoro.
In realtà utilizzano dati di ogni genere per proporre o per vendere i loro
prodotti. E stia certo che non permettono a terze parti l’accesso a queste
informazioni.
Mi rendo conto che questa è la domanda delle cento pistole, ma orientativamente qual è il futuro dei social network?
Ultimamente questa domanda se la stanno facendo un po’
tutti, esperti del settore e non. Sicuramente siamo in una fase di stallo se si
pensa che Facebook nasce dieci anni fa, un tempo assai lungo nel mondo on-line.
Al momento tutto lascia prevedere che i social diverranno dei grandi hub dove
verrà offerta una vasta gamma di servizi. Già si vedono muovere i primi passi.
Pensi alle prove di collaborazione tra Tv e social per la creazione di canali
streaming e la trasmissione di eventi live. C’è poi tutta la partita delle
nuove tecnologie come la Realtà aumentata, l’intelligenza artificiale ed altre
ancora che sicuramente permetteranno ai social di evolvere. In quale direzione
penso che lo vedremo nel breve termine.
Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro (2018).
L’uomo si muove fra due poli opposti: la sua natura individuale o profana e la sua natura sociale o sacra. Come individuo, l’uomo cerca di perseguire un proprio fine particolare, come membro della società è portato a perseguire fini generali collettivi. <<=== E. Durkheim (Il suicidio, studio di sociologia).
Con questo estratto riportato dall’opera de “Il suicidio”, Durkheim rileva la sfera contraddittoria dell’individuo. La contraddizione maggiore, oggi, si vive nel mondo social. Il mondo social ha portato una rivoluzione strutturale della società, l’equilibrio sociale raggiunto prima dell’era social cade formandosene uno nuovo. L’individuo si è adattato a questo trasformando e dividendo in maniera netta e distinta chi è e chi aspira e mostra d’essere.
Qui sorgono i primi problemi; noi, come individui pubblichiamo la nostra vita, la nostra quotidianità, inviamo un messaggio tramite un codice che ha come obiettivo il dimostrare di essere sempre al meglio o ancor di più il meglio, chi riceve il messaggio, il destinatario, decide se quella pubblicazione è davvero da considerarsi come il meglio e questo è espresso tramite le visualizzazioni o i like. Una volta raggiunto l’obiettivo di ottenere quante più visualizzazioni e like possibili, all’individuo cosa resta? Quella che Durkheim chiama natura sacra o sociale dell’individuo è stata nutrita ma quella profana o individuale che importanza ha oggi per ognuno di noi?
La linea di divisione tra il virtuale e il reale, tra la finzione e la verità ormai è spezzata, annullata, tutto ciò che vediamo è diventata il vero e dietro uno schermo interagiamo, creiamo, giudichiamo ed etichettiamo la società intera. La società con l’avvento dei social, e ancora più evidenziato dalla pandemia che ormai affligge la vita di tutti, ha deteriorato i rapporti umani, la presenza, la comunicazione e il comportamento. Ogni scelta è influenzata dai social. Ci sono vari esempi che possono andare dall’estetica, alla cosmesi, l’abbigliamento, la tecnologia, addirittura la scelta degli studi da seguire. Il mondo social ha dato grandi opportunità a quelli che oggi sono conosciuti come influencer, cioè individui seguiti da milioni di follower che lavorano con queste piattaforme, basti pensare che alcuni influencer guadagnino fino a 10mila€ a post pubblicato e sono proprio gli influencer per primi che indirizzano le vite dei più comuni non riuscendo, appunto, più a distinguere il reale dal virtuale. Il pensiero sul nutrire la natura profana di ognuno di noi, il nostro io, deve restare l’obiettivo di ogni individuo, non lasciandoci comprare dai like o vivendo in un mondo fantastico e non reale. Come in ogni campo, anche in questo c’è chi lavora e merita il successo che ha, ma quei pochi e meritevoli non sono nati e cresciuti scorrendo per ore le dita sugli schermi dei pc o degli smartphone ma hanno nutrito la propria individualità, si sono formati, informati, hanno creato e come in ogni ambito, rischiato di scuotere i loro equilibri e percorrere la via del successo. L’equilibrio di questa società sarà riportato nel momento in cui le sfere divise e descritte da Durkheim si ricongiungeranno e si riuscirà non solo ad apparire ma anche a essere.
Nell’immaginario di molti italiani la Scuola Radio Elettra (S.R.E.) occupa un posto di rilievo. Dal 1951, anno della sua fondazione a Torino, fino alla prima metà degli anni ’90 tale scuola ha formato a distanza oltre un milione e mezzo di tecnici in Italia e all’estero. Purtroppo non si hanno studi approfonditi sulla storia della Scuola. E’ certo però che si è trattato di un fenomeno significativo che ha accompagnato la ricostruzione postbellica – col conseguente ingresso dell’Italia nel club delle nazioni più industrializzate – e che dagli anni ’80 ha subito i dolorosi contraccolpi dei processi di deindustrializzazione. Ma andiamo con ordine partendo dalle origini.
La S.R.E. nasce per iniziativa di Vittorio Veglia (laureato in chimica) e Tomasz Carver Paszkowski (ingegnere polacco stabilitosi in Italia nel 1947). La leggenda narra che i due abbiano avuto l’idea di mettere in piedi una scuola di formazione professionale per corrispondenza dopo aver facilmente riparato una radio. Pare abbiano pensato: se potevano farlo loro avrebbero potuto farlo anche molti altri. E’ assai più probabile che l’idea sia venuta a Vittorio Veglia durante un suo viaggio negli USA, paese in cui la formazione per corrispondenza era già una realtà consolidata; o ancor più semplicemente dopo la lettura da parte dello stesso Veglia di una rivista in lingua inglese che conteneva annunci di scuole professionali per corrispondenza. Sia come sia di una scuola del genere l’Italia aveva necessità per sostenere il decollo industriale del paese. D’altra parte nel 1951 gli addetti all’agricoltura costituivano ancora la maggioranza della popolazione attiva. Ma nel ventennio successivo si assisterà a una spettacolare impennata del comparto industriale, che nel 1971 assorbirà la maggioranza della forza-lavoro. Gli operai assunti nelle fabbriche passeranno infatti da 3.400.000 unità nel ’51 a 4.200.000 nel ’61 per arrivare a 4.800.000 nel ’71. E’ nel corso di questi due decenni che la S.R.E. conoscerà la sua affermazione e il suo successo diventando uno dei miti dell’Italia del boom economico.
La carta vincente di Veglia e Paszkowski fu quella di essere stati tra i primi ad aver individuato una domanda di formazione professionale a cui la scuola pubblica non dava risposta. All’epoca gli Istituti di Avviamento Professionale erano prevalentemente a indirizzo meccanico, mentre il titolo di perito elettronico richiedeva cinque anni di studio. Tenendo conto che nei primi anni ’50 meno della metà degli italiani aveva frequentato le scuole elementari (la cui licenza era obbligatoria per iscriversi all’Avviamento) va da sé che migliaia di persone piene di buona volontà e di voglia di fare si trovassero escluse da un mercato del lavoro che con la massiccia diffusione della radio e della televisione richiedeva tecnici specializzati nel comparto dell’elettronica di consumo. La S.R.E. colmò questo vuoto offrendo corsi (che andavano da una trentina a una cinquantina di lezioni ciascuno), a costi contenuti, senza limiti di età, senza che l’allievo dovesse spostarsi dalla propria residenza, senza scadenze prefissate (era l’allievo che decideva quando inviare a Torino i compiti e le schede di esame da correggere) e rilasciando un attestato finale.
Passando dalla business idea alla sua applicazione
uno dei vantaggi competitivi della S.R.E. fu quello di offrire un servizio di
alta qualità e, come si direbbe oggi, personalizzato. All’iscritto giungevano
via posta il materiale
cartaceo consistente in dispense molto ben realizzate dal punto di vista
didattico e il kit di componenti per eseguire a domicilio sia montaggi
sperimentali sia la realizzazione finale dell’apparecchio sul quale ci si
intendeva specializzare. A scadenze regolari (in genere ogni cinque o dieci
lezioni) l’allievo doveva
sostenere un test scritto che inviava per posta alla Scuola, la quale lo rinviava
al mittente con le correzioni e il punteggio. Non solo. Se un’apparecchiatura
montata dall’allievo non funzionava poteva essere spedita alla Scuola, che la
riparava e la rimandava all’allievo gratuitamente. Inizialmente i
dispositivi da realizzare erano Radio e Radio FM, ma rapidamente si passò alla
Tv, alla costruzione di strumenti elettronici
di misurazione e persino alla possibilità di realizzare a casa propria un piccolo
motore fuoribordo.
Una volta terminato il corso per due settimane
l’allievo aveva la possibilità di frequentare gratuitamente i laboratori della
S.R.E. dove veniva attentamente seguito dai consulenti della Scuola. In
proposito va ricordato che diversi di questi consulenti provenivano dal
Politecnico di Torino, la cui vicinanza facilitò senz’altro l’iniziativa di Veglia e
Paszkowski, così come la favorì il fatto di trovarsi in uno dei vertici del
triangolo industriale. Trovandosi in una delle realtà più sviluppate del
paese i due fondatori guidarono la Scuola secondo i criteri manageriali allora
più avanzati. Basti pensare che a metà degli anni ’50 la S.R.E. disponeva
di una propria litografia per la stampa delle dispense, di un impianto
meccanografico IBM a schede perforate per la gestione delle spedizioni e di un
ufficio postale interno (come aziende assai più grandi quali la FIAT e la RAI).
Negli anni d’oro della sua esistenza la S.R.E. arrivò
a contare 150 dipendenti (di cui 25 tra ingegneri, periti elettronici e
tecnici) e un centinaio di collaboratori esterni.
Un altro vantaggio competitivo che permise alla S.R.E. di battere la concorrenza fu una strategia di vendita molto ben articolata. Innanzitutto i corsi potevano essere acquistati a rate. Ma c’era di più: chi non desiderava il corso completo poteva comprare singole dispense o una serie di dispense di suo interesse. Un’offerta assai elastica che però non incideva sulla qualità della didattica: che acquistasse l’intero corso o una sola dispensa, che concludesse gli studi nei tempi stabiliti o in ritardo l’allievo era seguito col medesimo impegno da parte della Scuola. La politica del prezzo era poi affiancata da una promozione che andava dalle presentazioni porta a porta agli episodi su Carosello passando per massicce inserzioni sulla stampa.
L’enfasi dei messaggi pubblicitari era posta su un insieme di fattori che alimentavano l’immaginario collettivo di un’epoca lanciata a tutta velocità verso la modernizzazione: la promozione sociale, l’autorealizzazione, la fiducia nella tecnologia e il mito del progresso. “Diventa qualcuno e stupiscili tutti”, “Ecco la tua grande occasione per dimostrare quanto vali”, “Impara a casa tua una professione vincente” sono alcuni dei numerosi messaggi promozionali con cui la S.R.E. promuoveva i propri corsi e da cui – al di là dell’insistenza sulla volontà individuale – emerge un sistema di valori fondato sulla funzione civilizzatrice del lavoro. Il risultato complessivo di questo modello d’offerta formativa a distanza furono decine di migliaia di iscritti, l’esponenziale moltiplicazione dei corsi (Transistor, Elettrotecnica, Hi-Fi Stereo, Regolo Calcolatore, Elettrauto, Fotografia, Inglese ecc.) e l’espansione della S.R.E. all’estero (Francia, Germania, Spagna e alcuni paesi africani). In un parola la Scuola Radio Elettra divenne sia un marchio rappresentativo del più complessivo sviluppo economico sia una proposta culturale che vedeva nel lavoro la base della vita personale e sociale.
La S.R.E. trovò così spazio nell’immaginario collettivo degli italiani. Dagli anni ’50 fino a tutti gli anni ’70 e oltre dire Scuola Radio Elettra significava evocare la volontà di riscatto dalla povertà e riconoscere al lavoro la sua centralità nei processi di formazione dell’identità. Veglia e i suoi soci assecondarono tali tensioni e anzi l’alimentarono più che poterono: “Ero un manovale. Ora sono un tecnico specializzato” recitava una delle tante inserzioni pubblicitarie della Scuola. All’epoca i tecnici erano per lo più dipendenti dell’industria. Ma non era infrequente il caso di allievi della S.R.E. che dopo aver superato il corso aprivano piccole attività in proprio (ad esempio negozi per la riparazione di radio, Tv e impianti stereo). L’eccellente strategia di vendita, la qualità dei corsi, l’alta professionalità del corpo docente e i cospicui investimenti in pubblicità crearono un legame molto stretto tra la Scuola e i suoi allievi. Tanto che sorsero spontaneamente i Club S.R.E. Il primo nacque a Roma nel 1971 e poi in numerose altre città della penisola. Alcuni Club arrivarono persino a formare squadre di calcio amatoriali.
Venne così a costituirsi una rete associativa che faceva della condivisione del sapere tecnico il motivo della propria esistenza. Veglia e Paszkowski sostennero con decisione la proliferazione dei Club S.R.E. tramite l’invio di materiali, la realizzazione di un logo (visibile insieme a tanto altro materiale sul sito museo.scuolaradioelettra.it), visite periodiche nelle sedi e delegando un proprio collaboratore al mantenimento dei rapporti con gli stessi Club. Sfortunatamente non si hanno studi di questa esperienza associativa. Possiamo però aggiungere che uno dei canali attraverso i quali i Club S.R.E. comunicavano tra loro e con la stessa Scuola era il mensile RADIORAMA (distribuito per abbonamento postale conteneva la rubrica “L’angolo del Club”). Fondato nel 1956 da Veglia fu un punto di riferimento per gli allievi della Scuola e non solo. In buona sostanza la S.R.E. diede alla passione per la tecnologia una vetrina sul mondo e alla laboriosità di tanti italiani un modo per esprimersi.
Ancora oggi in alcuni resta viva la memoria di una scuola che non aveva eguali, che alimentava la cultura tecnologica e lo spirito di intraprendenza in chi aspirava alla promozione sociale. Il più noto “custode della memoria” della S.R.E. è sicuramente Giuseppe Tusini. Modenese, classe 1942, perito elettrotecnico con un lungo trascorso alla FIAT Trattori ed ex allievo della Scuola (corso per Tv) Tusini vanta una collezione di materiali della S.R.E. davvero imponente. Da quanto ci ha raccontato la sua raccolta (in parte visibile sul sito www.gtusini.it) comprende: 1) il materiale e le lezioni dei corsi radio, tv (sia a valvole che a transistor), Hi-Fi, strumentazione, elettrotecnica, elettrauto (escluse le dispense), antifurto e altro ancora dal 1952 sino alla prima metà degli anni ’70; 2) materiali di altre scuole quali: Radio Scuola Italiana, Scuola Politecnica italiana, Maymo Escuela Radio (spagnola); 3) il materiale delle sedi estere della S.R.E., tra cui: Eratele (spagnola), Euratele (tedesca), Eurelec (francese). Per Tusini i motivi che giustificano tanta dedizione sono diversi. Innanzitutto quello di non far cadere nell’oblio il patrimonio di un’esperienza molto importante nel campo della formazione professionale in cui il fare bene le cose si coniugava con il bene collettivo, nel senso di un progresso sociale generalizzato. Poi perché la Scuola ha permesso a molti giovani di trovare lavoro o di creare una propria attività. Infine perché le apparecchiature dell’epoca si caratterizzavano per un’estetica che è andata perduta con i processi di miniaturizzazione dei dispositivi elettronici ma che è bene non dimenticare. A quest’ultimo proposito, la recente moda del vintage ha recuperato il gusto per le vecchie radio a valvole attraverso la loro commercializzazione on-line e off-line.
Tornando alla cronistoria il passaggio dell’Italia
da una società agricola a una società industriale, l’abilità imprenditoriale di
Veglia e Paszkowski, l’eccellente qualità dell’offerta didattica, una
promozione dei corsi molto avanzata e le concrete opportunità di lavoro che si
aprivano per migliaia di persone destinate altrimenti ad attività dequalificate
furono tra i motivi che decretarono il successo della Scuola Radio Elettra. Ma
alla fine degli anni ’70 iniziò il processo di deindustrializzazione
dell’Italia e la crescita del terziario, il quale, già maggioritario nel 1981,
nel 1986 raccolse la percentuale più alta della forza-lavoro: 56,5%. In parole
povere questa trasformazione significò meno posti lavoro nel comparto
industriale per il quale la S.R.E. preparava i suoi specialisti. Per restare a
Torino, alla fine degli anni ’70 la FIAT aveva 130mila dipendenti, mentre oggi
in Italia i dipendenti della Fiat Chrysler sono meno di 23mila (contro gli oltre 43mila del 2003). A questa dinamica delle forze produttive va
aggiunta la trasformazione delle stesse tecniche di produzione nell’elettronica
di consumo: radio, Tv e giradischi necessitavano sempre meno di riparazioni
perché era più conveniente acquistare un nuovo prodotto. Crollò così un’altra
fonte di lavoro per i tecnici che uscivano dalla Scuola.
Tra
la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 inizia il declino della S.R.E. Nel dicembre del 1981 chiude
RADIORAMA. Sull’ultimo numero della rivista Vittorio Veglia firmerà un laconico
comunicato intitolato “Congedo”. Nel 1982 Tomasz Carver Paszkowski
lascia l’azienda per motivi di salute e successivamente la Scuola passa in mano
ai figli dei due fondatori. Ma le iscrizioni ai corsi calano anno dopo anno.
Nel 1995 la Scuola fallisce e nel corso del 1996 è acquistata dal CEPU (Centro
Europeo per la Preparazione Universitaria). I numerosi Club S.R.E. resistono
ancora per qualche anno fino a estinguersi uno dopo l’altro. Fine di una storia
gloriosa? Nient’affatto. La Scuola Radio Elettra ha superato la crisi degli
anni ’90 e oggi si trova a Città di Castello (in provincia di Perugia). E’
attiva in un mercato della formazione a distanza profondamente mutato con l’avvento
dell’e-learning e forte di un marchio storico ancora conosciuto da molti. La
Scuola possiede un proprio sito (www.scuolaradioelettra.it) ed è presente su
Facebook dove è visibile anche il profilo dei Consulenti della S.R.E.
Nel corso degli anni l’offerta didattica è stata
aggiornata con l’introduzione di nuovi corsi nei settori storici
dell’impiantistica e dell’elettronica (ad esempio, Tecnico fotovoltaico e Tecnico dei sistemi
domotici) e con l’apertura verso altri comparti: informatica, ristorazione,
bellezza, salute e servizi sociali. Dalla S.R.E. escono oggi cuochi, operatori
sociosanitari, estetisti, Web-designer e tante altre figure professionali. Sul
piano organizzativo la didattica prevede lezioni on-line e in aula, laboratori
in presenza, possibilità di tirocinio, rilascio del titolo. Ovviamente la
modalità di erogazione dei corsi si è evoluta di pari passo con la tecnologia
grazie alla creazione della piattaforma Fedro per la fruizione on-line delle
lezioni. La S.R.E. conta oggi 35 unità tra dipendenti e collaboratori, ha un
corpo docente di 85 insegnanti e 670 allievi. Come si vede si tratta di una
struttura più piccola rispetto a quella del passato ma in continuità con lo
spirito dei fondatori. Una continuità senza nostalgia che punta ancora
sull’importanza del lavoro per la crescita degli individui e per lo sviluppo della
società.
Prof. Patrizio Paolinelli – via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.
Intervista a Simonetta Bisi di Patrizio Paolinelli
Simonetta Bisi insegna sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato numerosi studi sulla condizione delle donne, sui temi dell’identità e dei diritti umani. La intervistiamo per una riflessione sul ruolo della solidarietà nell’anno del Covid.
<< == Simonetta Bisi – sociologa
Quali significati ha assunto la solidarietà durante la pandemia?
Penso che la solidarietà indichi
essenzialmente il legame di ciascuno con tutti. Un’empatia che comporta la
capacità di identificarsi con gli altri, in questo caso soggetti alla stessa
tragedia. C’è quindi un’etica nella solidarietà che rifugge dall’egoistico
“pensa a te stesso” per guardare all’altro in difficoltà. E questo vale
sia a livello dei governi sia a livello individuale.
Sarebbe un bell’esempio di
solidarietà togliere il brevetto ai vaccini contro il Covid per ampliarne la
produzione anche in quelle nazioni che non hanno la possibilità di comprare i
milioni di vaccini necessari. Così come vaccinare per primi i soggetti fragili
e gli anziani.
La solidarietà si esprime pure
nei gesti quotidiani, come il rispetto delle regole – mascherine,
distanziamento, isolamento – il sostegno, anche semplicemente con una
telefonata, ai tanti che vivono in solitudine questa necessaria reclusione, alle
famiglie non più in grado di pagare affitto, mutui e bollette.
La solidarietà sociale deve
cercare di mitigare le disuguaglianze che, già presenti, si sono ulteriormente
aggravate, ricorrendo, per esempio, a una tassazione speciale sui grandi
patrimoni, a incentivi statali, a forme di sostegno ai redditi e a capacità di
creare lavoro.
Dinanzi al Covid il volontariato laico e religioso si è mobilitato in forze. Quale impatto ha avuto nel contrasto all’incremento della povertà registrato da un anno a questa parte?
La
capacità di “aiuto” delle organizzazioni di volontariato è ben visibile. Il
loro sforzo ha fatto da argine alle situazioni di più grave disagio, ha
consentito a molti di resistere e di sperare. Non si tratta solo della
possibilità di nutrirsi a pranzo e a cena – le lunghe file davanti alle mense per
i poveri documentano l’entità della crisi – ma di un aiuto concreto, parlo di affitto,
bollette e così via, un aiuto orientato a progetti di reinserimento lavorativo.
Le
persone vanno sostenute nel trovare un loro percorso, perché non si
accontentino di lavoretti in nero e ricomincino a sperare in una vita vissuta con
piena dignità. Pacchi alimentari, vestiario, medicinali e generi di prima
necessità servono a tamponare l’emergenza. Il volontariato deve andare oltre, e
cerca di farlo.
Lei opera come volontaria al Centro ascolto Caritas della parrocchia di San Gabriele a Roma. Può raccontarci la sua esperienza?
La
parrocchia si trova in un quartiere borghese e benestante. Questo contesto stimola
le persone a venire da noi soprattutto per cercare un lavoro. Ma diverso è lo
scopo dell’ascolto: fare emergere i bisogni profondi, comprendere situazioni
familiari difficili, dare sostegno legale o psicologico secondo le necessità.
Se
fino a qualche anno fa erano soprattutto donne a rivolgersi al nostro centro,
adesso vengono da noi anche uomini, per la maggior parte migranti. Sono i più
bisognosi perché sembrano vergognarsi, mentre dobbiamo portarli ad aprirsi in
modo da comprendere le loro difficoltà e cercare anche con l’empatia di
sorreggerli.
È
un compito difficile, richiede attenzione e preparazione – la Caritas infatti prepara
all’ascolto con corsi ad hoc – per evitare superficialità di giudizio o
pietismo. Un’esperienza preziosa, arricchente e, devo dirlo, gratificante. Ogni
volta che riusciamo a risolvere una situazione difficile ci si sente appagati.
Gli immigrati africani sembrano essere la categoria che in quest’anno di pandemia ha sofferto maggiormente rispetto ad altre fasce marginali della società. Per quali motivi?
In
una triste graduatoria tra gli invisibili, posso affermare che i più invisibili
sono proprio gli africani. Tra questi una gran parte è arrivata in Italia sui
barconi, è segnata dalle sofferenze subite e dalla delusione provata all’arrivo
in Italia. Non basta avere – spesso dopo anni d’attesa – il permesso di soggiorno
per motivi politici o altro. Una volta entrati in possesso dell’agognato
documento vengono abbandonati a sé stessi, facile preda di varie forme di
schiavismo.
Situazione
diversa, per esempio, di chi arriva nel nostro Paese per ricongiungimento familiare
o con amici già integrati. Così giungono da noi dopo anni di peregrinazioni e
di delusioni, demotivati e spesso depressi. Trovare una strada per loro è molto
difficile: essere maschio e africano è un handicap per i pregiudizi e gli
stereotipi di cui sono vittime. Su queste situazioni anche le organizzazioni di
volontariato incontrano difficoltà: dare l’aiuto economico è necessario ma è
momentaneo, non consente all’assistito di vivere dignitosamente.
Sarebbe
necessario un aiuto diverso, e non solo per loro. Serve restituire dignità
attraverso un percorso che tenga conto delle singole peculiarità. Per esempio,
stiamo seguendo un nigeriano, fuggito dal suo Paese perché cattolico, che ha
dovuto lasciare moglie, figli e il suo lavoro di maestro elementare. Dopo due
anni nel centro di Lampedusa è uscito con il suo prezioso documento, ma senza nemmeno
un indirizzo o un nome a cui rivolgersi. Arrivato dopo varie vicissitudini a
Roma, è venuto da noi e attualmente è seguito da uno psicologo del nostro
volontariato. Stiamo cercando di trovargli una sistemazione che gli ridia il
senso della dignità. Ma non sarà facile: troppa chiusura da parte di chi
potrebbe accoglierlo. E il suo non è certo un caso isolato. Così c’è il rischio
che queste persone allo sbando, ma legalmente in Italia, si facciano
coinvolgere da un sistema di solidarietà perversa: quello della criminalità.
Nella Parrocchia dove lei
opera sono in larga misura le volontarie a occuparsi delle persone in
difficoltà. Come spiega questo fenomeno?
Rispondere
che il motivo sta nella tendenza alla “cura” delle donne sarebbe banale e non
vero. Se di attitudine femminile dobbiamo parlare è forse quella di una migliore
intesa con la parola “gratuità” e con l’apertura mentale verso un lavoro
motivante.
Mi
sono chiesta perché a tanti uomini in pensione, quindi con maggior tempo
libero, non venga in mente di sperimentare una nuova strada, di offrirsi
volontario non una tantum, tipo partecipare al pranzo di Natale della Caritas,
ma con lo stesso impegno di un lavoro, peraltro con modalità aperte e limitate
a qualche ora settimanale. Mi chiedo: opera forse un pregiudizio? Forse perché
spesso questa attività si svolge in parrocchia? Perché non ha uno status?
Troviamo anche maschi tra i volontari, però con uno “status” ben definito,
anche se ex professionisti: medici e avvocati soprattutto. Non saprei dare
spiegazioni convincenti, però confido nei
giovani. I quali, ogni volta che ne abbiamo avuto bisogno, si sono attivati.
Ragazze e ragazzi in egual misura.
Patrizio Paolinelli – via Po Cultura, settimanale del quotidiano “Conquiste del Lavoro (aprile 2021)